Dal 1950 per la salute dei più poveri
2025/3, p. 15
Padova, 1950: un medico di Schio, Francesco Canova, e il vescovo di Padova, mons. Girolamo Bortignon, danno il via alla lunga avventura del Cuamm: Collegio universitario aspiranti e medici missionari.
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MEDICI CON L’AFRICA CUAMM
Dal 1950 per la salute dei più poveri
Padova, 1950: un medico di Schio, Francesco Canova, e il vescovo di Padova, mons. Girolamo Bortignon, danno il via alla lunga avventura del Cuamm: Collegio universitario aspiranti e medici missionari.
DON DANTE CARRARO
La nostra storia comincia a Padova, nel lontano 1950. L’Italia sta vivendo il difficile periodo della ricostruzione, ancora macerie ovunque, quando un medico di Schio (Vicenza), Francesco Canova, e il vescovo di Padova, mons. Girolamo Bortignon, danno il via alla lunga avventura del Cuamm: Collegio universitario aspiranti e medici missionari.
Nasciamo come un’istituzione di laicato missionario della diocesi di Padova con lo scopo di preparare e inviare medici, paramedici e personale di supporto nei paesi del terzo Mondo, dove i problemi della salute sono gravi e urgenti, specialmente per le fasce più povere e fragili della popolazione. Dalle origini, ci ispira il mandato evangelico «Euntes curate infirmos» (Mt 10, 8).
Apra nuove vie del «fare bene» per «fare il bene»
In 74 anni di attività abbiamo operato in 43 paesi dell’Asia, Africa, America Latina, Medio Oriente, in 239 ospedali, in tante scuole di formazione del personale medico e paramedico locale, inviando oltre 2.500 volontari cooperanti per un periodo medio di servizio di 2 anni e mezzo ciascuno. Il collegio, attivo ancora oggi, ha ospitato oltre 1.200 studenti, di cui 900 italiani. A metà degli anni Settanta ci siamo concentrati nel continente africano, nei paesi più bisognosi dell’Africa sub-Sahariana. Attualmente siamo presenti in 21 ospedali e 116 distretti di 9 paesi: Angola, Costa d’Avorio, Etiopia, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania e Uganda e oltre 3.400 operatori sanitari in servizio, dei quali 270 italiani. Il nostro approccio non è l’emergenza, ma l’aiuto allo sviluppo. Lo stile è lavorare insieme, non «per» ma «con». Per questo abbiamo scelto di chiamarci: Medici «con» l’Africa. All’inizio si partiva, molto semplicemente e generosamente, per andare a dare una mano. Arrivava la richiesta da parte dei vescovi e c’erano dei pionieri, medici, che andavano lì a servire le persone, restandoci anche per dieci o quindici anni. Non avevano altre pretese se non quella di servire e servire bene, condividere la vita, fare il proprio dovere fino in fondo. Partivano per contribuire a migliorare la situazione. Tutto, però, rimaneva su un piano prettamente personale. Con il passare del tempo, grazie a figure illuminate come il professor Anacleto Dal Lago, primo medico partito per il Kenya nel 1955, il Cuamm sente la necessità di proiettarsi su un orizzonte più ampio che dia alla cooperazione il senso e l’utilità di qualcosa che non si esaurisce nell’esperienza e nell’azione di un singolo, ma che lasci tracce durature, che apra altre vie del «fare bene» per «fare il bene».
Uscire dal recinto degli ospedali missionari
Era necessario «uscire dal recinto fiorito degli ospedali missionari» e aprirsi alle altre strutture sanitarie pubbliche e alle comunità. Per garantire l’accesso alla salute di tutti ci deve essere l’impegno di ciascuno: un impegno comune al servizio della salute delle persone, in una logica di partenariato e di collaborazione. Ed è proprio per questo che, forte di un’esperienza maturata in oltre dieci anni in Kenya, il professor Dal Lago insieme a don Luigi Mazzucato (direttore del Cuamm per 55 anni) si impegna attivamente per la prima legge italiana sulla cooperazione, che vedrà la luce a fine 1971. E insieme si adopera per l’avvio dei Programmi-Paese e per la definizione di documenti sulla «cooperazione tecnica», ancora attuali e preziosi per le sue intuizioni e la consapevolezza tecnica, etica, morale. Il 15 dicembre 1971, viene promulgata la legge n. 1222, la prima nella storia italiana a riconoscere il servizio di volontariato civile e a stabilire i requisiti d’idoneità richiesti a enti, associazioni e organismi. Definita testualmente «cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo», la cooperazione diventa materia esclusiva del ministero degli Affari Esteri e della sua macchina amministrativa. Il Cuamm fu il primo ente non governativo a ottenere l’idoneità, proseguendo nella sua «rivoluzione» e ribadendo la centralità della qualificazione professionale degli operatori. La legge preparò ufficialmente la strada per la realizzazione di accordi bilaterali coi paesi africani nel campo sanitario: sarebbero infatti bastati pochi anni di stretta e intensa collaborazione con il ministero degli Affari Esteri affinché il Cuamm inaugurasse i cosiddetti programmi-Paese in Tanzania (1977), Mozambico (1978) e Uganda (1979). Dalla sua entrata in vigore fino all’avvento della legge n. 38 del 1979 in materia di «cooperazione allo sviluppo» si assiste a una fase di maturazione e crescita sia delle attività di volontariato, sia del numero e della consistenza degli interventi di cooperazione. Nel corso del decennio successivo, con l’introduzione della legge n. 49 del 26 febbraio 1987 venne riconosciuto un significato politico più ampio alla cooperazione come «parte integrante della politica estera».
