Qui ed ora chiamati a fiorire
2025/1, p. 2
Presentiamo i contenuti della 64ª Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori, celebrata in Assisi, «territorio di grazia e di testimonianza, dove Francesco e Chiara hanno saputo sognare in un tempo di guerre e di contrapposizioni sociali, hanno saputo discernere in un tempo di smarrimento, hanno saputo vedere oltre, leggendo dentro le crepe dei cuori e della vita»: così ha aperto l’Assemblea il presidente della CISM, p. Luigi Gaetani.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Qui ed ora
chiamati a fiorire
Presentiamo i contenuti della 64ª Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori, celebrata in Assisi, «territorio di grazia e di testimonianza, dove Francesco e Chiara hanno saputo sognare in un tempo di guerre e di contrapposizioni sociali, hanno saputo discernere in un tempo di smarrimento, hanno saputo vedere oltre, leggendo dentro le crepe dei cuori e della vita»: così ha aperto l’Assemblea il presidente della CISM, p. Luigi Gaetani.
Questo tempo non è un tempo che sta morendo, ma un nuovo tempo che sta nascendo. Qui ed ora, su questo territorio che è il nostro Paese, fatto di tanta bellezza e di tante differenze, di gratuità e umanesimo, di fede e di capacità di sentire le voci di dentro, siamo chiamati a fiorire – un altro modo per declinare la speranza – nonostante le violenze e le paure, le rassegnazioni e quest’inerme penzolare nel vuoto.
Abbiamo bisogno, noi e la nostra gente, di mani capaci di trattenerci in vita, di non lasciarci cadere nel vuoto. Questo mi sembra l’atto di amore più bello che possiamo coltivare, quello che la vita religiosa può fare in questo momento storico: afferrare la vita dell’altro che grida la propria solitudine, il vuoto, l’essere inerme. In questo senso, il futuro che desideriamo non è uno spazio vuoto, ma impatto con l’umano, e la forma di vita dei religiosi non è poesia inutile, ma sostanza di un amore che si fa offerta delle proprie mani all’inerme. Il cuore del cristianesimo resta la «carne», la forma della vita religiosa resta l’amore personale, passionale, capace di far coincidere il dono della vita con la perdita della proprietà della vita degli altri, in una forma radicale di ospitalità senza esercizio di proprietà, in quella povertà cara a Francesco e Chiara che è amore di quel povero che ha nome e volto, piaghe che non vanno temute, ma baciate e curate.
Il mio intervento, volendo dire una parola su come i segni dei tempi divengono segni di speranza, si snoda su tre percorsi: la vita della Conferenza Italiana Superiori Maggiori, passare dai segni dei tempi ai segni di speranza, abitare nelle strettoie della vita.
Spes non confundit: dai segni dei tempi ai segni di speranza
«La speranza non delude» (Rm. 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo… Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cf. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1).
Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni.<p> Francesco, Bolla del Giubileo ordinario dell’anno 2025, n. 1, Roma, 9 maggio 2024. <p/>
La bolla riprende alcuni temi del significato biblico del giubileo, in primis quello del «cammino che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire ed irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù… Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita»<p> Ib., n. 5. <p/>.
Il Santo Padre Francesco offre segni di speranza che, come cristiani, come religiosi, dobbiamo saper scorgere attingendo nella grazia di Dio. Tuttavia, «Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre». Come afferma il Concilio vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche»<p> Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale <i>Gaudium et spes</i><i> </i>sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 7 dicembre 1965, n. 4. <p/>.
Il discernimento per cogliere i segni dei tempi esige una spiritualità pasquale, rimanda alla capacità di leggere positivamente il significato e fine della storia, senza essere sopraffatti da chi credere che il male avrà l’ultima parola, che gli uomini e le donne siano sacrificabili perché il nostro tempo vive l’oblio dei loro volti e dei loro nomi. I segni dei tempi chiedono, ci ricorda il Papa, di essere trasformati in segni di speranza<p> Francesco, Bolla del Giubileo ordinario dell’anno 2025, n. 7. <p/>.
«Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra»<p> Ib., n. 8. <p/>.
Il secondo segno di speranza «equivale ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere… in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita»<p> Ib., n. 9. <p/>. La generatività è legata alla speranza, questo significa che il calo di natalità, anche quelle che registriamo sul versante della vita religiosa, esige un’alleanza per la speranza, recuperando la gioia di vivere, perché nessuno si può accontentare di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali<p> Ib., n. 9. <p/>.
