Formazione alla fede e alla vita
2025/1, p. 35
Questo tema è stato sviluppato dal flosofo Roberto Mancini durante un evento svoltosi nella Cattedrale di Bologna e rientrante nel contesto del cammino sinodale della Chiesa. In questa società in «trappola», segnata da un individualismo vissuto nella logica disumanizzante del mercato e del potere, occorre un passaggio dalla fede convenzionale alla fede nel Vangelo, fonte di un amore che ci rende umani.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
CAMMINI SINODALI
Formazione alla fede e alla vita
Questo tema è stato sviluppato dal filosofo Roberto Mancini durante un evento svoltosi nella Cattedrale di Bologna e rientrante nel contesto del cammino sinodale della Chiesa. In questa società in «trappola», segnata da un individualismo vissuto nella logica disumanizzante del mercato e del potere, occorre un passaggio dalla fede convenzionale alla fede nel Vangelo, fonte di un amore che ci rende umani.
Il filosofo ha invitato innanzitutto a discernere i segni dei tempi e le difficoltà del vivere oggi. «Troviamo adulti seriali costruiti allo stesso modo, da cui i giovani si tengono lontani perché forse vorrebbero un’apertura più viva all’esistenza, una passione per la vita. Oggi la fede vive al buio, adattata al mondo che va verso una spirale di autodistruzione, con grandi diseguaglianze, con una guerra che non è un’anomalia o un episodio, ma è un sistema. La guerra è un’istituzione, costruita con le ideologie, nelle politiche, nei libri di scuola, nell’immagine dell’altro. Non esiste una guerra giusta, una guerra difensiva». Respirando un clima così, si cade nello sconforto, nella rassegnazione. Ricordiamo che siamo immersi anche in una guerra endemica contro le donne, contro i giovani, contro i migranti, contro i poveri, contro la natura.
La nostra vita individualista, precaria e artificiale
Secondo Mancini, la difficoltà più grande viene dall’individualismo: «una posizione compensativa, quasi una difesa. Una postura individualista che non ci permette una vita comunitaria. Il Vangelo invece è un messaggio per le comunità, poi anche per le persone singole. Questo individualismo è la risposta a tutto un trauma della società che è stata ridefinita come mercato. Una società di mercato: tutto si compra, tutto si vende». In questo contesto mercantile le persone diventano «risorse umane», soggetti utili per produrre profitto, altrimenti sono solo uno scarto. Viviamo dentro un sistema nichilista che produce esistenze precarie. «Pensiamo cosa significa la precarizzazione economica: perdere la faccia, perdere la dignità sociale, perdere la possibilità di mantenere la famiglia, sentirsi utili. Tutto questo produce una grande sofferenza: non posso fare progetti, non ho tutele sindacali. C’è poi anche la precarietà indotta da un sistema di guerra: popoli che da un giorno all’altro vengono bombardati, deportati, massacrati, presi nella spirale dell’odio che loro non hanno scelto. Noi generalizziamo parlando di Israele, Russia, Ucraina, Palestina. Distinguiamo invece tra quello che fanno i governi e quello che subiscono i popoli: non è la stessa cosa». Il filosofo ha messo poi il dito in un’altra piaga, quella della virtualizzazione: «la tendenza a riversare la vita nella tecnologia, come se questa fosse salvifica, che da sola risolve il disastro della natura, da sola risolve ogni tipo di contraddizione». Si tratta di una forma di superstizione (vedi l’episodio in cui il popolo ebraico finisce per adorare il «vitello d’oro»), che corrode a livello collettivo il senso di responsabilità insito nella condizione umana. «La vera innovazione sono le nuove generazioni, non sono gli algoritmi, i computer, le macchine». L’individualismo genera di fatto solo una ideologia di sopravvivenza. Prevale «la logica del mercato globale, della precarizzazione, della virtualizzazione, per cui tutto viene riversato nel mondo della rete e perdiamo la capacità di vivere i significati. In un mondo in cui tutti calcolano, prima ancora dell’Intelligenza artificiale c’è un’umanità resa artificiale, in cui io calcolo quello che mi conviene, quello che devo fare e così facendo perdo la sensibilità ai significati. Su questo terreno la fede non può crescere».
La società in trappola richiede una conversione collettiva
Un tema caro a Mancini è quello di imparare a leggere più in profondità la situazione attuale. Per lo studioso non siamo in un tempo di «crisi» e di transizione. Egli ritiene che questa definizione sia in realtà come un «sedativo»: non viviamo in una società in «crisi», ma in una società in «trappola». «Quando io capisco che sono in trappola, in un vicolo cieco, allora finalmente mi rendo conto che devo cambiare strada, per superare difficoltà che sono insieme della fede e della vita. La fede e la vita camminano intrecciate, non c’è una separazione reale […]. Per uscire dalla “trappola” abbiamo bisogno di una vera “conversione di civiltà”. Dobbiamo imparare un altro modo di stare al mondo, di stare in sintonia con la vita, perché l’abbiamo presa contromano, l’abbiamo presa con le armi del potere, della prevaricazione, della sopraffazione, del dominio. Dobbiamo ritornare a quel bivio tra il potere e la vita e stavolta scegliere la vita. Questa non è una qualsiasi transizione, risolta in tecnologie e in promesse facili, ma un’esigenza di profonda conversione collettiva, una conversione di civiltà, cioè un imparare a stare al mondo in sintonia con la vita. Se ci risvegliamo andando in questa direzione, ritroviamo l’esperienza della fede, parola che per molti è vuota e per molti è del tutto superflua. Se c’è questa svolta che passa per le famiglie, le comunità, i territori e le istituzioni, la parola “fede” sarà un riferimento prezioso per molti nell’umanità contemporanea».
