Vivere da cristiani in Medio Oriente
2025/2, p. 16
La drammaticità ed enormità dei fatti che accadono nel mondo arabo induce a chiedersi cosa vorrebbe dire «vivere da cristiani in Medio Oriente».
Qui la Chiesa è chiamata a non chiudersi in se stessa per organizzare la speranza.
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FOCUS SUL VICINO ORIENTE
Vivere da cristiani in Medio Oriente
La drammaticità ed enormità dei fatti che accadono nel mondo arabo induce a chiedersi cosa vorrebbe dire «vivere da cristiani in Medio Oriente». Qui la Chiesa è chiamata a non chiudersi in se stessa per organizzare la speranza.
RICCARDO CRISTIANO
La prima risposta è istantanea: vorrebbe dire sentirsi appartenente a una Chiesa, cioè a una comunità che, nell’emergenza terribile di questo tempo, offrirebbe la certezza di un rifugio, ben chiuso, capace di mostrare una estraneità a quel contesto. Questa scelta deriverebbe da una certezza: quel mondo è deformato dall’immodificabile Islam e «il cristiano in Medio Oriente» non gli appartiene in nessun modo: l’ultima istanza sarebbe la sua seconda «appartenenza», quella all’Europa cristiana, per fuggire o sfuggire a questa trappola arcaica e angosciosa. In questo caso però l’unico riparo sarebbe restare in silenzio nel proprio piccolo ambiente, sotto la protezione del Presidente di turno (per quanto anche lui musulmano), confidando nella sua benevolenza. La seconda risposta concepirebbe un «cristiano in Medio Oriente» che guardandosi attorno si rende conto che di immodificabile, da circa un secolo, ci sono soprattutto i regimi, non l’Islam. Egli percepirebbe un quadro capovolto rispetto al precedente: sono i regimi ad aver reso il suo mondo un inferno, spesso con amichevoli silenzi. Eppure, quello è anche il mondo di quest’altro tipo di «cristiano» in un Medio Oriente che gli appartiene intimamente: è «suo» come «loro», come lui appartiene a loro quanto loro appartengono a lui; insieme devono e possono cambiarlo, oggi. Questo secondo modo di «vivere da cristiani in Medio Oriente» obbliga a ritenere che occorre agire, perché nessuno è innocente.
Il bisogno di una bussola in un contesto lacerato
Seguendo questi esempi opposti, sono emersi in me alcuni ricordi: dopo gli epocali accadimenti di piazza Tahrir al Cairo (cioè dopo la rimozione popolare dal potere di Mubarak) un gruppo copto, con tutti i crismi dell’ufficialità, chiese che si indagasse se dietro la strage jihadista di quel Capodanno 2011 ad Alessandria non ci fosse la complicità dei servizi d’intelligence egiziani. Dalle inchieste emergevano alcuni indizi, che però erano sempre rimossi dalle indagini; lentamente quella denuncia è scomparsa nel nulla. Questo ricordo ne ha fatto emergere un altro: nel 2012, quasi contemporaneamente, alcuni bambini siriani, in età scolare, scrissero sul muro della loro scuola lo slogan che da Tunisi aveva preso a imperversare in tutto il mondo arabo: «il popolo vuole la caduta del regime». Arrestati, furono orrendamente seviziati e riconsegnati così, senza unghie o altro, ai loro cari. Questo fatto provocò dei moti popolari, diffusi e potenti, sui quali le gerarchie ecclesiali di Damasco preferirono mantenere un prudente riserbo. Questo ricordo ne ha fatto emergere un altro ancora, di qualche anno successivo: nel 2016 un cristiano, il generale Michel Aoun, era arrivato alla presidenza della Repubblica in Libano, per affermare subito che la debolezza dell’esercito nazionale spiegava il bisogno irrinunciabile della milizia della resistenza, Hezbollah (partito paramilitare islamista, sciita e antisionista), che con i suoi deputati era stata determinante ad eleggerlo. Se fosse stato così, mi sono sempre chiesto, perché non proponeva di inquadrare quelle armi e quei «combattenti» nell’esercito del paese di cui era Presidente? Questi tre ricordi indicano i problemi che emergono se prevale la prima strada, quella di mettersi sotto la protezione del potente di turno, per la paura o per l’oggettiva difficoltà di imboccare l’altra strada. Questo non impedisce di vedere che anche l’altra strada, quella del senso di appartenenza a quel mondo, si scontra con problemi non irrilevanti: paesi come il Libano, la Siria e l’Egitto, sono nella tormenta in cui non si scherza e non si può essere irresponsabili. Ma di certo occorre una bussola.