Il Programma «Prima le mamme e i bambini»
E la cooperazione in cui crediamo e che cerchiamo di realizzare non è quella calata dall’alto, ma quella fatta da persone e vite condivise, e solo dopo dai mezzi e dalle risorse. I soldi vengono sempre dopo le persone. Una cooperazione che si riduca solo a scambi di denaro non è cooperazione: non cresce chi riceve, non cresce chi dona. Diventa merce di scambio, non condivisione di vita, di valori. Se non c’è condivisione di vita, non c’è vera cooperazione. Le nostre priorità riguardano sempre l’ultimo «miglio» del sistema sanitario: questa espressione, a noi tanto cara, indica le esigenze degli «ultimi degli ultimi», quelle che papa Francesco ascrive alle «periferie geografiche ed esistenziali». È anche la priorità del Vangelo, che guarda dove è più forte l’offesa alla dignità umana, agli umiliati, ai più poveri tra i poveri. E in Africa, i più fragili sono spesso le donne e i bambini. Sono 280.000 le mamme che muoiono di parto ogni anno, nel mondo, la maggior parte si trova nell’Africa sub-Sahariana e oltre 1 milione e duecentomila i neonati che muoiono nel momento di venire al mondo o nei primi mesi. È una tragedia, di cui si parla poco o non si parla affatto. Per questo, nel 2010, per la ricorrenza dei nostri 60 anni, abbiamo lanciato un grande Programma che ancora stiamo portando avanti: «Prima le mamme e i bambini», per garantire un parto assistito e sicuro a una mamma e le cure al bambino nei primi mille giorni di vita. In 14 anni, nei paesi in cui interveniamo, abbiamo aiutato 800.000 donne a mettere al mondo il proprio figlio e altrettanti bambini a venire alla luce. E il nostro impegno continua, con un’attenzione speciale al grave problema della malnutrizione dei più piccoli, e insieme, alla formazione del personale locale, perché alla base della cooperazione c’è, innanzitutto, l’incontro con l’altro.
La cooperazione non è «toccata e fuga»
Per essere autentica, la cooperazione non può prescindere dallo sguardo, dagli occhi, dai volti delle persone. Se non li hai toccati, visti, annusati, se non sei stato «con» loro, fai fatica a capire il senso profondo di ciò che è cooperazione, di ciò che è vicinanza, di ciò che significa essere insieme. Ed è fondamentale partire dal basso, dalla vita, appunto. È quella che chiamano la cooperazione «bottom-up»: si parte dai problemi, dalle situazioni concrete, dal quotidiano, dai chilometri di polvere che entra dappertutto, dal fatto che non c’è luce né corrente, dal fatto che non c’è acqua, dal fatto che non c’è la connessione che pensi che ci sia, dal fatto che è piovuto tanto e perciò l’auto o il camion con i farmaci non riesce ad arrivare. Insieme, si parte dai piccoli successi e dai risultati concreti che, qualche volta, si ottengono. Per questo la cooperazione non è «toccata e fuga» e lo «sviluppo» è frutto di tempi lunghi, di pazienza, fiducia guadagnata giorno per giorno. Anche quando si affronta un’emergenza, l’intervento che si fa deve essere inteso come il segmento di un lavoro più duraturo che abbia a cuore il sistema sanitario già esistente, solo così può fare davvero la differenza. Solo così possiamo essere agenti di cambiamento, sempre mantenendo il rispetto, la fiducia e la trasparenza nel rapporto con il prossimo.