Bolognesi Elena
UNA CORDICELLA CHIAMATA SPERANZA
2025/3, p. 29
… e sarà promessa di futuro.

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Testimoni
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QUARESIMA E PASQUA NEL GIUBILEO
Una cordicella chiamata speranza
… e sarà promessa di futuro.
ELENA BOLOGNESI
«Quando noi entreremo nella terra, legherai questa cordicella di filo scarlatto alla finestra da cui ci hai fatto scendere e radunerai dentro casa, presso di te, tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli e tutta la famiglia di tuo padre. Chiunque uscirà fuori dalla porta della tua casa, sarà responsabile lui della sua vita, non noi; per chiunque invece starà con te in casa, saremo responsabili noi». […] Ella rispose: «Sia come dite». Poi li congedò e quelli se ne andarono. Ella legò la cordicella scarlatta alla finestra (Gs 2,18-21).
Siamo nella casa di Raab, la prostituta, nella città di Gerico. Raab ha appena nascosto e salvato le due spie che Giosuè ha inviato a esplorare il territorio e a osservare i suoi abitanti, alla vigilia dell’attraversamento del Giordano e dell’ingresso del popolo d’Israele nella terra che Dio gli ha promesso. Il gesto coraggioso della donna non rimarrà senza ricompensa al momento della conquista: la sua casa (nel testo ebraico bayt fa riferimento anche al casato, cioè alla famiglia nel senso più ampio) sarà risparmiata. C’è solo un piccolo segno da porre: una cordicella scarlatta alla finestra a memoria dell’ospitalità. E da quella cordicella partiamo, in questo anno giubilare nel quale siamo invitati nuovamente ad accogliere l’appello dell’apostolo: siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi (cf. 1Pt 3,15). E partiamo dalla cordicella di Raab perché il suo nome in ebraico è tiqvah, lo stesso termine che traduce la speranza. Se infatti risaliamo al verbo che sta all’origine di tiqvah (qavah), ci troviamo di fronte a diversi significati, come spesso accade nelle lingue semitiche. Da un lato, dunque, qavah indica la dimensione della trepidante attesa, non un’attesa passiva ma intrisa di fiduciosa aspettativa nell’intervento di Dio e nell’adempimento delle sue promesse. Dall’altro, la stessa radice verbale allude all’atto del raccogliere, del tessere legami, come l’intreccio dei fili che formano un tessuto o una corda, segno di forza e unità. In relazione a questo secondo significato, il sostantivo tiqvah ricorre solo una volta nel testo biblico, proprio in riferimento alla cordicella scarlatta di Raab nel libro di Giosuè. Altrove indica in maniera univoca il tema della speranza, soprattutto nei libri sapienziali (cf. per esempio Gb 17,15; Sal 62,6; Pr 19,18) e in alcuni profeti (cf. Ger 29,11; 31,17; Ez 37,11; Os 2,15).
L’autore biblico si preoccupa anche di descriverci il colore della cordicella che fa da segnale ai conquistatori. E non è un colore come gli altri. Nell’Antico Testamento, il colore scarlatto ricorre quasi esclusivamente tra le dettagliate disposizioni che Dio consegna a Mosè per la costruzione della Dimora; estratto dalla cocciniglia, il colore scarlatto era utilizzato per tingere i tessuti del Tabernacolo e le vesti dei sacerdoti, richiamo alla sacralità e al prestigio. Solo una volta ritroviamo nuovamente un filo scarlatto, anche se in questo caso viene usato un sinonimo di tiqvah: siamo nel quarto capitolo del Cantico dei Cantici, quando l’amato descrive come filo scarlatto le labbra dell’amata (Ct 4,3).
Ci lasciamo guidare così, in questa quaresima del tempo giubilare, da un segno semplice, comprensibile solo a chi ne conosce il vero valore. Un segno che ci porta a Gerico, nella depressione del Mar Morto, in pieno deserto, nella città posta nel punto più basso dalla terra. Da lì si può soltanto risalire, da lì inizia la salita in direzione di Gerusalemme. E la quaresima non ha forse il sapore dell’imitazione di Gesù che prende la ferma decisione di mettersi in cammino verso la sua Pasqua di morte e risurrezione? Quell’oasi nel cuore della desolazione è la porta d’ingresso al compiersi dei misteri della nostra fede.
La memoria di un patto
La speranza si nutre di memoria. Non la nostalgica ripetizione di eventi e parole passati, ma il perseverante ritorno alle sorgenti, alle esperienze fondative. E questo spesso avviene nel deserto, come per Agar al pozzo di Lacai-Roi, del «Vivente che mi vede» (cf. Gen 16), perché soltanto nel tenero abbraccio dello sguardo misericordioso di Dio i nostri occhi si aprono per riconoscere il suo passaggio. Come per il profeta Elia che, deluso dagli uomini e forse anche da Dio, fugge attraversando il deserto fino a Bersabea e poi prosegue verso l’arida montagna del Sinai, calpestando i passi dei patriarchi e di Mosè. Così nella solitudine della notte di Dio, nel silenzio che fa spazio alla parola appena sussurrata del Vivente, Elia si riconcilia con la debolezza del giusto, fonte di rivelazione anche (e forse soprattutto) quando sembra rivestita dal logoro mantello del fallimento umano (cf. 1Re 19).
