Il disagio sentito, vissuto e osservato
2025/2, p. 23
Il disagio è parte integrante della vita, ci accompagna nei momenti legati alla nostra evoluzione, si esprime ed evidenzia in condizioni interne ed esterne che chiedono di essere conosciute, assimilate e fatte punto di partenza per il necessario, progressivo cambiamento.
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TRA SCUOLA E FAMIGLIA
Il disagio sentito, vissuto
e osservato
Il disagio è parte integrante della vita, ci accompagna nei momenti legati alla nostra evoluzione, si esprime ed evidenzia in condizioni interne ed esterne che chiedono di essere conosciute, assimilate e fatte punto di partenza per il necessario, progressivo cambiamento.
ANNA GIARDI, pedagogista
Si è responsabili di quello che si fa, ma anche di quello che non si fa (Lao Tsu).
Il disagio è parte integrante della vita, ci accompagna nei momenti legati alla nostra evoluzione, si esprime ed evidenzia in condizioni interne ed esterne che chiedono di essere conosciute, assimilate e fatte punto di partenza per il necessario, progressivo cambiamento. Questi assestamenti necessari richiedono tempo per essere accomodati nel nostro corpo, nella nostra mente. Esistono invece forme di disagio più radicate nella persona che sono un ostacolo alla spinta evolutiva naturale e permangono come impedimento alla realizzazione della persona. Lo stile di relazione appreso in origine e nel corso della vita influenza il nostro modo di essere in relazione oggi, perché relazione implica anche ritrovarsi a sentire qualcosa che può disorientare o addirittura ferire chi si ritrova in quella «buca», oggi come allora. In questi casi, la persona nel disagio continua a interpretare il mondo sulla base dei condizionamenti appresi nel corso della vita nel fronteggiare le esperienze avverse. Questo senso di impotenza, che connota la permanenza nel disagio, può essere paragonato a una barca che resta arenata nel fondale basso e da lì non riesce a muoversi in nessuna direzione. Questo disagio come condizione di solitudine emotiva richiede attenzione particolare da parte della comunità educante in senso di corresponsabilità.
Per una «cultura» del disagio
Oggi la condizione di disagio sembra essere parte integrante. Non mi sto riferendo alle fragilità certificate a seguito di valutazioni cliniche, quanto a situazioni di dispersione e discontinuità emotiva relazionale più o meno manifesta che caratterizza il nostro tempo, difficilmente intercettata. Adulti e bambini nel disagio sono soggetti indistintamente a queste «cadute di connessione» alternate e si ritrovano a tratti sganciati dall’essere in relazione, nel percepirsi distaccati ed estranei a ciò che si presenta. In tali momenti non è presente la capacità di autoregolare le proprie emozioni e principalmente si tende ad atteggiarsi in modi difensivi da ciò che non viene percepito come rassicurante per loro, senza possibilità di potere tenere conto dell’altro o della situazione. Questo, spesso, crea solitudine emotiva in chi ne soffre, disadattamento, ma non sempre consapevole. Un esempio classico è il distacco dell’attenzione con conseguente incapacità di ascolto. Quante volte i bambini/ragazzi ci dicono di annoiarsi. La modalità online/offline dei nostri dispositivi esprime bene il concetto. Ci sono/non ci sono, sono altrove. E restarci tanto tempo «mamma ti ascolto mentre faccio altro». L’annoiarsi e il riempimento di vuoto che non si riempie mai, come un vaso forato. Come è possibile «leggere» il disagio?
Finché continueremo a etichettare i bambini /ragazzi come persone che «lo fanno apposta», non potremo arrivare ad avvicinarci a ciò che li porta ad atteggiarsi in modi non sempre consoni al contesto (scuola e famiglia). Il bambino/ragazzo che soffre una condizione di difficoltà o fragilità, per essere aiutato, avrebbe bisogno di vivere con adulti sensibilizzati su questi temi educativi, interessati ad avvicinarsi a una maggiore comprensione sul perché egli si atteggia in tale modo, per approssimarsi a «leggere» la sua condizione in maniera più opportuna. Stabilire una connessione emotiva rassicurante con il minore significa attenzione rispetto al «come io mi pongo, mi atteggio verso lui/lei», cercando poi di avvicinarsi al senso della risposta del bambino. Attraverso questi piccoli esercizi di prossimità rassicurante, la relazione risulterà maggiormente interattiva e il minore si sentirà più visto, compreso in tutto il suo sentire, per lo meno non colpevolizzato per come in quel momento non riesce ad essere. In tanti casi, invece, gli adulti non riescono a trasmettere ai più piccoli questo senso di connessione emotiva rassicurante predisponente la relazione. Perché accade questo? Non si tratta necessariamente di adulti disinteressati o lontani dai figli, anzi tutto questo può accadere anche nelle famiglie presenti nella quotidianità dei figli, che magari lanciano segnali di disagio non individuati dai genitori. Talvolta poi magari gli stessi figli frequentano una scuola dove ci sono insegnanti che osservano, ma non hanno idea di cosa fare per aiutarli. In questi casi specifici il «lui» necessita davvero di essere «visto».
