Montaldi Gianluca
Lo Spirito Santo nel Credo
2025/3, p. 5
Lo ‘Spirito’ permette la comprensione del ‘Padre’ e del ‘Figlio’.

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SPECIALE GIUBILEO
Lo Spirito Santo nel Credo
Lo ‘Spirito’ è necessario per la comprensione del ‘Padre’ e del ‘Figlio’.
GIANLUCA MONTALDI
Una delle caratteristiche del Credo cristiano è certamente la presenza di un ‘terzo articolo’, dopo quello sul Dio Creatore e sul Dio Redentore. Infatti, la sequenza delle verità di fede continua oltre i primi due passi, precisando quello che in linea generale si potrebbe qualificare come il principio che le attualizza e vitalizza. Già da questa prima riflessione si capisce una delle principali difficoltà a riguardo: la vita non è facilmente riducibile ad un resoconto verbale e, anzi, facendolo, se ne storpia la forza attrattiva. Ugualmente per lo Spirito Santo diventa difficile parlarne semplicemente elencando definizioni.
Non per niente il Credo procede per una strada diversa, ovvero descrivendone l’azione nella storia della salvezza e nella vita di fede. Da questo punto di vista, anche la parte del simbolo relativa alla chiesa dovrebbe essere appropriata e inglobata nell’azione dello Spirito Santo. Del resto, per mostrare l’intrinseca unità dei vari articoli e delle realtà che essi significano, l’operazione di descrivere quello che si compie è di fatto già presente anche nei primi articoli, suggerendo da subito, operativamente, che lo ‘Spirito’ è necessario per la comprensione del ‘Padre’ e del ‘Figlio’, perché l’azione è comune.
Credo nello Spirito Santo
Il concilio di Nicea si è sostanzialmente riunito per affrontare la discussione sulla divinità da attribuire a Gesù Cristo, una discussione nata attorno alle prese di posizione di Ario che la negava, per lo meno nei termini che sono stati successivamente concordati. Come abbiamo visto, i padri conciliari ritennero conforme alla rivelazione e alla tradizione l’affermazione che egli è vero Dio e vero uomo, con tutto quanto questo comporta. Relativamente alla terza Persona, invece, la si affermava unicamente come oggetto di fede: «Credo nello Spirito Santo», senza ulteriori specificazioni.
Le discussioni in realtà non terminarono con Nicea e vi furono ulteriori richieste di approfondimento, così che nel concilio riunitosi a Costantinopoli nel 381 non tanto fu decisa una più lunga professione di fede, ma ne vennero esplicitati ed approvati alcuni sviluppi. Proprio la terza parte del simbolo di fede vi trova così una significativa attenzione.
La scarna indicazione del testo del 325 viene a trovare una descrizione più ampia: «Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita e procede dal Padre». Il semplice riferimento alla terza Persona viene arricchito da due descrizioni bibliche e si attribuisce ad essa il dono della vita (il riferimento più semplice è al ‘soffio’ che il Creatore immette nel corpo inanimato del primo essere umano: cf. Gen 2,7-9). La definizione come ‘Signore’ viene ricollegata a kyrios, la traduzione con cui la LXX rende generalmente il rimando a Dio; in tal modo ne verrebbe definita la divinità. In tale direzione andrebbe anche la precisazione che «procede dal Padre»; anche tale espressione ha origini bibliche, questa volta neotestamentarie (cf. 1Cor 2,10; 1Gv 4,1; Gv 14,26; 15,26). Vi sono poi due ulteriori, significative esplicitazioni. La prima fa riferimento all’azione liturgica («Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato»), dove, infatti, l’invocazione allo Spirito è unita a quella rivolta al Padre e al Figlio, uniti in una stessa adorazione. Questo viene riconosciuto come segno dell’efficacia della sua azione, al pari della profezia, con un velato riferimento all’ispirazione della sacra Scrittura («e ha parlato per mezzo dei profeti»). Possiamo invece tenere in sospeso la questione se le ulteriori affermazioni del Credo siano fatte in riferimento allo Spirito o siano puramente esplicative dell’esperienza ecclesiale.
