La scelta dell’ignoranza o la volontà di non sapere
2025/3, p. 20
Affia spesso un disagio di fronte al modo in cui comunichiamo gli eventi della Chiesa universale.
In particolare, occorre cambiare la narrazione che riguarda l’Africa: è ora di iniziare a pensare in termini di Africa, Asia, Europa, America e Oceania
come raggruppamenti che contengono svariati paesi che non devono essere confusi. L’Africa dovrebbe smettere di sembrare un villaggio.
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SGUARDO SULL'AFRICA
La scelta dell’ignoranza
o la volontà di non sapere
Affiora spesso un disagio di fronte al modo in cui comunichiamo gli eventi della Chiesa universale. In particolare, occorre cambiare la narrazione che riguarda l’Africa: è ora di iniziare a pensare in termini di Africa, Asia, Europa, America e Oceania come raggruppamenti che contengono svariati paesi che non devono essere confusi. L’Africa dovrebbe smettere di sembrare un villaggio.
DON ANTOINE METIN
Il rapporto tra i popoli rimane segnato da una incomprensibile disuguaglianza in un mondo globalizzato. Come possiamo accettare che nel XXI secolo, nonostante la cultura digitalizzata e il movimento delle popolazioni, le persone continuino a ignorare ciò che ritengono non meritevole fino al punto di ignorarsi a vicenda? Dal latino ignorantia, ignorare significa mancare di conoscenza in un determinato campo. La mancanza di conoscenza è un vuoto, una debolezza, una limitazione. Da questo punto di vista, l'ignoranza non nobilita né l'ignorante né coloro che hanno la responsabilità di educarlo e renderlo un uomo giusto e ragionevole. Non c'è nulla di straordinario nella mancanza di conoscenza. Non si può sapere tutto e non si può essere colti in ogni campo. Ecco perché l'ignoranza è perfino un segno della nostra umanità limitata, rispetto ai campi della conoscenza a cui si applica l'intelligenza. Il fatto che un'istituzione manchi di conoscenza può anche essere inteso come il fatto che essa si occupi di un determinato campo e non debba interessarsi ad altri che non rientrano nelle sue competenze e che non richiedono alcuna attenzione da parte sua. La Chiesa, come famiglia di Dio, non è un'istituzione incentrata su un solo ambito. Ha come centro d'interesse l'intera umanità e come campo d'azione il mondo intero. È quindi inammissibile che il suo modo di agire e il suo linguaggio diffondano i difetti di una società che mantiene deliberatamente ‘l'ignoranza voluta’ come criterio di gestione degli affari. Il mondo in cui viviamo è costituito da continenti e ogni continente ha al suo interno un certo numero di paesi. Infatti, il latino continere (tenere insieme) o continens terra (terra continua) si riferisce a una vasta distesa di terre emerse che apparentemente formano un'entità. Questa realtà geografica è ben visibile sul globo e aiuta a distinguere i diversi continenti. Una mappa del mondo ce l’abbiamo.
La Chiesa delle nazioni
La Chiesa cattolica mira a essere universale in virtù della sua vocazione a perseguire la missione affidatale da Cristo risorto: «Riceverete forza quando lo Spirito Santo scenderà su di voi; allora mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,8). Può quindi affermare di avere una visione più globale del mondo, in virtù della sua missione e della sua configurazione, grazie alla varietà dei popoli che la compongono.