La necessità di uscire dal virus del totalitarismo
Come «cristiano che vive nel Medio Oriente», si comprende che le colpe degli altri sono enormi ed evidenti. Ma ci sono anche proprie debolezze? In Siria, ad esempio, sappiamo che la popolazione era di 22 milioni di abitanti nel 2011, oggi è meno della metà: 6 milioni sono stati deportati all’estero, 7 milioni sono sfollati, internati in campi profughi agli estremi del paese. Ma le voci ecclesiastiche su questo si sono sentite? Se ci si chiude a proteggere se stessi, sfugge la vera differenza tra lealisti e terroristi. Come sfugge che se il presidente, il cristiano Michel Aoun, avesse avuto certezza che le armi e i combattenti di Hezbollah servivano davvero a proteggere tutto il Libano e li avesse inquadrati nel suo esercito, sotto i suoi alti comandi patriottici, forse la situazione nel paese oggi sarebbe differente. Se ci si chiude a proteggere se stessi e ci si adegua alla retorica corrente, anche questo aspetto, magari, sfugge. Sperarsi estranei alla storia non ci estrae dalla storia. E la storia di quella zona di mondo arabo può ripartire se esce dal Novecento e dalle sue malattie totalitarie. Per ripartire, infatti, occorre individuare il punto da cui muovere, che a mio avviso è l’errore capitale della storia recente: l’abbandono della «Primavera» che ha sfidato tutti i regimi. Delle antiche e fiorenti comunità cristiane di Siria cosa è rimasto sotto il «mantello protettivo» della giunta di Bashar al Assad? Certo uscire dal mantello protettivo è rischioso: lo sa bene il patriarca caldeo di Babilonia, che è dovuto andare a rifugiarsi nel Kurdistan iracheno, per impedire che il regime derubasse i cristiani del loro patrimonio immobiliare. Lui, il cardinale-patriarca Louis Sako, ha avvertito quella «Primavera» quando – nell’irachena piazza Tahrir di Baghdad – i cecchini di Stato spararono sui giovani manifestanti, disarmati. Egli con i suoi vescovi andò in piazza a portare la sua solidarietà irachena, nazionale e sovrana: ebbe coraggio, ha rischiato. Purtroppo, non ricordo, nel lungo decennio 2011/2021, un episodio analogo a quella luminosa giornata irachena. Ma anche un singolo episodio indica che quella strada esiste, è percorribile. Il braccio di ferro a Baghdad l’ha vinto il cardinale Sako, tornato in sede vincitore.
Disfare gli equivoci del passato
Il fatto è che c’è un problema al cuore del problema arabo-mediorientale: si tratta di decidere se quel problema è l’Islam o sono i regimi. Ovviamente ogni tesi è legittima, ma la storia dell’Ottocento arabo, del grande ruolo che ebbero i cristiani nel ridefinire la cultura e la prospettiva araba nell’epoca che arrivava, l’epoca della sovranità, a mio avviso può indicare che il problema non è l’Islam, ma i regimi. Ma prevale tra noi l’altra idea. Forse perché i regimi e l’ideologia dello scontro di civiltà, hanno voluto e potuto impiegare il terrorismo per convincerci del contrario. Per uscirne dobbiamo tornare indietro, non fare fughe in avanti. Disfare gli equivoci del passato consentirebbe un nuovo inizio. E gli equivoci sono cominciati con la spedizione napoleonica del 1978, che voleva introdurre i concetti di «nazione» e di «repubblica». Vocaboli che non esistevano: nella fretta si tradusse «nazione» con il termine usato dagli ottomani per indicare le varie comunità di credenti, millet. Il punto è oggetto di discussione da allora. Il nazionalismo arabo dell’Ottocento, prodotto della grande esperienza della Nahda («Rinascimento arabo») – alla quale hanno dato un enorme contributo tanti intellettuali cristiani – si è posto il grandioso obiettivo non di divenire un’ideologia, ma di raggiungere la condizione dell’Europa che aveva portato una triplice visione: indipendenza, abbandono del sistema economico-sociale medievale, ingresso in una nuova sovranità araba. Dunque, l’equivoco poteva essere evitato, ma l’indipendenza bulgara fu proclamata nella Chiesa dei quaranta martiri nel 1908. Ancor peggio erano andate e