La Redenzione
2025/2, p. 5
Una storia nella quale si sperimenta ingiustizia, guerra e odio ha bisogno di essere redenta, riscattata; ha bisogno di un liberatore, di un redentore…
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SPECIALE GIUBILEO
La redenzione
Una storia nella quale si sperimenta ingiustizia, guerra e odio ha bisogno di essere redenta, riscattata; ha bisogno di un liberatore, di un redentore…
GIANLUCA MONTALDI
Una prima lettura
La narrazione o, meglio, le narrazioni che troviamo nella Bibbia cristiana sono tra l’altro una rilettura sapienziale delle vicende umane; hanno tra i loro obiettivi di rileggerle alla luce dell’affidamento a Dio, per evidenziare quei momenti di luce, che nei complessi alti e bassi della storia umana pure continuano ad essere presenti. Nel suo insieme si tratta di una proposta di speranza e di una proposta di salvezza rivolta ad ogni livello dell’esperienza umana e creaturale.
Se teniamo presente questo, diventa anche più chiaro perché le attese e i desideri di salvezza che sorgono da tale esperienza – ultimamente il desiderio di un mondo colmo di giustizia, di pace e di amorevolezza – vengano riletti con varie categorie.
Un campo semantico che viene utilizzato per parlare di tutto questo è legato al concetto di ‘redenzione’: una storia nella quale si sperimenta ingiustizia, guerra e odio ha, infatti, bisogno di essere redenta, riscattata; ha bisogno di un liberatore, di un redentore, di un go’el. È una storia nella quale la speranza ha una parte del tutto attiva ed effettiva. In modo particolare, la riflessione giudaica pre- e post-cristiana, e di conseguenza lo stesso pensiero cristiano, hanno messo in relazione tra loro due figure della redenzione: una legata alla profezia, l’altra legata alla regalità. In qualche modo possono essere presentate come figure contrapposte: il re porta liberazione nel modo della guerra, della giustizia e della sconfitta dei nemici, il profeta apre il futuro nella forza della parola, del silenzio e lasciandosi sconfiggere dai nemici. Ovviamente stiamo semplificando; tanto è vero che le due tradizioni interpretative di fatto vengono tra loro collegate: l’esempio più chiaro di tale connessione sono le narrazioni cristiane della passione di Gesù di Nazareth. Nel loro momento estremo, sulla croce riconoscono «il re dei giudei» (cf. Mc 15,26; Mt 27,37; Lc 23,38; Gv 3,14-21).
Ritroviamo tale paradosso anche in una delle confessioni di fede più antiche: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e […] fu sepolto e […] è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e […] apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3). La morte di Gesù viene in tal modo inserita nelle riflessioni cui abbiamo accennato e riletta alla luce di alcuni brani del Primo Testamento nei quali si presenta una figura che muore per altri. Tra le tradizioni scritte, i cosiddetti canti del servo di YHWH (Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13–53,12) hanno giocato un ruolo centrale; tra le pratiche cultuali sarebbe almeno da riferirsi al rito di espiazione (cf. Lv 16; Eb 9). La stessa dinamica mantiene il proprio valore a livello sacramentale, quando nel rito memoriale della morte in croce di Gesù, nell’eucaristia, vengono riproposte e rivissute le parole dell’ultima cena: «Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi… Questo è il mio sangue, versato per voi e per tutti…». Nel credo niceno-costantinopolitano diventa criterio interpretativo di tutta l’esperienza dell’incarnazione: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo… Fu crocifisso per noi…».
Il problema
La teologia si è trovata spesso ad approfondire questo dato e ha sollevato varie domande, di cui una tra le più cruciali è perché è stata necessaria l’incarnazione. Cur Deus homo, ovvero: «Perché Dio si è dovuto fare uomo?», è un’opera fondamentale in questo percorso. Uno dei centri di tale opera affronta la questione del perché in tale prospettiva si è dovuti giungere proprio alla morte di Gesù in croce, quando Dio avrebbe consegnato il proprio figlio nelle mani della (in)giustizia umana: se Dio è onnipotente, perché non è riuscito a dare salvezza solo a partire dalla propria onnipotenza, senza richiedere un sacrificio?
In realtà, la domanda posta da Anselmo d’Aosta, autore di quell’opera, è molto più sottile e rigorosa. Tuttavia, essa riflette una mentalità particolare che J. Ratzinger espone in questo modo:
Per molti cristiani… le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione… La ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi si presenta in una luce doppiamente sinistra… S’infiltra così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell’amore<p> Cf. tutta la discussione in J. Ratzinger, <i>Introduzione al cristianesimo</i>, Queriniana, Brescia 200514, pp. 221-274; qui p. 228. <p/>.