Vi è solo da suggerire in modo ultimo che l’aggiunta fatta dalla sola cristianità occidentale (ovvero che lo Spirito Santo procede «dal Padre e dal Figlio»), teologicamente non comporta nulla più di quanto già detto perché deve essere interpretata alla luce delle dossologie più proprie della tradizione: «Gloria a Dio per il Figlio nello Spirito Santo». In termini dogmatici, cioè, vuole significare la distinzione tra le processioni intratrinitarie; banalmente, essa significa la distinzione personale di Figlio e Spirito.
La presenza nella Bibbia
Con quanto detto in precedenza dovrebbe essere chiaro anche il fondamento biblico della fede nello Spirito Santo. Prima di tutto, perché «la sacra Scrittura è parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio ai [successori degli apostoli], affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano» (DV 9), tanto che la Scrittura può essere interpretata «alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12). Riconoscere l’ispirazione biblica, insomma, significa riconoscere lo Spirito Santo all’opera.
In secondo luogo, numerosi sono i brani biblici che dispiegano l’azione di Dio come azione dello Spirito: la creazione (cf. Gen 1,2), la vita (Sal 104,9), la nuova creazione (cf. Ez 36,36), la profezia (cf. 2Pt 1,21). Del resto, la vicenda di Gesù è collocata interamente sotto la potenza dello Spirito: il concepimento (cf. Lc 1,35), la vocazione battesimale e la missione (cf. Mc 1,9-13), le opere di guarigione come inizio del regno di Dio (cf. Mt 12,18). Addirittura, la sua morte e la sua esaltazione vengono riconosciute nel legame con lo Spirito (cf. Gv 19,30; Rm 1,4).
In terzo luogo, costituisce ed assicura la continuità nella differenza tra la vicenda di Gesù e quella della comunità dei suoi discepoli. Se esplicitamente quest’ultima riconosce la propria radice in una esperienza forte e carismatica che la fonda e che viene rielaborata come azione dello Spirito Santo (cf. 2,1-13; 1Cor 12,1-11), in realtà è la convivenza con Gesù che crea quella comunione che permette di condividere lo stesso spirito, di modo che lo Spirito di Gesù viene vissuto come lo Spirito che sostiene la chiesa. Non per niente il vangelo secondo Giovanni crea un legame tra lo Spirito del Padre, lo Spirito di Gesù e lo Spirito che viene donato ai discepoli e non per niente è lo stesso Spirito che sostiene la preghiera all’abbà proprio del Nazareno e dei suoi discepoli (cf. Lc 10,21-24; Rm 8,15).
Il significato per il monoteismo
Dal punto di vista della storia delle religioni, deve essere comunque chiaro che la lettura cristiana della storia della salvezza non può semplicemente sovrapporsi e sostituire quella ebraica. Il Primo Testamento non aveva certamente come fine quello di parlare di una fede trinitaria. Tanto meno l’islam che anzi può essere letto come un rifiuto anche di questo ulteriore sviluppo. E tuttavia per la fede monoteistica questa ulteriore presenza significa molto. Essa certamente rompe lo schema monistico di una divinità personale cui meccanicisticamente obbediscono le leggi naturali a cui volontaristicamente si devono sottomettere le volontà umane, ma interrompe anche la struttura dualistica e binaria che descrive un reame divino, già salvato, e uno terreno, ancora dannato. Il monoteismo trinitario è un’esperienza di libertà, quella libertà che si sperimenta quando si dà fiducia ad una relazione: non vi sono ‘prezzi’ da pagare per ottenere la grazia di entrare nella relazione con altri, non vi è sicurezza che la relazione mi salvi dal dolore, non è frutto di contrattazione tra forze ma è sostanzialmente accoglienza, abbandono e rispetto.
Ancor più se prestiamo fede alla lettura che ci ha aiutato a cogliere la teologia delle donne. Nel Secondo Testamento pnèuma, «spirito», è di genere neutro, anche se in alcuni versetti viene in realtà attribuito un maschile (cf. Gv 14,26). Al contrario, nel Primo Testamento, ruah è femminile e questo ci consente di valorizzare quelle fratture testuali dove il femminile divino emerge anche nel Secondo Testamento (cf. Lc 13,34; Mt 20,34; Mc 12,41-44). Ovviamente non si tratta di attribuire generi a Dio – non il femminile, ma certamente anche né il maschile né il neutro – quanto piuttosto di percepire come lo Spirito significhi la Sapienza della Vita e come in fondo sia questa a dare corpo ad ogni altra parola.