Uscire dalla spirale dell'odio
2025/1, p. 30
A Monte Sole, 80 anni dopo l’eccidio, ricordiamo che nel male ci sono stati testimoni di bene fino al martirio e che i superstiti sono stati capaci di non odiare.
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Testimoni
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TESTIMONIANZE DI MARTIRIO
Uscire dalla spirale dell’odio
A Monte Sole, 80 anni dopo l’eccidio, ricordiamo che nel male ci sono stati testimoni di bene fino al martirio e che i superstiti sono stati capaci di non odiare.
ANGELO BALDASSARRI
Di fronte al male della guerra che non sembra aver fine, il card. Matteo Zuppi nella sua Nota pastorale 2024-25 alla diocesi di Bologna si chiede: «Come spegnere questi incendi che bruciano tanta vita, intossicano i cuori e i popoli con l’odio tanto forte da fare apparire impossibile anche alla lunga una riconciliazione?» e suggerisce questo atteggiamento: «Dobbiamo essere consapevoli di quello che sta accadendo, smettendo di credere che andrà tutto bene oppure, al contrario, che è finita la speranza. Solo se non facciamo finta, non ignoriamo il limite e le conseguenze del male, terribili, con una sofferenza che non possiamo misurare, c’è futuro per l’Europa e per l’intera casa comune» (cf. M. Zuppi, Cominciarono a parlare, n 20). Nella stessa Nota sono indicate, tra le mete di pellegrinaggio giubilare per la diocesi di Bologna, i luoghi della memoria degli eccidi di Monte Sole. L’indicazione è molto legata alla riflessione su come spegnare gli odi che ogni guerra alimenta: da quarant’anni i ruderi del più grande eccidio di civili dell’Europa durante la Seconda guerra mondiale sono uno spazio di visita e di silenzio orante, dove rendersi conto di quanto male disumano siamo capaci, ma anche uno spazio che attraverso le sue profonde e sanguinanti ferite mostra che la speranza non è finita.
La riscoperta di una strage
Monte Sole è un’altura dell’Appennino bolognese che fino alla Seconda guerra mondiale aveva diverse piccole località abitate lungo i suoi dorsali: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ’44, 780 dei suoi abitanti, nella maggior parte bambini, donne e anziani, furono vittime di un terribile eccidio da parte delle truppe SS tedesche. Da allora per decenni a Monte Sole ha regnato il silenzio: non è stato possibile per i superstiti ritornare a vivere sui luoghi devastati dalla strage e dal fronte bellico. La riscoperta dei luoghi alla fine degli anni ’70 è stata promossa da alcuni sacerdoti, che volevano far emergere come in quella situazione furono sterminate anche comunità che avevano cercato rifugio nelle chiese. In quei frangenti infatti molte di quelle famiglie, che avevano gli uomini lontani o nascosti nei boschi, non furono lasciate sole: ci furono sacerdoti e donne consacrate che scelsero di stare vicino a loro, nonostante nei giorni precedenti fosse emerso con chiarezza il pericolo a cui potevano andare incontro rimanendo in quel territorio. La riscoperta di quelle storie, tratteggiata in modo profondo da don Luciano Gherardi nel 1986 nel libro Le Querce di Monte Sole, ha portato la Chiesa di Bologna a pensare che in quelle vite donate, per non lasciare solo il gregge, ci fosse una testimonianza di martirio da non disperdere.
Il sangue dei martiri
Nel 1984, in occasione del suo primo pellegrinaggio a Monte Sole, il card. Giacomo Biffi esprimeva questo programma nella sua omelia: «La voce di questi morti dopo quattro decenni sembra farsi più forte e vibrante nel richiederci una consapevolezza accresciuta della preziosità di questo sacrificio e di questo esempio. La Chiesa di Bologna possiede su questi monti un tesoro che deve custodire con amore, onorare con giusta fierezza, comprendere con intelligenza crescente nel suo valore e nel suo insegnamento». A partire da questo invito si è aperto un percorso per il riconoscimento della santità dei sacerdoti uccisi nella strage: un lungo itinerario che è sfociato nel riconoscimento del martirio di don Giovanni Fornasini. Il 26 settembre 2021 papa Francesco lo ricordava così durante l’Angelus: «Oggi, a Bologna, verrà beatificato don Giovanni Fornasini, sacerdote e martire. Parroco zelante nella carità, non abbandonò il gregge nel tragico periodo della Seconda guerra mondiale, ma lo difese fino all’effusione del sangue. La sua testimonianza eroica ci aiuti ad affrontare con fortezza le prove della vita».
