Cozza Rino
Vita consacrata per tempi nuovi
2025/2, p. 11
La vita religiosa per continuare a vivere ha bisogno di cose vive. Bisogna ridonarle quella bellezza umana e spirituale che crea gioia del vivere e del donarsi.

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PRESENTE E FUTURO DELLA VC
Vita consacrata per tempi nuovi
La vita religiosa per continuare a vivere ha bisogno di cose vive. Bisogna ridonarle quella bellezza umana e spirituale che crea gioia del vivere e del donarsi.
RINO COZZA, scj
Il desiderio che spinge le persone ad affidare a una comunità, pezzi essenziali di libertà e di interiorità, oggi proviene da qualcosa di diverso da quello di un tempo, in particolare perché alla cultura organizzativa e aziendale dell’attuale forma di vita religiosa mancano non pochi elementi indispensabili perché la vita abbia sapore, specie in questo tempo in cui è forte la consapevolezza che non è della vita religiosa ciò che non è umanamente significativo ed evangelicamente efficace.
A partire da questa coscienza, il card. Martini si chiedeva: cosa fare perché «la Chiesa tutta, passi dal dare l’impressione di un’assemblea in lutto a una compagnia a nozze?».
Se «compito della vita religiosa» disse il Papa all’assemblea nazionale CISM (7.11.2014) «è di aiutare la Chiesa a crescere per via di attrazione», allora bisogna ridonarle quella bellezza umana e spirituale che crea gioia del vivere e del donarsi. Dunque, le nuove generazioni preferiscono forme capaci di ospitare i nuovi temi della vita, come gioia, libertà, sensibilità, coraggio nelle iniziative, il tutto associato a una certa originalità, novità, entusiasmo e giovinezza nello spirito, diversamente dal tempo in cui il pensare a Dio era più facile associarlo alla sofferenza che alla felicità, al dolore che alla gioia, ma un dio che ha bisogno di sofferenze per esserne soddisfatto non può che produrre paura e rigetto.
Identità e testimonianza
Perché la vita consacrata stenta a intercettare l’immaginario dell’interlocutore d’oggi?
Oggi sono molto rari coloro cui interessa l’identità giuridica della vita religiosa, mentre incuriosisce un’identità data dalla vitalità di forme in cui la vita non si senta soffocata, per cui sono attrattive quelle forme discepolari che hanno saputo abbandonare molte cose che erano ideale del mondo antico, preferendo quelle forme di vita associata che sono in grado di modellarsi in profili non di impronta sacrale o clericale. Attualmente quello che sembra essere il segno della vita religiosa del domani è una ricerca e una pratica diversa dal passato che per rivelare l’agire e il dire di Cristo deve portarci dove la storia corrente ci chiama.
La vita consacrata è nata da un tipo di pensiero che non l’ha portata a imparare qualcosa di nuovo perché già da subito avvenne che, per timore di annacquare e deteriorare la purezza della forma originaria, iniziò a produrre all’interno gli anticorpi per difendersi da ulteriori nuove creatività percepite come minaccia. Ed è così che, strada facendo, finì per dare vita a strutture organizzative e di governo che assorbirono in sé ogni dimensione profetica, diventando monopoliste del principio carismatico. La conseguenza è di non valorizzare gli apporti di persone nel suo seno dotate di talento e creatività, perché percepite come minaccia per l’identità del carisma stesso come pensato all’inizio.
Ma quando una forma comunitaria conosce solo il proprio passato, è naturale che per comprendere i fatti nuovi, essa «cerchi nelle cose che accadono gli elementi che confermano le proprie idee e non quelli che le sfidano». Così facendo si porta a consolidare sempre più i contorni, fattisi nel frattempo oltremodo sfuocati, di una teologia della vita religiosa e della sua etica, «incapaci di interloquire come testimonianza evangelica con le nuove sfide e le nuove opportunità», conseguenza del «non sentire più il bisogno di imparare, di ascoltare, di farsi mettere in discussione». Da qui l’aprirsi della strada allo sfiorire, e un po’ per volta, al declino.
Da «osservanti» a «sognatori»
Hannah Arendt lasciò scritto: l’essere umano non è fatto semplicemente per replicare, per eseguire, ma è nato per incominciare, per agire mettendo al mondo qualcosa di nuovo, di inatteso, di originale, per cui non serve gente assuefatta, ma che abbia l’atteggiamento della sorpresa e della meraviglia per accorgersi di questo incessante venire di Dio. Solo mantenendo in tensione tradizione e innovazione, è possibile attraversare il tempo, rendendo viva e dinamica, non morta e rigida la propria identità, consapevoli che il «carisma» non coincide in tutto con la persona del Fondatore/trice, per cui la realtà da lui inaugurata, per durare ha un bisogno vitale di membri creativi e innovativi: cioè di «gente che non ami solo buone esecuzioni orchestrali di spartiti già scritti, ma che si lasci sorprendere da nuovi spartiti, da nuove musiche, da nuove danze». Gente che per lo più nell’istituzione, pensando che «nessuno è profeta nella sua patria», non sente il bisogno di valorizzare, finendo – è detto nel documento «Scrutate» – con il ritrovarsi «incapaci di interloquire come testimonianza evangelica con le nuove sfide e le nuove opportunità».
Se ora la distanza tra i racconti del passato e le sfide del presente è diventata enorme è perché da troppo tempo alla vita religiosa mancano progetti-sogno generativi di un futuro diverso. È questo il primo ostacolo che stanno incontrando i giovani che sono alla ricerca di come spendere evangelicamente la vita.