Ritorno alle sorgenti per ripartire, per un nuovo inizio. La memoria, che è prima di tutto memoria della fedeltà di Dio alle sue promesse, è dunque il motore che spinge in avanti, apre inediti cammini. La fuga è diventata pellegrinaggio.
Raab e le due spie hanno stabilito un patto, sigillato da una sottile cordicella di scarlatto. Patto ricordato e rispettato, come leggiamo alla fine del capitolo 6 del libro di Giosuè; e di Raab si dice che «è rimasta in mezzo a Israele fino ad oggi» (Gs 6,25). Un «oggi» senza tempo, lì dove la fedeltà di Dio incontra la libera adesione del singolo, nella debolezza di un segno. E spesso la speranza ci appare così: vulnerabile, alla mercè dell’incostanza umana. A noi il compito di non slegarla da quella finestra aperta sull’imprevedibile. E sarà salvezza.
La forza di un legame
Tiqvah è dunque attesa ma anche legame. La forma passiva-riflessiva (nifal) del verbo qavah apre per noi altri orizzonti. E come all’alba della creazione le acque sotto il cielo si sono raccolte per fare spazio all’asciutto (cf. Gen 1,9), così a Gerusalemme si raduneranno nel nome del Signore tutte le genti, secondo la parola profetica (cf. Ger 3,17). Un filo si intreccia ad altri fili. Da solo non basta a se stesso, ma nell’insieme dei fili che formano un tessuto è insostituibile, pena l’incompiutezza. Così il popolo di Dio che sta per conquistare la terra della promessa attesa da generazioni, quel popolo che può contare su Dio che combatte al suo fianco, ha bisogno della cordicella scarlatta di una prostituta di Gerico.
Una pagina sorprendente e scandalosa viene a illuminare le nostre solitudini, così necessarie se sospinte da una ricerca, che prelude a un incontro: «Mentre Giuseppe si aggirava per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: “Che cosa cerchi?”. Rispose: “Sono in cerca dei miei fratelli”» (Gen 37,15-16). La narrazione biblica gioca a farci scoprire legami salvifici laddove ci aspetteremmo distacco e disprezzo; e spesso si tratta di donne: Agar l’egiziana, Rut la moabita, Tamar l’incestuosa, la vedova di Sarepta, la samaritana al pozzo, la peccatrice ai piedi di Gesù. Alcune di loro hanno toccato il Signore, alcune di loro hanno preparato la venuta del Messia.
Nel popolo scelto da Dio per essere unico tra i popoli, i legami contano e hanno respiro universale. Assaggio di Trinità.
«Nel mondo delle persone, dello spirito, della creazione, la vita si riproduce sempre attraverso l’incontro tra entità distinte, separate, che entrano in comunione attraverso il legame di un amore che le possiede. Mistero di separazione e di incontro che spira come il vento divino nel cuore di tutto ciò che ha vita».
Speranza è dunque una porta aperta, è lasciarsi sorprendere da Dio che non si stanca di passare, di incrociare le nostre vie tortuose. Non dimenticate l’ospitalità – ci ricorda la lettera agli Ebrei – perché alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli (cf. Eb 13,2). In un’epoca di crescenti chiusure, a noi l’audacia della porta aperta.
Il colore dell’amore
E poi c’è quel colore scarlatto, unico e prezioso, simbolo di lusso (l’estrazione dalla cocciniglia di questo colorante comportava molto lavoro per piccole quantità) e regalità, che rende bella la Dimora di Dio e disegna le labbra dell’amata. Le spie potevano scegliere un colore qualsiasi, magari più discreto. Perché proprio una cordicella scarlatta? Aveva un utilizzo particolare? Proveniva da qualche tessuto prezioso? Tutte domande destinate a rimanere senza risposta.
Non resta che seguire questa traccia scarlatta attraverso le pagine della rivelazione biblica, fino ad arrivare a Gerusalemme, al palazzo del pretorio di Pilato. Lì i soldati del governatore hanno condotto Gesù, lo hanno spogliato e lo hanno rivestito di un mantello scarlatto (cf. Mt 27,27ss). Lo percuotono, gli sputano addosso e irridono la regalità che appare ai loro occhi senza lustro e senza potere. Una regalità perdente.
Poi si affrettano a levare il mantello scarlatto e a ricoprire Gesù delle sue vesti, ma mi piace pensare che i colori in quel breve lasso di tempo si siano mescolati: il colore lussuoso e miserabile del mantello di una regalità tutta umana e il colore del sangue del Giusto, che trasforma il disprezzo e prelude al perdono.
Mirabile paradosso della fede cristiana: Dio non salva l’uomo rimanendo nella distanza dei cieli, ma imporpora la terra del suo sangue perché torni a germogliare. È il colore dell’amore, fino alla morte.
Pellegrini di speranza
Il giubileo ci ricorda che siamo pellegrini spinti da un desiderio e da una ricerca. Il tempo della quaresima, con il passo in direzione della Pasqua, ci ricorda che il nostro è un viaggio anzitutto al centro di noi stessi, «verso il mistero divino che abita in noi, è un viaggio di addomesticamento spirituale: vuoto dell’anima e del cuore. Fino a trovare all’interno dello stesso vuoto la miniera nascosta della pienezza sperata».
In quella pienezza, di fronte a un sepolcro vuoto, benché sia ancora buio, troveremo ancora la cordicella scarlatta da legare alla nostra finestra e sarà promessa di futuro.