La guarigione dell’odio
Monte Sole è un luogo di speranza perché vi ritroviamo la testimonianza di fratelli e sorelle che hanno amato la vita, mentre la violenza delle SS le calpestava. Dopo tanti anni, è la loro scelta controcorrente che ci può aiutare a trovare una forza per affrontare le difficoltà che la vita presenta. Nello stesso tempo in questi decenni di ritorno a Monte Sole l’ascolto delle testimonianze dei superstiti ha condotto a scoprire un altro motivo profondo di speranza di cui ora il mondo ha profondamente bisogno: chi aveva subito violenza e aveva avuto tanti parenti strappati dalla violenza, lentamente ma in modo sempre più fecondo aveva scoperto la gioia di «non odiare». Nella comprensione di cosa significhi ritornare ai fatti della strage, con un atteggiamento non di rivalsa ma di conversione, è particolarmente significativo indagare sulla questione del perdono e della riconciliazione, tema molto delicato per le coscienze di chi ha subito torti e violenze, tema decisivo per la Chiesa. Il percorso vissuto da alcuni superstiti per guarire dalle ferite di tanto male è stato complesso, lungo e spesso molto doloroso. Hanno scelto non di dimenticare, ma di fare delle ferite uno spazio non per indurire il proprio cuore in un odio che cerca vendetta, ma una via per essere diversi da coloro che uccisero. Negli anni ’60 Antonietta Benni, che nell’eccidio aveva visto uccidere i bambini dell'asilo in cui faceva servizio e, sopravvissuta, aveva subito violenza dai soldati SS rimasti in zona, rispondeva così a Walter Reder che invocava grazia agli abitanti di Marzabotto per uscire dal carcere: «Perdono cristiano sì, grazia no. Perdono cristiano sì perché ogni cristiano ha da Cristo l’esplicito ordine di perdonare e se qualcuno non perdona diventa in fondo come Reder; cioè odia e l’odio porta a fare quello che ha fatto lui. Quindi perdono morale sì, ma grazia no» (La mia casa è qui, ed. Zikkaron, p. 146). Con questa scelta ella ha tracciato una via per uscire dalla spirale di odio che poteva soffocare l’esistenza dei sopravvissuti. Negli stessi giorni il padre di don Ubaldo Marchioni, che aveva visto sterminare tutta la sua famiglia, votava sì alla domanda di grazia. A chi gli obiettava: «Non avrai perdonato a quel mostro?», rispose: «Qual ch'a fag al so me!» – quello che faccio lo so io – (Le querce di Monte Sole, ed. Il Mulino, p. 190). Il nipote Pietro ancora oggi si commuove, pensando alla grandezza di cuore del nonno, e lo indica come un riferimento per chi vuole capire il messaggio di Monte Sole oggi.
Togliere un peso dal cuore
Cornelia Paselli, superstite dell’eccidio nel cimitero di Casaglia, dopo tanti anni di testimonianze accettò un giorno di andare a parlare in una scuola in Germania, piena di timore per quello che avrebbe potuto provare in un luogo in cui si parlava solo la lingua di chi devastò la sua famiglia. Così ricorda: «Andai e fu un bene per me. Quando incrociai gli sguardi di quei giovani, realizzai qualcosa che mi tolse un gran peso dal cuore: sentii che non provavo rancore nei loro confronti. Quando ripenso alla guerra, non mi interessa distinguere tra buoni e cattivi. Il mio ricordo va a coloro che non ci sono più. Il mio desiderio è che ciò che è successo loro serva da monito per tutti, ogni volta che il rancore e l’incomprensione rischieranno di prendere il sopravvento» (Vivere nonostante tutto, ed. Zikkaron, p. 83). Così anche Francesco Pirini al processo tenutosi a La Spezia chiese al giudice di poter aggiungere che, per quanto era in lui, perdonava chi aveva sterminato la sua famiglia.