Come si presenta il disagio
Se ci poniamo nell’ottica di osservarlo, il disagio convive con noi e ha bisogno di essere còlto, ha tanti colori, tante sfaccettature, delle quali ne evidenzio tre, in situazioni molto comuni che spesso ricorrono. Ci sono bambini/ragazzi che si manifestano primariamente con modi di interagire non propriamente accettabili e per questi motivi sono sempre in evidenza. Il minore che disturba, che distrae, che non sta alle regole, che non studia, in fondo è colui che non fa quello che si dovrebbe fare e non si conforma. Mediamente questi bambini/ragazzi vengono ripresi con frasi un «non» davanti, oppure con un «devi»; il modo di rivolgersi a loro li condiziona ulteriormente e può farli sentire ascoltati o meno. Avrebbero bisogno di essere riconosciuti nella loro incapacità di essere stabili nella relazione e di non essere in grado di fare diversamente. Da qui si dovrebbe partire. In altri casi, il minore che appare solo e riservato, che parla il minimo per farsi comprendere, solitamente si definisce timido e si presenta ritirato, non partecipe. Spesso viene da spronarlo, esortandolo: «Dai vai! Guarda come fa lui/lei, fallo anche tu!». Questo è un bambino/ragazzo che vive un disagio, ma è anche colui che sta nella sua sicurezza auto-emarginandosi; avrebbe bisogno di essere accompagnato a piccoli passi a familiarizzare con la sua strategia di auto-protezione, per acquisire progressiva fiducia in se stesso e nell’altro. Può risultare impegnativo: è un po' come addomesticamento. Oppure invece si incontra un bambino/ragazzo bravo e buono, obbediente che «sta dove lo metti»; la sicurezza di quest’ultima tipologia risiede nel compiacere l’adulto per essere accettato. Infine, il disagio più evidente, quello di cui ci si accorge maggiormente, è forse quello di colui che intralcia o dà fastidio, anche se in tutti i casi non è mai semplice «convincere» a modificare le «strategie di sopravvivenza», quelle che nel corso della loro vita hanno imparato a consolidare per sentirsi paradossalmente un po’ più al sicuro.
Come possiamo avvicinarci al disagio
In fondo il disagio è un linguaggio, una comunicazione non sempre facile da accogliere, da decodificare. Se riusciamo a mantenere un punto di osservazione leggermente più distante, più decentrato dalla situazione, riusciremo a bypassare la prima interpretazione che è sempre troppo reattiva al contesto e ci porta ad anteporre la nostra personale reazione, mettendoci quindi noi al centro (ad esempio, pensando che il bambino/ragazzo si atteggi così perché ce l’ha con noi, oppure perché vuole provocare). Invece possiamo acquisire obiettività quando riusciamo a domandarci con la giusta distanza: «perché sta facendo così?». Riuscire a fare questo passo è una grande conquista esistenziale. «La pienezza dell'amore del prossimo è semplicemente l'essere capaci di domandargli: “Qual è il tuo tormento?”» (Simone Weil), Un genitore che urla e quindi tratta un figlio in maniera irrispettosa, non pensiamo sia nel disagio; nel caso di un insegnante che si rivolga a un alunno con derisione o giudizio, affermando per esempio che non ha studiato (senza prima averlo ascoltato nella sua versione dei fatti), sta aiutandolo a capire cosa è successo o succede quando non vuole studiare? Chi è nel disagio qui, l’adulto o il minore? In questo caso lo sono tutti, ma l’adulto non sta aiutando il bambino/ragazzo a restare in una relazione «co-regolativa» delle sue emozioni, che alleni ad autoregolarsi, a pensare in maniera integrata, con la mente sensibile e quella razionale. Per esempio, gli adulti che prevaricano, che ribadiscono ostinatamente la loro posizione, nonostante il minore sostenga la sua versione delle cose offrendo la sua sensibilità, non sono in grado di mettersi in un ascolto attivo in quei momenti perché il loro sistema nervoso in forte attivazione limita una possibile sintonizzazione emotiva con l’altro (lo stesso può accadere ai minori). In quei momenti questi adulti sono troppo coinvolti nell’auto-affermazione, obbediscono ad automatismi di comportamento appresi e avrebbero solo bisogno di essere accompagnati a comprendere la dinamica nella situazione. Se solo fossero in grado di prestare attenzione a cosa succede al loro corpo in questi momenti, riconoscerebbero il loro stato di alterazione emotiva interiore che accompagna queste