Chiaro Mario a cura
Lo spartito della «Rete di Trieste»
2025/5, p. 42
Oggi non ci è chiesto di parteggiare, ma di partecipare alla vita pubblica con più slancio personale e collettivo. La politica è lo strumento fondamentale per servire le persone e trovare soluzioni concrete nell’ascolto del grido dei poveri e della terra, minacciati dalle guerre e dalla crisi climatica.

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PARTECIPAZIONE E POLITICA
Lo spartito della «Rete di Trieste»
Oggi non ci è chiesto di parteggiare, ma di partecipare alla vita pubblica con più slancio personale e collettivo. La politica è lo strumento fondamentale per servire le persone e trovare soluzioni concrete nell’ascolto del grido dei poveri e della terra, minacciati dalle guerre e dalla crisi climatica.
a cura di MARIO CHIARO
Circa 400 amministratori locali di ispirazione cristiana (sindaci, assessori, consiglieri comunali, militanti di partiti e di liste civiche) si sono riuniti a Roma per dare far crescere il gruppo che si è autoconvocato in parallelo alla cinquantesima Settimana sociale dei cattolici svoltasi a Trieste (con il tema: «Al cuore della democrazia»; cfr. Testimoni 9/2024). L'urgenza di costruire questa rete nasce dal bisogno di superare l’isolamento di chi opera nelle amministrazioni pubbliche: per questo non si pensa a creare un partito, ma a offrire uno spartito. Il primo intervento è stato affidato a Elena Granata, vice presidente del Comitato organizzatore delle Settimane sociali, con il titolo Inventori dei luoghi nel cuore della democrazia. La relatrice ha introdotto il suo ragionamento puntando su «valori non notiziabili», irrilevanti per la politica e per i media: riguardano i poveri, gli anziani senza casa, i giovani emigrati, i migranti, i carcerati e i giovani. Occorre dunque lasciarci alle spalle i «valori non negoziabili», che sono stati divisivi anche dentro il mondo cattolico. Come diceva il cardinale Martini, «essere ancorati ai valori non vuol dire rinunciare all’esercizio della mediazione, della traduzione dei valori in prassi».
La partecipazione e la politica
Nei lavori delle Rete si è riflettuto sulla difficoltà della partecipazione: «Ci siamo abituati che sia normale che alcuni dominino la scena, possano prendere la parola, persino rubarla, quando vogliono, mentre altri debbano stare nell’ombra, passivi e subalterni, come se il loro pensiero contasse meno. Abbiamo organizzato istituzioni che si fondano su un’ineguale ripartizione della partecipazione […] Nelle piccole e grandi arene di confronto (dal consiglio comunale al programma televisivo), prende più facilmente la parola il più anziano ed esperto rispetto al giovane, l’uomo rispetto alla donna, quello che ha un ruolo più alto (prete, vescovo, presidente, docente), l’ultimo arrivato, chi urla di più». Così non si generano «luoghi del pensiero», si impoverisce la società rendendola più sterile e incapace di confronto. Occorre un nuovo stile di cordialità trasversale, rigettando la conflittualità e l’animosità che serpeggia anche nelle comunità cristiane.
Non parteggiare, ma partecipare
Va superata la logica del pre-politico: «Questo è l’appello che emerge dal magistero di papa Francesco. Oggi, poiché la politica ha perso credibilità e consenso, dobbiamo riscoprire insieme la nostra comune vocazione verso le cose pubbliche e civili e, in forme diverse, tornare tutti a impegnarci in prima persona. Tornare a pensare la “cosa pubblica” come cosa di tutti e di nessuno, che sopravvive solo se sappiamo rigenerarla e reinventarla. Francesco è politico quando parla di clima, ambiente e della natura sfruttata dalle attività umane. È politico quando promuove la fraternità universale. È politico quando difende il diritto alla casa, alla terra e a un lavoro dignitoso. È politico quando affronta i temi della pace, dell’Intelligenza Artificiale, della bellezza e dell’arte. Essere cristiani oggi significa riconoscere una vocazione universale, personale e collettiva alla politica. La politica, infatti, è lo strumento fondamentale per servire le persone, specialmente i più deboli e gli emarginati. È attraverso la politica che si possono trovare soluzioni concrete per rispondere al grido dei poveri e della terra, entrambi minacciati da guerre e dalla crisi climatica. Nessuno di noi può stare in panchina, delegare, evitare di sporcarsi le mani o rifugiarsi in una dimensione (solo) associativa, di volontariato, di animazione sociale».
