Pignone Roberta
Missione come cura e accoglienza
2025/3, p. 17
Testimonianza di suor Roberta Pignone, missionaria del Pime. «Stiamo vivendo un momento storico importante per il Bangladesh, una seconda indipendenza che credo e spero – se diretta in modo intelligente – possa portare questo popolo a fiorre».

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BANGLADESH
Missione come cura e accoglienza
Testimonianza di suor Roberta Pignone, missionaria del Pime.«Stiamo vivendo un momento storico importante per il Bangladesh, una seconda indipendenza che credo e spero – se diretta in modo intelligente – possa portare questo popolo a fiorire».
SR. ROBERTA PIGNONE
Nel 2001 sono venuta per la prima volta in Bangladesh, nell’ambito del cammino di Giovani e Missione. Ero una giovane dottoressa, in cerca della mia strada. Ed è proprio su una strada del Bangladesh, mentre viaggiavo con una suora dell’Immacolata, che si sono aperti gli occhi del cuore! Ero curiosa, volevo vedere, capire, gustare la vita di queste missionarie che poi sono diventate la mia famiglia. Ho fatto una domanda che mi ha fatto intuire che quella poteva essere la mia vita: ho chiesto in che modo venissero scelte le terre di missione. La risposta è stata: «Sono quelle dove nessuno ha ancora parlato di Gesù». Queste parole mi hanno affascinata e le ho messe nel cuore insieme a quello che avevo vissuto in Bangladesh e che mi aveva aiutato a decidere di mollare tutto per diventare, appunto, una missionaria dell’Immacolata. Il Signore è fedele alle sue promesse e quello che è stato il luogo dell’innamoramento è diventato anche il luogo dell’amore per sempre, la mia missione in mezzo alla gente per cui spendere la vita. Ora sono in Bangladesh da 13 anni, nel Damien Hospital di Khulna, a prendermi cura dei più poveri ed emarginati: i malati di lebbra e tubercolosi. Qui sento particolarmente coerente con il mio servizio il titolo che papa Francesco ha voluto dare al messaggio per la Giornata missionaria mondiale: «Andate e invitate tutti al banchetto (Mt 22,9)». Tutti! Soprattutto quelli che nessuno vuole! In questi anni di presenza a Khulna non ho mai parlato di Gesù. È difficile farlo in un paese musulmano. Del resto, non voglio certo convertire i musulmani; desidero solo che siano delle brave persone con valori tali da consentire a tutti una vita dignitosa e bella. Sono medico e quindi mi prendo cura di loro: una parola in più detta magari col sorriso o con maggiore enfasi se non capiscono; una mano sulla spalla mentre ascolto i loro polmoni; una battuta per far sentire meno pesante il male… Bisogna essere segno di speranza per tutti, in particolare per questi pazienti che non troverebbero assistenza da nessun’altra parte e che sono ancora stigmatizzati a causa della loro malattia. Non parlo di Gesù, ma lo mostro attraverso la mia cura. Credo che l’amore gratuito sciolga il cuore di tutti. E allora questa gente prima o poi si chiede il perché di questo amore, ma questo tempo non sono io a definirlo. Non parlo esplicitamente dell’amore di Dio. Attraverso le mie mani, i miei occhi, le mie parole passa l’amore del Padre che ha travolto la mia vita e l’ha cambiata: mi ha sollevata da una situazione di sofferenza per farmi suo strumento laddove ce n’è più bisogno. Quindi il mio essere missionaria dell’Immacolata è innanzitutto questo: essere strumento della misericordia del Padre per le persone che incontro ogni giorno; essere balsamo per le loro ferite, perché così come Lui lo è per me, io devo esserlo per loro.
Nella parola di Dio la forza per andare avanti
«Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti» (1Re 19). Anch’io sento di aver bisogno di nutrirmi della Parola di Dio in questo momento, una Parola che aiuta nel cammino, specialmente quando ci si trova nel mezzo di giorni di fuoco. È quello che è successo qui in Bangladesh in questi mesi, con le rivolte dei lavoratori e degli studenti, la fuga della premier Sheikh Hasina, i giorni di forte tensione e instabilità. Sono in Bangladesh da più di 13 anni e mi accorgo che ho ancora tanto da capire di questo popolo e di questa storia nella quale mi trovo a vivere e da cui forse ho ancora tanto da imparare. Mi ha sempre molto colpito, però, la reazione dei bengalesi di fronte alle situazioni di crisi più o meno gravi: passano subito alle mani senza troppo discutere. Se c’è un incidente stradale, ad esempio, ecco che non si parlano per capire chi ha torto o ragione, si picchiano subito, coinvolgendo anche persone di passaggio. Quanta rabbia ho visto in questi mesi! Questa reazione mi ha fatto capire meglio come troppo spesso si sia agito contro la libertà della gente. Ma tanta violenza e troppa aggressività si sono rivolte anche contro le cose belle che sono state realizzate perché il paese potesse svilupparsi. Tutto questo mi fa pensare che le persone, e soprattutto i giovani, non ne potevano davvero più. Stiamo vivendo allora un momento storico importante per il Bangladesh, una seconda indipendenza che credo e spero – se diretta in modo intelligente – possa portare questo popolo a fiorire. Mi auguro che l’attuale primo ministro ad interim Muhammad Yunus possa essere un aiuto in questo momento delicato e cruciale per il Bangladesh. Lo voglio credere. Le nuove generazioni e i piccoli meritano una situazione di vita sicuramente migliore di quella dei loro padri, altrimenti ci sarà ancora tanta rabbia. Ci sono poi interessi internazionali intorno al Bangladesh; di sicuro anche questo conta molto nelle scelte di chi aiuterà il paese a risollevarsi. E come ho vissuto io tutto questo? Non è facile da straniera capire tutto e decidere per la sicurezza della mia comunità, dei pazienti e dello staff. Mi sento ancora tanto piccola di fronte a tutto quello che sta succedendo, ma allo stesso tempo ho la responsabilità grande di decidere per molti. Solo lo Spirito può aver guidato le mie scelte perché da sola davvero non ce l’avrei fatta.