La Curia romana è quindi al servizio della Chiesa universale dal momento in cui assiste il papa nel suo supremo ufficio pastorale per il bene di tutta la Chiesa. Essendo al servizio di una pastorale evangelizzatrice universale, la Curia è tenuta a un obbligo morale e spirituale estremo: far sì che le decisioni, le azioni e persino i messaggi del papa si distinguano dai discorsi e dalle azioni politiche di coloro che governano il mondo. A tal fine, per porre rimedio ad alcune anomalie del governo del mondo, segnate dall'ingiustizia e dalla disuguaglianza, la Chiesa ha la missione di educare le persone. I pastori e i fedeli del popolo di Dio devono occuparsi di questa missione collegiale educando innanzitutto se stessi attraverso una conversione di mentalità. Il Vangelo ce lo ricorda. Dobbiamo educarci a non essere complici del male. Perché va detto che, se non siamo necessariamente gli autori della disuguaglianza nel mondo, ne siamo quasi sempre i complici, anche solo attraverso il nostro linguaggio, che sembra legittimare la disuguaglianza o tradire una mentalità a essa favorevole. Un continente non può continuare a essere considerato una nazione, per non dire un villaggio. Se questa non è ignoranza, allora emerge una vera preoccupazione per lo spirito cattolico, cioè per la dimensione universale che caratterizza la nostra Chiesa. Non è raro, nel linguaggio della conversazione quotidiana e persino nelle informazioni ufficiali di una certa gerarchia, trovare l'Africa paragonata a una nazione europea, per esempio ‘Francia e Africa’ o ‘Africa e Italia’. E così via. Il papa ha nominato i cardinali per il Concistoro dell’8 dicembre 2024: l'Africa, uno dei polmoni della Chiesa ancora in miglior stato di salute pastorale, è la meno rappresentata. Nel numero del 15 ottobre 2024, la rivista Aleteia descrive la situazione come segue: «Nonostante l'Africa sia il continente in cui il cattolicesimo sta crescendo di più rispetto agli altri continenti, non è stata premiata in termini di posti cardinalizi. Solo due nuovi cardinali africani – il franco-algerino Jean Paul Vesco, arcivescovo di Algeri, e l’ivoriano Ignace Bessi Digbo, arcivescovo di Abidjan – hanno fatto parte di questo concistoro, che ha portato il peso dell'Africa nel Collegio cardinalizio sotto il 13%. Questa mancanza di rappresentanza ci porta a ricordare anche che da due anni l'Africa non ha un cardinale prefetto a capo di un dicastero della Curia romana («Aleteia Décryptage, comment les 20 nouveaux cardinaux électeurs de François renouvellent le collège?»). Questa configurazione porta a porre alcune domande: la nomina dei cardinali è un premio? Non ci sono criteri per la scelta dei cardinali, una procedura e una regola? Il papa intendeva scegliere i suoi futuri cardinali secondo un criterio di rappresentanza continentale? Il vescovo di Roma e la sua Curia non dovrebbero conoscere meglio di chiunque altro le esigenze della Chiesa universale, in modo da tenerne conto nella scelta dei cardinali?
Educare attraverso il linguaggio
Affiora sempre un disagio nel modo in cui comunichiamo gli eventi della Chiesa universale. Non si tratta di una lamentela, né tanto meno di una richiesta per l'Africa. È l'espressione di un disagio. Vogliamo semplicemente mettere in evidenza una forma di comunicazione che mantiene o alimenta l’ignoranza, invece di educare e aiutare ad aprire le menti. Da questo punto di vista, l'articolo di Aleteia sopra citato è da lodare per la sua formulazione comparativa delle quote. Al di là della politica di scelta dei cardinali, è necessario protestare contro un linguaggio apparentemente innocuo e innocente, ma che rivela una situazione di fatto. Abbiamo sentito dire, ad esempio, «quattro cardinali italiani e un cardinale africano». In questa espressione ci sono delle lacune che disturbano l'intelligenza umana. È ora di iniziare a pensare in termini di Africa, Asia, Europa, America e Oceania come raggruppamenti che contengono una varietà di paesi che non devono essere confusi. E l'Africa dovrebbe smettere di sembrare un villaggio. Per esempio, sarebbe più corretto dire «ci sono 4 cardinali italiani e uno ivoriano» o «4 asiatici e 2 africani». Da questo punto di vista, è normale che la Costa d'Avorio sia sullo stesso piano dell’Italia. Un altro esempio: non è raro incontrare alcuni escursionisti tornati da un breve soggiorno in Tanzania per tenere conferenze sull'Africa. Molto spesso, gli africani che partecipano a queste conferenze non capiscono di cosa si stia parlando. Non sanno di quale Africa stia parlando il relatore. Una persona che ha vissuto in Tanzania per due anni è qualificata per parlare dell’Africa? Forse sarebbe più giusto parlare della sua esperienza in Tanzania, piuttosto che in Africa. Già non conosce abbastanza la Tanzania, avendoci vissuto solo due anni; quindi, sarebbe impossibile per lui conoscere l'Africa, che non ha nemmeno visto con i suoi occhi. Non si può ridurre un intero continente a una sola nazione. Se questo è affermato nel mondo politico, non può avvenire così nella Chiesa. Vale la pena di sottolineare un altro aspetto, riportando la reazione di suor Venita Fernandes, superiora generale delle Suore di Maria Bambina: «Quando sento dire “voi suore straniere” non mi piace, perché nei nostri paesi di origine le suore che vengono da fuori le consideriamo “missionarie”, non straniere (Avvenire 10/10/2023)». Ci chiediamo se i concetti di «missionario» e «straniero» siano davvero così poco definiti. Quando si è missionari, e quando stranieri? Dipende dal luogo di provenienza? Forse non riusciamo a immaginare il disagio causato da un linguaggio così poco articolato e le ingiustizie che genera. All'interno della Chiesa di Dio, questo compromette seriamente l'evangelizzazione e mette in discussione sia la storia della creazione del mondo da parte dell'unico Dio e Padre di tutti, sia la teologia della Chiesa come popolo di Dio. Quando si parla di missione e di Vangelo, non ci si aspetterebbe mai un disagio simile. Perché la missione è un incontro e il Vangelo è una buona notizia.