loro manifestazioni reattive. Già questo modo di osservarsi contribuirebbe a mantenere uno stato di integrazione interna facilitando la sintonizzazione emotiva con il bambino/ragazzo. Un lavoro sulla gestione delle emozioni in relazione all’altro può sensibilizzare le persone ad accorgersi delle reattività del corpo prima o mentre esse si innescano, facilitandone il riconoscimento precoce. In realtà, prima di ascoltare noi, i minori avrebbero bisogno di comunicare in presenza di adulti rispondenti e consapevoli del loro stato emotivo, come si sentono e accompagnati a esprimere ciò che faticano a individuare: questo aiuterebbe i bambini/ragazzi a rimanere in uno stato di integrazione interna attraverso una presenza rassicurante (l’adulto). In questi momenti, imparare ad andare verso di loro li fa sentire al centro. Tutto questo non significa abdicare al nostro ruolo di genitori/insegnanti, ma esprimere le nostre idee predisponendoli all’ascolto e alla comprensione, nel profondo, facendoli sentire accolti. Da cosa possono dipendere questi atteggiamenti così reattivi e apparentemente incomprensibili? Il disagio si trasmette, ci sono forme di disagio che imperversano negli adulti e che si trasmettono ai minori, perché gran parte del mondo adulto «non sa quello che fa», non tanto in termini di inconsapevolezza vera, ma di incapacità a gestire i propri stati di alterazione percettiva (neurocezione) del sistema nervoso quando lo stesso viene sollecitato nella relazione con l’altro.
Affrontare e riconoscere il disagio
Il percorso di psicoeducazione è un «lavoro» di sensibilizzazione, che si traduce in allenamento quotidiano per stare in presenza proattiva senza arrecare danno. È indicata ogniqualvolta manchino le condizioni ottimali allo stare bene in relazione, affinché si possano individuare modi per armonizzare il sentire individuale e degli altri intorno a sé: iniziare a osservarsi con curiosità in base a ciò che l’altro mi suscita (sembra facile!) e mettersi poi in ascolto di sé per riuscire a tendere una mano all’altro. Sapere ascoltare i figli non significa pretendere di avere o dare ragione, ma lasciare loro intendere che quello che sentono e pensano è tenuto in degna considerazione. Nello specifico, arrivare a sentire cosa succede in noi quando ad esempio diventiamo rabbiosi e reagiamo bruscamente, incapaci di ascoltare l’altro, questo potrebbe essere un passo importante. Rispecchiare ai figli riconoscimento, approvazione del loro sentire (invece che disapprovarli per reazione) è qualcosa che può essere appreso: diventa pian piano una sensibilità che si acquisisce quando iniziamo ad accorgerci di noi e di quello che sta succedendo. Questa attenzione auto-riferita come esercizio di presenza può consentire al nostro corpo allertato di rimanere maggiormente calmo e rassicurato attraverso il nostro sguardo compassionevole che ristora la nostra solitudine emotiva, predisponendoci all’altro in modo più comprensivo.
Il discorso sulla prevenzione del disagio infantile sul tema dell’autonomia e della regolazione emotiva ci porta a considerare come essenziale l’analisi del tipo di «presenza» o di «vicinanza» da parte dell’adulto nei confronti del bambino, perché la chiave di comprensione del processo non è tanto che cosa l’adulto dice o fa, quanto piuttosto come lui «è» nei confronti del bambino in termini di consistenza della sua presenza (Giuseppe Nicolodi, pedagogista).
Di nessun sentimento o sensazione devi vergognarti: sei responsabile solo di ciò che ne farai. E se qualcosa che senti dentro ti dà fastidio, cerca piuttosto di capire cosa vuole dirti. Riascoltati dopo qualsiasi esperienza significativa, per vedere cosa hai appreso sulla vita e su te stesso, al di là del successo e del fallimento. Non temere di guardarti allo specchio (spesso sono gli altri a rimandarci la nostra immagine): cerca di pulirti il volto, piuttosto che rompere lo specchio che te lo rimanda. Non avere paura di farti aiutare, accompagnare: davanti ad un altro prendiamo coscienza di parti di noi altrimenti nascoste e insondabili. Rinuncia a controllare la vita: la primavera fiorisce, anche se sei seduto e la aspetti. Non spingere il fiume: scorre da solo. E non pretendere di fermarlo: saresti travolto. Lascia che ognuno sia sé stesso, così l’incontrerai nella verità (p. Giovanni Salonia, psicologo e teologo).