In altre parole, la morte espiatoria di Gesù sarebbe il prezzo pagato ad un Dio assetato di sangue e di vendetta per essere stato offeso dal peccato umano. In questa prospettiva, però, molte cose non tornano: prima di tutto, il volto di Dio in essa presente si scontra e si distanzia da quello annunciato da Gesù nel suo ministero pubblico; in secondo luogo, di fatto tale lettura annulla le reali responsabilità della storia di Gesù e della storia umana; in terzo luogo, ribalta il concetto di giustizia, come se la storia umana possa essere giustificata come storia che ammette e che rende necessarie le vittime. In fondo, Gesù mostrerebbe che la storia umana ha una necessità teologica e addirittura teologale di produrre vittime e che le vittime della storia devono accettare devotamente il proprio destino di vittime per dare un senso teologico e addirittura teologale alla propria sofferenza. Paradossalmente, la redenzione significherebbe giustificazione dell’ingiustizia. Niente di meno evangelico, come aveva già notato F. Nietzsche nella sua spietata lettura:
Come Dio poteva permettere questa morte? La piccola comunità vi trovò una risposta di una assurdità veramente terribile. Dio dà il suo figlio in sacrificio. Ah, come d’un colpo l’evangelo fu finito. Il sacrificio espiatorio e questo sotto la forma più ripugnante, la più barbara, il sacrificio dell’innocente per gli errori dei peccatori, che spaventoso paganesimo<p> F.W. Nietzsche, <i>L’Anticristo</i>. <p/>!
Una seconda lettura
Di fronte a tale ricostruzione, la prima chiarificazione da fare riguarda la realtà storica della crocifissione di Gesù di Nazareth. Si tratta di una pena chiaramente legata al diritto romano e che, quindi, è da addebitare alla potenza che occupava quei territori, se vogliamo – al limite – con la compiacenza delle guide religiose e politiche della popolazione ebraica. Si tratta di una pena capitale presumibilmente prescritta a Gesù per lesa maestà: come dimostrerebbe anche il fatto che è stato condannato insieme ad altri «malfattori» (cf. Lc 23,32), gli venne rivolta l’accusa di aver sobillato il popolo contro il potere costituito. Già a questo livello la lettura evangelica è chiara, contestando la validità della pretesa umana di amministrare la giustizia: se la storia umana è regolata dalla giustizia umana l’innocente passa dalla parte del torto e diventa vittima, così che le vittime della storia vengono accomunate nello stesso desiderio di misericordia e di giustizia (cf. Lc 23,39-43).
Assume, tuttavia, un particolare rilievo teologico la domanda sul significato della morte di questo innocente: per cosa o per chi è morto? È stato un incidente di percorso, come se le cose avessero potuto andare diversamente? È stato il fallimento della predicazione di Gesù, tesa ad annunciare un regno che di fatto non è mai stato? Oppure, possiamo addirittura affermare che la morte in croce di Gesù, la morte di questo innocente, è il segno del regno di Dio che si realizza secondo il cuore di Dio, che questa morte è una morte che redime il mondo?
Per i limiti di questo articolo, possiamo solo dare una risposta al modo di un tentativo. La premessa che rende possibile l’ultima possibilità che abbiamo richiamato è che la vicenda di Gesù può essere letta nell’ottica della consegna: nella sua vicenda, Gesù viene consegnato alla storia umana, una storia umana fatta anche di peccato; lui stesso vive questa consegna e in essa si consegna a Dio come al Padre. La ‘logica’ di Gesù è stata una logica di ‘consegna’ e in questa luce può essere letta la ‘consegna’ che avviene nella sua morte (cf. Rm 8,31-34, Gv 3,16-17), rivelando in tal modo che la ‘logica’ di Dio è una logica di consegna (cf. 1Cor 1,18-25). È in questa ‘logica’, che il mondo è salvato (cf. Rm 5,12-15); è in questo ‘spirito’, che la vittima innocente è immagine della vera umanità (cf. Gv 19,5); è un ‘sacrificio’ che non nasce da un desiderio di vendetta, ma che opera a partire dall’amore e a finire nell’amore (cf. 1Gv 4,10).
Il Figlio è disceso dal cielo per la nostra salvezza, Cristo è morto per i nostri peccati, il suo corpo spezzato per noi, il suo sangue versato per tutti, il suo Spirito diffuso per la nuova creazione. Torniamo ad una lettura trinitaria della salvezza: non è una umanità cattiva alla quale Dio chiede sacrifici per ottenere la redenzione, ma – in consonanza con l’esperienza biblica e giudaica – è Dio che nella grazia opera per la redenzione in una storia toccata dal peccato.