La fede diventa fonte di umanizzazione
Se c’è questa svolta si esce da una fede convenzionale. «La fede è un’altra forma di vita, non una religiosità. Non a caso il Vangelo la chiama una “nuova nascita”. Se la fede è questa svolta di umanità profonda – dove ritroviamo le relazioni, la capacità di comunione, il creato e dove sentiamo il mistero della nostra dignità, il fatto che ognuno di noi è sacro perché amato da Dio – allora facciamo esperienza di quest’amore interiorizzandola non come benessere interiore, ma come stile di vita. Così la fede diventa generazione di un altro modo di vivere, dove si osa di più, creando spazi di accoglienza, praticando la giustizia che risana le situazioni, diventando una fonte di umanità per la società. La fede come relazione con un amore che non mi abbandona, mi fa sperimentare che la vita è un dono, un dono definitivo e che quindi la morte non può legare la nostra capacità d’amore, non può intimidirci. È tempo che i cristiani si sveglino “facendosi leggere” dal Vangelo, non soltanto leggerlo, perché quando il Vangelo legge le nostre vite ci dice dove siamo, ma ci dice anche che c’è una strada che possiamo iniziare».
L’amore che ci umanizza
Mancini sostiene che va superato lo schema convenzionale che pensa l’altro come nemico, come quello di un’altra fede, quello che non condivide la mia condizione di vita. In questa logica Dio è l’essere onnipotente, che ha il potere superiore a tutti i poteri. «Così l’abbiamo immaginato e l’abbiamo ricondotto anche al Padre di Gesù di Nazaret. Abbiamo sovrapposto questa idea di potere che è tutta nostra, non è del Vangelo. Finchè io resto dentro una qualsiasi confessione religiosa ma in un modo ideologico, dove Dio è un’idea e non è una presenza concreta, non faccio un’esperienza di salvezza. Si tratta di vivere una “esperienza” di salvezza: questo vuol dire imparare un altro modo di vivere, grazie a una relazione profonda con un amore che ti rende umano, un amore che puoi apprendere ma che non ti puoi inventare. La Scrittura utilizza il termine misericordia: in ebraico questa parola dice l’amore uterino, viscerale, materno: è una metafora della maternità (che non riguarda solo il corpo fisico), di chi ama credendo nella vita dell’altro. Questo è l’amore generoso, generativo, indistruttibile, da cui neppure il male ti può separare. Il grande miracolo della misericordia generativa è separare il malvagio dal male che fa, dalla sofferenza che procura innanzitutto a se stesso. Se uno sperimenta questa svolta, non ha quella fede convenzionale dove Dio è un’idea, dove la religione è una pratica di qualche liturgia facile da vivere». Dunque, la fede è un’altra forma di vita, una «nuova nascita». Fin quando la fede è convenzionale e astratta, diventa compatibile con le guerre, con il maschilismo, con ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo. Se invece c’è questa svolta di umanità profonda, ritroviamo le relazioni, la capacità di relazioni con il creato, con il mistero della nostra dignità». Con questa prospettiva, secondo Mancini, si annullano le categorie dispregiative: gli «stranieri» come se venissero da Marte, o da Giove; i «clandestini», coloro che non hanno il diritto di essere al mondo; le «risorse umane» e gli «scarti»; i giovani «bamboccioni»: che non hanno il futuro e nemmeno il presente. Questa grande cecità si può spezzare solo con un rinnovamento profondo.
Curare la fonte di energia del Vangelo
Il Vangelo è come «un codice che spiega quali sono i significati essenziali della vita». Perciò occorre avere cura di questa fonte, come singoli e come comunità. A questo punto si può comprendere meglio l’importanza di avere guide come persone di riferimento. «Oggi nel mondo abbiamo una crisi di leadership. Nella politica ci sono maschere di potere, ma dietro non c’è la persona. Noi diventiamo persone insieme e abbiamo bisogno di guide di riferimento: non di capi narcisisti o accentratori, ma di guide che non fanno la strada al posto nostro, rispettando così il nostro valore: un’autorità che ti fa crescere, ti libera, ti insegna la via per la vita». In conclusione, è decisiva la formazione e l’educazione. Si badi bene, occorre «una formazione nella fede, non alla fede. L’educazione è nella pace, la assumo come modo di fare nel quotidiano». Ne consegue che abbiamo bisogno anche di una comunità, perciò occorre decidersi per una vita collettiva. «Vivere collettivamente significa generare dinamiche di comunità, che sono tali quando ognuno è accolto e riconosciuto. Qui si misura l’autenticità di una comunità – non il mio gruppo, la mia associazione –, ma una comunità che è popolo: non si parla dei poveri, dei migranti, degli esclusi, ma si cammina con loro».