ESPERTI DI PREGHIERA, O DI PREGHIERE?
2025/4, p. 13
Si tratta di distinguere tra la religiosità smascherata da Gesù, e quella da lui praticata, a partire dal suo modo di pregare.
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Testimoni
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VITA CONSACRATA
Esperti di preghiera, o di preghiere?
Si tratta di distinguere tra la religiosità smascherata da Gesù, e quella da lui praticata, a partire dal suo modo di pregare.
RINO COZZA, csj
È detto nell’Enciclica Deus Caritas est: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte, e con ciò la direzione decisiva».
Da qui la necessità di chiedersi che cosa significhi «essere» ed «operare» da consacrati/e, partendo dal fatto che al cuore della consacrazione non si pone – non dovrebbe porsi – innanzitutto una ideologia o solo una funzione, ma un «evento», cioè un «incontro» ricco di stupore e di fascino, tale da cambiare la vita.
Si tratta di distinguere la religiosità smascherata da Gesù, da quella da lui praticata, a partire dal suo modo di pregare.
Come pregava Cristo?
I vangeli ci presentano Gesù come una persona profondamente unita al Padre, al quale faceva continuamente riferimento ponendolo come modello al quale somigliare (Mt 5,43-45). È certamente probabile che pregasse secondo le consuetudini dei contemporanei, per i quali, tanto la preghiera del mattino come quella della sera cominciava con la recita dello «Shemà Israel». (Deut 6,4-9)
Era questa una preghiera commossa che invitava a vivere Dio come amico e Signore: «ascolta Israele […] amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Deut 11,13).
A questa faceva seguito una preghiera formata da diciotto benedizioni: tipica preghiera giudaica che era un grido del cuore nei confronti di colui che è la fonte di tutto ciò che è buono.
Gesù imparò a pregare così; tuttavia, non si limitava a pregare nei tempi e luoghi prescritti, ma cercava ulteriori incontri silenziosi con il Padre, individuando spazi che dessero respiro all’anima: un tu a tu con Dio, per liberare le sorgenti della vita.
A volte – è detto nel Vangelo - si alzava prima dell’alba e andava in qualche luogo solitario a pregare; altre volte, alla fine della giornata si congedava da tutti, e prolungava la preghiera del tramonto (Mc 1,35; 6,46; 14,32-42; Lc 6,12).
Con il Padre, Gesù si rapportava familiarmente: gli faceva richieste, parlandogli nello spazio profano della campagna, del monte e della convivenza. Talvolta la gente lo vedeva pregare «portando gli occhi al cielo». (Mc 6,41; 7,34;9). Era una preghiera semplice e spontanea, espressione umile e sincera di ciò che stava vivendo.
Esperienza di preghiera
Quando pregate non sprecate le parole come fanno i pagani (Mt 6,7-8)
Questo invito dell’evangelista Matteo mette in guardia dal credere d’essere ascoltati a forza di parole (Mt 6,8). Ma la preghiera non è quella data dalla quantità di parole, credendo raggiunga il suo fine solo per essere posta, come un tempo si pensava per i sacramenti, ma invece è quella che porta ad avere uno sguardo che nutre l’incontro con Cristo. Una preghiera dunque che parta dal farsi carico di amore, con uno sguardo curato da un particolare collirio, quello della commozione – come detto nel testo di Luca - che portò il samaritano a fermarsi per soccorrere colui che aveva bisogno del suo aiuto.
Da qui la necessità di passare dall’essere riconosciuti dal numero di preghiere, all’essere riconosciuti per l’«esperienza di preghiera» cioè di quella che porta a stare in ascolto, attenti al soffiare sottile dello Spirito.
È quanto già diceva nel IV sec. Evagrio il Pontico: «non compiacerti del numero dei salmi che hai recitato, esso getta un velo sul tuo cuore: vale di più una sola parola nell’intimità che mille stando lontano».
Il senso di questo invito lo intravvediamo nel dire di papa Francesco: «Noi pensiamo che pregare sia parlare, parlare, parlare… No! Lasciati guardare dal Signore: quando lui ci guarda, ci dà forza e ci aiuta a testimoniarlo».
E ancora in un’altra circostanza il papa afferma: «La preghiera è per me sempre altresì un’orazione «memoriosa», piena di ricordi; memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare […] e mi chiedo che cosa ho fatto io per Cristo. Che cosa devo fare per Cristo?».
In questo modo di pregare, il silenzio non è vuoto né solitudine, ma spazio di incontro che porta a vivere la vita in una maniera diversa, ascoltando fino in fondo il cuore di un Dio che vuole essere padre, prefiggendo per tutti una vita felice e degna.
Dalle informazioni che ci hanno lasciato i Vangeli, risulta chiaro che Gesù intendeva aprire cammini di incontro con il Padre che non coincidevano con il pensare di allora la relazione con Dio. Da qui la necessità, da lui avvertita, di incontrare il Padre anche in altra maniera da quella di un’epoca in cui la presenza del sacro era prevalentemente intravista nello spazio del tempio, per cui non stupisce, se alla samaritana (Gv 4,21) che gli chiedeva dove trovare Dio, la risposta di Cristo sia stata: «Credimi donna […] è giunto il momento in cui i veri adoratori lo adoreranno in Spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori» (Gv 4,21.23). Con queste sue prese di distanza, ha inteso porre l’elemento centrale della religiosità innanzitutto nella vita stessa delle persone, in particolare nell’etica della compassione e della misericordia: questo per lui era veramente sacro, ed è questo ciò che in qualche misura può farci diventare quello che lui è stato.