Allora l’impegno è di passare dal narrare un tesoro da custodire, a inventarne di nuovi, anziché – come disse il Papacontinuare a «combattere battaglie di retroguardia e di difesa».
È questo il modo di emulare il fondatore/trice nella sua creatività, anziché copiarne le forme nelle quali essa storicamente si è concretizzata, perché in tempi di veloce cambiamento, «non c’è tradimento più grande di quello di un figlio che decide di aderire in tutto ai progetti dei suoi genitori». Vale a dire che nella vita di un carisma, il dono dei padri non basta per continuare a vivere: è indispensabile anche il dono dei figli.
Da qui il prendere innanzitutto atto che la vita religiosa, ridotta ai suoi attuali aspetti funzionalisti ed esteriori, non è più in grado di incuriosire. La misura di ciò è data dal fatto che nella maggioranza dei casi sono più numerose le persone che chiedono di andarsene che quelle che chiedono di entrare. Fenomeno questo che evidenzia il limite delle istituzioni, oggi portate a mettere in primo piano, anziché le aspirazioni delle persone, i problemi istituzionali, tendenti a cercare la salvezza in quell’organizzazione che non può che produrre altra organizzazione, per finire soddisfatti di sicurezze che in verità custodiscono l’insicurezza.
Coniugare il passato al futuro
Il passato sa dire parole di vita solo se coniugato al futuro.
La durata di ogni forma di istituzione si iscrive nella visione dell’uomo di un preciso momento storico, per cui l’eredità di un carisma vivrà soltanto se verrà interpretata come un qualcosa di generativo, un «seme», cioè come qualcosa di vivo che solo morendo porta frutto. Allora la trasmissione della tradizione – scrive M. Magatti – non può essere ripetizione meccanica, ma continua reinterpretazione e rimessa al mondo.
Pertanto, il rinnovamento che la Chiesa chiede ai religiosi/e non nasce dall’efficienza del «fare», appiattito in una deriva funzionalista, bensì – è detto in Evangelii Gaudium (n. 155) «dall’ascolto empatico delle nuove domande dentro nuovi contesti, per non dare risposte vecchie a domande che nessuno fa». Nel contempo è necessario non illudersi che il raccontarlo sia sufficiente a far desiderare il futuro, perché c’è invece il pericolo che quanto più fulgente viene celebrato il passato, tanto più sbiadito rischia di diventare il presente.
È vitale portarsi dalla separazione alla condivisione della vita di tutti
Il credere che l’incontrare Dio comportasse il separarsi dagli altri è stata l’idea determinante al far sorgere, dopo la fase apostolica del cristianesimo, le molteplici forme di vita per Dio. È quello che già fecero gli scribi e i farisei i quali per avvicinarsi sempre più al Signore si separarono di fatto dal resto del popolo, «finendo paradossalmente che per esser più vicini a Dio, si trovarono ad essere i più lontani».
Un tempo, le persone trovavano il senso della vita nell’appartenere alle grandi istituzioni, dalla religione, dalla famiglia. Ora invece stiamo vivendo un cambiamento per cui la relazione istituzionale viene sostituita dalla relazione personale perché ciò che dà senso alla vita della gente non è l’istituzione alla quale si appartiene ma le persone con le quali si relaziona. È ciò che già avevano colto e poi espresso nelle loro fondazioni, sia Charles de Foucauld, come anche Maddalena Emmanuelle Marie, e vari altri.
Oggi, la rinuncia alla separazione è quello che caratterizza la maggior parte dei nuovi «Cammini discepolari», ad esempio, in modo sorprendentemente incisivo nella comunità di s.Egidio, come anche in tutte le comunità fatte di persone che sanno «stare con l’orecchio al cuore di Dio e la mano nel polso del tempo», per incontrare i poveri al fine di aiutarli a badare a se stessi, organizzandoli a divenire, per quanto possibile, delle persone e delle comunità umane responsabili. «È questa la vera rivoluzione copernicana: non una vita religiosa che va “anche” verso le periferie, ma una vita religiosa che si ricomprende nella sua funzione, identità e profezia a partire dell’essere ben radicata dentro le piaghe e le inquietudini degli ultimi» di un dato momento storico: espressioni che vengono a dire che se non si entra nel processo della vita che è l’evoluzione, anche le esperienze più belle si affievoliscono.
«Avviare “processi” è più saggio che “occupare spazi”»
È questa un’espressione che papa Francesco va ripetendo, e che riporto quale sintesi di quanto fin qui detto.
Con il termine processo si intende il portarsi dove si è chiamati a essere, per cui non è un «processo» continuare nella ricerca di che cosa serve a sé, chiusi nei propri spazi imbalsamati, o quando nati per essere profeti si finisce con il diventare gregari, cioè gente che non sa esercitarsi nell’uso creativo della fedeltà.
Il motivo dell’avviare processi è dunque dato dal credere che oggi serve una vita religiosa aperta e incompiuta, facendosi ogni giorno discepola del suo Signore e della storia. Pertanto, avviare processi significa imparare a stare nella vita diversamente da quel tempo in cui, grazie al suo ambiente e al suo impianto dottrinale provenienti da un lontano passato, ha potuto condurre per secoli una autonoma cultura alternativa relativamente forte, cosa, questa, che oggi i giovani sono i primi a segnalare come malattia da cui guardarsi, perché può portare a idee e modi di vivere non profumati di vita.
Ne consegue che, «se vogliamo che la stessa storia continui domani, oggi dobbiamo accettare che la sua prima parte finisca davvero», sospinti dal credere, che il nuovo ed il vecchio non possono coesistere.