Poi il Pontefice ricorda che segni di speranza vanno offerti ai detenuti, agli ammalati, ai giovani, ai migranti, agli anziani, ai poveri. Come non vedere in questa elencazione tutti i segni di speranza che gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno saputo incarnare attraverso la fantasia della carità, il loro impegno storico, l’inventiva di tanti nostri fratelli e sorelle che hanno dato bellezza alla vita dando nome, volto alla vita, la loro e quella dell’altro, non solo accogliendo il carisma, che è l’incapacità di Dio di guardare il mondo e girarsi dall’altra parte, ma dando mani e cuore alla loro umanità impattata da Dio per accogliere la differenza dell’altro, il lontano, il differente, lo sconosciuto, l’ignoto, l’inguardabile, ma anche per accogliere la differenza di te che vivi con me e non ti conosco ancora, perché esserci non vuol dire che sei a mia disposizione, ma che sei altro da me.
Questa è la bellezza di un amore che scava il carisma, di una comunità che non dà mai per scontate le differenze, di una famiglia che rimette in circolo le potenzialità del dono fuori dalle logiche della reciprocità, sapendo spendersi quotidianamente nell’innamoramento perché «Se uno fa il bene senza desiderio non è bene quello che fa» (Sant’Agostino) o, in altri termini, se uno ama ma subordina l’amore ai vantaggi che l’amore potrebbe provocare, quello che fa non è amare.
I carismi sono segni tangibili di speranza amorosa conficcati sull’albero della croce di tanta parte di umanità, segni di un amore portato fino alla fine, traccia sacramentale di una storia vera, fedeltà ad una speranza che non delude (Rm. 5, 5).
Oggi c’è bisogno di tornare a rileggere i segni dei tempi con cuore ed occhi nuovi, bisogna avere «gli occhi del cuore illuminati, per poter conoscere» (Efesini 1, 18), perché i molteplici segni stanno urlando e vogliono essere trasformati in segni di speranza, in carezza, bacio, attenzione ad ogni lembo di carne, perché «la speranza nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce»<p> Francesco, Bolla del Giubileo ordinario dell’anno 2025, n. 3. <p/>.
Questa persona interiore, che è il nostro «Sé», vede e sa cose che non sono identiche a quelle viste dagli occhi del corpo. Pascal diceva: «Il cuore ha le sue ragioni, che non conoscono ragione. Lo sentiamo in migliaia di cose» (Pensées). C’è una vista spirituale che va oltre e attraverso quella fisica. C’è un udito spirituale che va oltre e attraverso quello naturale. C’è un discernimento spirituale che va oltre e attraverso il ragionamento naturale.
In questa dinamica evangelica della percezione dell’altro, dalle voci di dentro fino alla sua paralisi, carismi non sono esauribili, non funzionano part-time, non sono il patrimonio di una azienda che ad un certo punto abbassa la saracinesca. I carismi hanno una infinita efficacia, fino a quando Cristo rimane in mezzo a noi, «fino alla fine del mondo» (Mt. 28, 20), essi sono come dei sacramenti, dove la materia è «l’amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito» (Rm 5, 5) e la forma è la inventiva della carità. Hanno solo bisogno di essere ravvivati e per poterlo fare bisogna arrampicarsi fin sulla croce, appoggiarsi sulle spalle del Crocifisso, tentando di riguardare il mondo attraverso la sua prospettiva di luce e di amore, attraverso i suoi occhi e il suo cuore crepato dal troppo grande amore (Gv 13, 1). Così hanno fatto i nostri Fondatori: da Benedetto a Francesco, da Chiara a Teresa, da Ignazio a Saverio, da Filippo Neri a Giovanni Bosco, da Giovanni Battista Scalabrini a Teresa di Calcutta, da Camillo da Lellis a Luigi Guanella.
Un carisma muore per mancanza di sguardo, per inversione di prospettiva, per la stanchezza di chi vive a quote più normali e ha cessato di salire sulle spalle di Cristo, preferendolo scantonare, o limitarsi a guardare dirimpetto, tentando di sentire qualcosa per Lui, mentre Cristo continua a gridare, sospeso tra cielo e terra, restando senza parole dinanzi allo scempio di una umanità devastata dal male, dalla fame, dalla violenza, che ha bisogno di essere trattenuta in vita, guardata, amata.
Il futuro della vita religiosa è questione di sguardi, di ascolto, sta nel grido di tanta parte di umanità, nella prontezza nell’afferrare e offrire le proprie mani alla vita che rischia di cadere nel vuoto, all’inerme. Non possiamo guardare il mondo dandogli le spalle.
LUIGI GAETANI