Pregare, non è un fatto di labbra ma di cuore
Per nutrire la vita dei discepoli, il Maestro lasciò in eredità una preghiera condensata in poche parole: «Padre nostro […]», in cui fa intravedere i desideri che pulsavano nel suo cuore. Una preghiera breve, concisa, che prendeva le distanze dal tono solenne con cui i contemporanei si rivolgevano a Dio. Preghiera della quale la cosa più originale era senza dubbio il fatto che invocasse il Padre con una espressione inusuale: «Abbà», che era la prima parola balbettata dai bambini della Galilea.
Abbà, parola che evoca l’affetto, l’intimità e la confidenza; parola che si arricchisce inoltre di tutte le valenze espresse nella parabola del figlio perduto, quali: abbraccio, bacio, misericordia, festa, gratuità dell’amore, banchetto preparato da colui che attende il figlio alla fine di sentieri sbagliati, per essere un alleato della sua felicità. Con questa espressione intendeva entrare in una atmosfera di fiducia e intimità che impregnava quanto andava dicendo, avvertendo Dio come qualcuno di molto vicino.
L’abitudine all’uso del termine abbà produsse successivamente un grande impatto nelle comunità di lingua greca da tramandarlo in lingua aramaica come eco dell’esperienza personale vissuta da Cristo.
Pertanto, è un pregare vero, quello che nasce dalla Parola di Dio che si coglie nel Vangelo: Parola che si fa incontro se mentre si legge, ci si sente letti e interpellati in prima persona, e portati a rispondergli - come Pietro quando Gesù gli chiese se voleva andarsene - «Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
È dunque preghiera, quella che porta ad avere uno sguardo panoramico di fede, senza il quale «la vita perde gradatamente senso: il volto dei fratelli si fa opaco da rendere impossibile scorgervi il volto di Cristo.
Pregare «oggi»
Pregare è «custodire le parole che oggi io (il Signore) ti dico».
Il termine «oggi», sta a dire che la preghiera è tale se è a casa del tempo, al fine di rinnovare lo sguardo con cui guardare i fatti, perché il mondo e la gente cambiano. Perciò non è preghiera quella che addormenta nelle consuetudini di sempre, essendo vera quella che è in grado di portare le persone ad essere discepole della «lieta notizia», vivendo una vita che sappia operare il collegamento tra le proposte del Vangelo e le situazioni storiche, per annunciarlo gioiosamente. Ma per essere capaci di ciò, è prima necessario aver sperimentato che il Vangelo ha cambiato la propria vita, e continua a cambiarla conducendola alla radice di quel vivere che oltretutto porta più vicini a se stessi.
C’è stato un periodo, specie subito dopo il Concilio, in cui, diversi istituti religiosi - consapevoli dell’influsso della preghiera ai fini del rinnovamento, aprirono ai laici/che la partecipazione alla loro preghiera comunitaria (pratiche di pietà). Dapprima non mancarono varie adesioni, ma tutto è durato al massimo un mese. Il motivo delle diserzioni è nelle testimonianze di alcuni di coloro che vi parteciparono, il cui dire riporto qui di seguito: «Vi trovai un pregare espressivo di una spiritualità tendenzialmente individualista, ripetitiva, evasiva»; … «Una preghiera in cui preminente era l’aspetto devozionale, con il frequente riferimento ai santi/e, a partire dai fondatori, dei quali non si rilevava la parte di genialità che li ha portati ad alcune frontiere in grado di spingere oltre, ma ad essi ci si riferiva per l’esemplarità ascetica»; … «era un dire e ridire che non portava a connettersi con niente e con nessuno»; … «un enunciare povero di “Parola” e ricco di espressioni memorizzate o desunte da tradizionali formulari».
È preghiera quella che mette in movimento
Con la parabola del samaritano il cristianesimo diventa un’uscita dalla religione del «levita» e del «sacerdote», per spostarsi sulla strada, al fine di mettersi a servizio dell’uomo ferito, rinunciando così ai propri programmi, consapevoli che la struttura ha soltanto uno scopo funzionale: è uno strumento non la meta da raggiungere, o l’obiettivo di cui accontentarsi.
Dunque, una preghiera che metta in moto una catena di relazioni, e che si traduca in rapporti di reciprocità. Una preghiera che esca fuori dal momento che le si dedica, e produca effetti, innescando delle conseguenze.
Da qui l’urgenza che la vita consacrata ricuperi quello spirito contemplativo che le permetta di riscoprire ogni giorno di essere depositaria di un bene che umanizza, e che aiuta a condurre una vita nuova.
Quanto evidenziato porta dunque a dire che la vita consacrata, oggi privata di vari elementi un tempo umanamente promozionali, ha la possibilità di esserci nel futuro, soltanto quale forma trasparente di una esperienza di vita nata da una seduzione in cui la persona è stata conquistata da Cristo, fatto riscontrabile nella testimonianza gioiosa ed appassionata di vite trasformate dal Vangelo, viste nelle note che già enumerava s. Paolo: «carità, gioia, pace, longanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).