seguitarono ad andare le cose con la conclusione dell’indipendenza greca – cominciata male nel 1832 con l’idea di Grecia ortodossa e impero musulmano – e terminata malissimo con il trasferimento di popolazione, cristiani in Grecia e musulmani in Turchia: il volto di questa separazione «nazionalista» si è rivelato rispettivamente nella distruzione di chiese e di moschee, all’inizio del Novecento. E la storia dell’equivoco non era terminata. Proprio i cristiani, così presenti nel grande fermento del nazionalismo arabo, anche a causa dell’azione delle potenze europee, sono apparsi come le loro quinte colonne, un lavoro scientemente facilitato dai famosi consoli d’Inghilterra, Francia o Russia. Questa percezione ha portato nel 1915 alla follia: il genocidio degli armeni per mano dei nazionalisti turchi. Quando le grandi potenze europee hanno scelto di lì a breve la via coloniale, si è capito che c’era davvero un equivoco. Il nazionalismo ottocentesco resisteva a parole nelle menti di coloro che pensavano a una sola grande nazione araba, ma anche di molti cristiani che guardavano ai confini delle grandi aree imperiali: cercavano la Grande Siria, da Amman alle pendici dell’Anatolia. Nel contempo però i colonialisti avevano altre necessità, per soddisfare i loro appetiti: nascevano allora Stati legati a poteri europei… ma non era l’indipendenza il primo modello acquisito dagli europei? Quel loro modo di dividere i territori secondo linee confessionali, pensando a un Libano cristiano, non capovolgeva anche il secondo obiettivo, cioè l’abbandono del sistema medievale?
Il nazionalismo e il potere violento
Dunque, l’equivoco napoleonico, sedato dal buonsenso illuminato dell’Ottocento, è riesploso nel Novecento, generando un paradosso. Le repubbliche importate col linguaggio occidentale, quando l’Occidente si è fatto aggressivo, vedono che i primi nazionalisti giunti al potere a Istanbul hanno concepito il genocidio. Le potenze europee hanno dunque di fatto promosso non l’indipendenza, ma la sottomissione e così, nella seconda metà del Novecento, si sono elaborate ideologie totalitarie e poteri basati sull’esercizio della violenza assoluta. Il genocidio armeno è diventato l’atto fondante della deriva del nazionalismo malato. Va ricordato anche un altro paradosso, nascosto ma significativo: lo spazio dell’Anatolia (l’antica Asia minore), casa madre della «tolleranza ottomana», è diventato lo spazio per annientare l’altro. Dunque, da tutto ciò e dal disastro del conflitto arabo-israeliano è emerso un nazionalismo del tutto nuovo, votato a ridurre l’io a un’unica identità nazional-comunitaria e la comunità a quella del capo indiscutibile. Questo nuovo paradigma è stato accompagnato da un prototipo di capo (Rais): arabo, cioè non più straniero, contadino, militare e golpista (ad esempio, Nasser era un militare nazionalista, golpista dal 1956; Gheddafi lo ha seguito nel 1969; Assad ha imboccato la stessa strada golpista dal 1971; Saddam Hussein si è unito a loro nel 1979). Eccetto Nasser, che guidava un Egitto omogeneo e unitario da secoli, tutti gli altri parlavano di nazionalismo, ma comandavano con il tribalismo. Dunque oggi, mentre il mondo arabo nei paesi del Golfo prosegue la sua modernizzazione forzata all’ombra di emiri sempre più lanciati nella costruzione di un’omogenea società dei consumi, nella vasta regione che va da Baghdad a Beirut si vive nel buio della miseria, nelle macerie, nella prospettiva di una frantumazione etnico confessionale. Forse i cristiani, magari federando le loro Chiese nella «Chiesa nel mondo arabo», potrebbero indicare a tutti proprio la via del federalismo, come spazio abitato da un mosaico di popoli, fedi e culture, una casa con molte dimore. Rimettere insieme il mosaico, in modo federativo, incontra un ostacolo: i regimi totalitari. Ma il federalismo sembra il modo migliore per uscire dai totalitarismi novecenteschi: i cristiani, anche se pochi, lo potrebbero favorire, avviando una nuova Nahda.