«Non odiare», via per sperare un mondo nuovo insieme
Da allora il sorriso era tornato sulle sue labbra, si era sentito finalmente libero e diverso dagli uccisori. C’è tra i superstiti chi ha vissuto per tanto tempo covando rancore. Franco Leoni era un bambino ai tempi della strage e aveva visto morire accanto a sé la mamma incinta di un fratellino e la nonna. Alla sua storia è ispirato il film di Giorgio Diritti L’uomo che verrà. Così si descriveva: «Subito dopo la strage, ancora bambino, ho cominciato a provare un odio verso i tedeschi talmente forte che descriverlo oggi è difficile. Era un pensiero continuo e folle, che mi scavava dentro e mi faceva sperare che tutto quel rancore si attaccasse addosso alle persone che mi avevano fatto del male. Non ci vuole molto perché l’odio si trasformi nel motore della tua quotidianità, e quando succede vuol dire che tu non pensi ad altro, che tutta la tua vita inizia e finisce lì. All’inizio io lo assecondavo. Mi calmava, mi placava, e il pensare a mille modi per vendicarmi mi dava sollievo» (Franco Leoni, Ti racconto Marzabotto, De Agostini libri, p. 87). Anche Franco votò la grazia a Reder nel 1961, ma con un motivo diametralmente opposto a quello di Augusto Marchioni. Il suo odio l'aveva così accecato da preferire che il maggiore austriaco uscisse dal carcere di Gaeta perché così avrebbe smesso di fare la vita comoda servito dai carcerieri e, non essendo più protetto. avrebbe potuto subire la giusta vendetta. Nel racconto della sua vita Franco testimonia come il rancore lo avesse rovinato fino a quando comprese che non è dall'odio che viene la vita e iniziò a testimoniarlo a tutti. Era solito dire «Se io sono migliorato e cresciuto, dall’abisso in cui ero caduto, ognuno di noi e tutto il mondo lo può fare, ne sono certo». È questo il messaggio di speranza che la comunità cristiana ha potuto apprendere dal magistero umile e sofferto dei superstiti nei decenni di riscoperta dei fatti di Monte Sole. In un mondo in cui l'odio di nuovo si esaspera, hanno testimoniato a caro prezzo quanto è prezioso il «non odiare», unica via perché si possa sperare un mondo nuovo insieme. Il 29 settembre 2024, nel momento in cui il presidente della Repubblica tedesca Frank-Walter Steinmeier ha chiesto perdono a nome del popolo tedesco, sia per i terribili eccidi commessi dai soldati SS sia per il fatto che non fossero mai stati perseguiti dalla giustizia per quanto compiuto, è scrosciato un lungo e commovente applauso nella piazza di Marzabotto. Caterina Fornasini, bambina nella canonica dello zio don Giovanni all’epoca della strage, avrebbe voluto abbracciarlo con tutte le forze ma non ne ha avuto il coraggio: sarebbe stato il segno eloquente della potenzialità di cambiamento e di bene di cui siamo capaci, una speranza che il cammino giubilare che stiamo per intraprendere vuole aiutarci a far riemergere. Perché questo avvenga occorre che la Chiesa percorra con convinzione e coraggio il cammino di «purificazione della memoria» inaugurato da Giovanni Paolo II nel giubileo del secondo millennio: riconoscere le proprie responsabilità è il primo passo per un cammino in cui i conflitti si ricompongano ed è il modo più fecondo per mettersi in ascolto di chi in quegli stessi conflitti ha amato fino al martirio.