Disagio nel tempio
Nel tempio di Dio è opportuno pensare bene ed esprimersi correttamente per non soffocare troppo a lungo la gente in quella sensazione di disagio, che indebolisce la forza del Vangelo. Anche questa è una questione di educazione. Sensibilizzare al «linguaggio corretto» sarebbe il primo passo per educare le generazioni future, il primo sforzo per risvegliare l'uguaglianza e il rispetto per gli altri. Sarà possibile la giustizia nella Chiesa e nel mondo, se non impariamo a conoscere gli altri, a considerarli per quello che sono e a incontrarli nella loro identità? L'equa distribuzione dei beni della terra non dipende forse anche dal modo in cui vediamo gli altri, dall'immagine che ci creiamo di loro? Per sapere se una distribuzione è equa, ad esempio, la comprensione è chiara quando il discorso mette l'Africa sullo stesso piano dell'Europa. Ma quando l'Africa viene paragonata all'Italia o alla Francia, ignoriamo deliberatamente la disuguaglianza tra i due termini di confronto, fingendo di ignorare il danno che così viene fatto. Allo stesso modo, quando vi chiamiamo stranieri, tutto è già stato deciso. Avete solo i diritti degli stranieri e non dovete rivendicare nulla. Ma come è possibile nella Chiesa? Come può essere vero in una Chiesa che si dichiara cattolica, con una vocazione così universale? E se iniziassimo la conversione con un cambiamento di mentalità e di linguaggio? A questo proposito, dovremmo rendere giustizia e incoraggiare sforzi come quelli di don Federico Tartaglia, un sacerdote italiano che è stato missionario fidei donum in Malawi per nove anni. Mentre dire «sacerdoti non italiani» è già meno scioccante e più rispettoso, don Tartaglia afferma giustamente: «più corretto sarebbe chiamarvi sacerdoti missionari fidei donum, perché dire “non italiani” porta fuori strada (Avvenire 2/10/2024)». Crediamo che questo derivi dalla profondità del suo essere un missionario onesto. Questi sforzi dovrebbero essere sostenuti e incoraggiati per correggere il modo in cui guardiamo gli altri che sono diversi da noi. Il linguaggio conta molto. Rivela anche la salute morale e spirituale dei nostri cuori e dei nostri cervelli. Il linguaggio poco articolato di cui stiamo parlando sembra essere il risultato di disattenzione o ignoranza. Ma ciò che sembra ignoranza potrebbe nascondere una ferita ben più grave, che richiede un'azione congiunta della Chiesa. L'evangelizzazione dei popoli presuppone innanzitutto che essi siano realmente riconosciuti come tali, popoli a sé stanti, da considerare come gli altri. Dobbiamo imparare, al di là delle ideologie, a guardare il mondo e i suoi popoli come una vera e propria opera del Creatore che ha mandato suo Figlio come il Redentore di ciò che ha creato per amore. Ebbene, la comunicazione è anche un vettore delle nostre mentalità e ideologie, è un luogo di evangelizzazione. I comunicatori hanno quindi bisogno dello Spirito di Cristo per purificare i messaggi che trasmettono al mondo da qualsiasi dottrina discriminatoria. Allora potranno contribuire pienamente all'educazione dei popoli, all'allontanamento dell'ignoranza e all'esaltazione dei valori. Perché è solo attraverso la verità del linguaggio che possiamo aiutare l'umanità a crescere nell'amore. Il Vangelo ci invita a farlo!