Analfabeti di democrazia
La professoressa Granata ha poi denunciato le forme di appropriazione dei beni pubblici, l’uso indebito della forza, la xenofobia e il razzismo, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali per ottenere un profitto immediato, il disprezzo delle persone costrette all’esilio, la fiducia in una tecnocrazia salvifica che si affida ciecamente alle tecnologie e al digitale. E ha aggiunto: «Abbiamo a cuore la salute, ma non ci mobilitiamo per la sanità pubblica. Abbiamo a cuore l’educazione, ma non ci mobilitiamo per la scuola. Abbiamo a cuore il benessere personale, ma non ci mobilitiamo per la difesa dell’ambiente. Il mondo della comunicazione e dei social va radicalmente in questa direzione, perché ha capito che la narrazione paga in termini di attenzione più dell’approfondimento e della profondità delle notizie. Da tempo i partiti hanno spostato la loro attenzione dai diritti sociali e collettivi a quelli individuali. Tutto pare iniziare e finire con la persona, priva di reti, di relazioni, di contesto, di appartenenze». Nella Settimana sociale di Trieste sono risuonate con forza le parole del presidente Mattarella: «Ogni generazione, ogni epoca è chiamata a misurarsi con la prova dell’alfabetizzazione, con la realizzazione concreta della vita democratica». Impegnarsi affinché non vi siano più «analfabeti di democrazia» è un obiettivo che riguarda non solo chi detiene responsabilità politiche, ma anche la società civile. Oggi purtroppo prevale la forma di un’apatia diffusa, una confusione tra parteggiare e partecipare, una discussione che sembra un combattimento nell’arena televisiva, dove siamo vittime di manipolazioni e disinformazione. Le grandi sfide che abbiamo davanti la sfida energetica (produrre e consumare energia in modo alternativo); quella climatica (dotarsi di strumenti per mitigare il riscaldamento del pianeta); quella sanitaria (mantenere il sistema di welfare, rendendo davvero universale il diritto alla salute); la crisi della scuola richiedono di uscire dal particolare e dal singolo interesse.
Stare al centro o stare nel mezzo?
Un punto che in modo particolare sta a cuore alla Rete di Trieste è superare l’annosa questione dei cattolici di «stare al centro», per affermare invece la necessità di «stare nel mezzo». Granata ha sottolineato che la differenza tra stare al centro e stare nel mezzo è stato oggetto della riflessione del cardinale Martini e dell’azione del sindaco Giorgio La Pira. «L’attesa della povera gente e La difesa della povera gente (entrambi del 1950) sono testi fondamentali per comprendere l’orizzonte ultimo dell’impegno sociale e politico di Giorgio La Pira. Il suo uso delle parole non è mai casuale: colpisce, ad esempio, la scelta di scrivere “povera gente” anziché “gente povera”. In questa inversione si coglie tutta la sua capacità empatica: il sindaco di Firenze si sente coinvolto nel destino dei suoi concittadini, riconoscendoli poveri non solo per la loro condizione materiale, ma come vittime di un sistema ingiusto ed escludente. È a loro che La Pira sente di dover rispondere. Il sindaco conosce le statistiche, ma sa dare un volto ai numeri. È consapevole della quantità di famiglie senza casa, dei lavoratori a rischio licenziamento: questi sono i veri protagonisti del suo impegno etico e politico». La Pira sapeva riconoscere i bisogni, per trovare soluzioni e agire come se quei problemi fossero propri. Oggi si nota invece che la politica locale si concentra più sull’attrattività economica che sulla qualità di vita dei cittadini. Spesso si trascura la città dell’abitare e del lavoro. La speculazione cresce e il diritto alla casa e alla dignità lavorativa si affievolisce.
Il legame indissolubile con i luoghi
In questo contesto, senza luoghi reali, senza lo spazio-tra-le-case, senza i quartieri e le piazze dove le persone si incrociano, la comunità non comunica e si trasforma in una passiva spettatrice. «La democrazia è tale se “si fa luogo”, se si incarna nelle storie locali, che poi diventano domande, servizi e istituzioni per tutti. È questa la storia di Maria Montessori, di Adriano Olivetti, di Franco Basaglia, di Danilo Dolci». Nei luoghi si possono ricostruire le condizioni della partecipazione popolare e del confronto, come elemento di salute del corpo sociale. L’oratrice ha mandato un chiaro messaggio ai presenti: «Non bastano le buone pratiche, servono le azioni, servono i gesti, Serve riannodare il filo tra l'agire e il pensare. Serve un agire pensante che abbandona l'illusione consolatoria dei principi». Nelle ultime battute dell’intervento, la relatrice ha voluto sottolineare che il cambiamento non avviene per proclami, ma attraverso nuove azioni concrete nelle realtà locali. «Siamo un paese che ha sviluppato una modestissima confidenza con il futuro, perché siamo oltre misura innamorati del nostro passato. Siamo un paese che coltiva in modo ossessivo la memoria, fatica a fare i conti con il presente e non contempla di poter costruire il futuro […] ci sentiamo ricchi del nostro passato, ma questo comporta il rischio di vivere in modo nostalgico. Quante volte ci siamo voltati indietro pensando quanto era bella la Democrazia Cristiana, quanto era bello quando i cattolici erano uniti in un partito». Tutti siamo di fronte a un appuntamento con la storia, a un appuntamento con la nostra dignità, che nascerà soltanto dalla capacità di ascolto a partire dagli ultimi, dalle donne e dai poveri.