La bellezza del cuore
2025/1, p. 22
È questa la caratteristica abituale, che dovrebbe rendere riconoscibili coloro che intendono essere seguaci di Cristo, cioè di colui che nella storia dell’evoluzione spirituale umana, intuì e insegnò che la qualità di una persona è data dalla profondità della propria umanità, cioè dalla bellezza del suo cuore, ossia dal grado della sua compassione e dalla forza del suo amore.
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VITA CONSACRATA
La bellezza del cuore
È questa la caratteristica abituale, che dovrebbe rendere riconoscibili coloro che intendono essere seguaci di Cristo, cioè di colui che nella storia dell’evoluzione spirituale umana, intuì e insegnò che la qualità di una persona è data dalla profondità della propria umanità, cioè dalla bellezza del suo cuore, ossia dal grado della sua compassione e dalla forza del suo amore.
RINO COZZA csj
È questo il fine per cui Cristo mandò i «settantadue» ad annunciare il regno di Dio, inteso come qualcosa dove sarebbe stato Dio stesso a governare i suoi figli, non con l’emanare leggi, ma comunicando ad ognuno il suo Spirito, la sua capacità di amare, attraverso gesti che trasmettono vita, in grado di generare una società dove ognuno si senta accolto, giustificato, perdonato. È questo il progetto che Gesù presentò come la fine di una tappa nella storia dell’umanità e l’inizio di un’altra (Lc 16,16).
Dalla sacralità della legge alla sacralità della persona
Cristo è colui che ha spostato l’attenzione dalla legge alla persona: passaggio non scontato, dato che la legge è portata ad essere più attenta all’ortodossia formale che a quella evangelica. Ma per Cristo «il primato non era dato ai princìpi, perché allora avrebbe dovuto condannare l’adultera, il figlio prodigo, i peccatori, affermando così che la legge è buona, se è a servizio della persona, se la fa crescere». Non ci si stupirà allora se in qualche occasione Gesù infranse non solo le interpretazioni che i rabbini facevano della legge, ma anche la Torah, cioè quella che, secondo la tradizione d’Israele, sarebbe stata rivelata a Mosè.
Per Cristo, il sacro e l’umano non furono due dimensioni distinte: questo significa che al di fuori di ciò che è umano, non è possibile fare alcuna esperienza di quel Dio che non ha creato l’uomo per renderlo schiavo di una legge.
«Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!»
Sono queste le parole (Mt 11,6) che Gesù mandò a dire a Giovanni Battista, attraverso coloro che erano stati da lui inviati a chiedergli se fosse proprio lui «colui che doveva venire o dovessero aspettare un altro» (Lc 7,19). Domanda dovuta al fatto che quanto stava avvenendo era da lui avvertito come qualcosa di preoccupante, perché ciò che Cristo annunciava era diverso da quanto lui andava predicando.
In particolare, Giovanni annunciava che il Messia avrebbe manifestato l’ira di Dio sui peccatori, e che questi sarebbero stati umiliati per le loro colpe, mentre Gesù si diceva amico dei questi, e anche dei pubblicani (Lc 7), tanto da essere avvolti dalla tenerezza del suo amore. Dunque mentre Giovanni invocava la minaccia (Mt 3,7-17), Gesù pensava fosse necessaria l’accoglienza: «venite a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò».
Inoltre, Giovanni era sconcertato dal fatto che nel vocabolario di Cristo fossero assenti le parole castigo, sacrificio, e penitenza. Gesù, infatti, a chi lo seguiva, non diceva soffrite come io ho sofferto, ma amatevi come io vi ho amati (Gv 15,12).
Non soltanto «il dire» era divergente ma anche «il fare»: mentre le scelte di vita del Battista erano orientate a paradigmi ascetico-rinunciatari, conseguenti al credere che il divino crescesse con il diminuire dell’umano, diversamente il Nazareno sorprendeva per non essere un penitente che castigava il suo corpo, preferendo invece la «festosità del banchetto» all’«austerità del deserto».
In verità il messaggio di Gesù era fino allora impensabile se anche i suoi discepoli – è detto in Marco (6,2) – si chiedevano: «da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?».
Cristo, manifestazione del Padre
Gesù non criticò l’idea di Dio che al suo tempo veniva trasmessa, ma prese le distanze dagli effetti disumanizzanti prodotti da una religione che non si trasformava in principio di vita.
Fu attraverso Gesù che i primi cristiani, arrivarono a scoprire un Dio completamente nuovo, un Dio che non doveva essere cercato nella prassi religiosa del tempo, ma nei gesti di amore, perché «amore» è il vero nome di Dio.
Pertanto, credere all’«incarnazione», è credere che Cristo è colui che incarnò la presenza, i sentimenti e gli atteggiamenti di Dio, ed è ritenere l’umanità il luogo della manifestazione del divino, per cui l’esperienza di fede dev’essere un percorso di profonda umanizzazione, conseguente al fatto che a Dio si accede attraverso l’umano: «venite benedetti perché tutto ciò che avrete fatto agli altri lo ritengo fatto a me stesso». Il Dio di Gesù è dunque il Dio che si umanizza, perché l’essere umano possa superare la disumanizzazione che costantemente lo minaccia. Un’umanità, la sua, che portava la gente a meravigliarsi delle parole di grazia che uscivano alla sua bocca (Lc 4,22), perché toccavano certe inquietudini, con un linguaggio che arrivava al cuore.
Allora, dire che Dio si umanizzò in Gesù, significa enunciare che si fuse con tutto ciò che è veramente umano, e che al di fuori di questo non è possibile fare alcuna esperienza di Dio.
Gesù, modello di umanità non esecutore di doveri e norme
Gesù non svaluta la religione in quanto tale, ma invita i suoi discepoli ad andare oltre gli obblighi che essa impone: «se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20. 191).
Il non essere stato fondatore di una religione, è reso evidente dal non aver stabilito spazi sacri, e dal non aver esortato chi lo seguiva a essere buoni praticanti, né sottomessi ad alcune prescrizioni della legge mosaica: abluzioni rituali, digiuni, preghiere nella sinagoga, decima dovuta al tempio.
È stato invece l’iniziatore di un movimento che allora era detto «movimento di Galilea», la cui prima novità fu nel non stabilire gradi, classi, ordini, gerarchie, superiorità, differenze ed esclusioni, ma un modo di vivere ispirato dall’amore. Pertanto, il suo stare non era nei luoghi considerati sacri, ma nelle piazze, nel mondo, nelle montagne; in particolare in tutto ciò che introduce a sconosciuti livelli di umanità, perché Dio è una forza d’amore che abita nel profondo di ogni persona. Così facendo ha affermato che «il sabato», cioè la norma è a servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio della norma (Mc 2,23-28), dicendo così che le scelte vitali non nascono dal doverle fare ma dal cuore.
Spetta dunque a coloro che lo vogliono testimoniare – è scritto nella Gaudium et Spes n. 41 – far splendere «un Dio della gioia e della pienezza, che si trova frequentando fino in fondo l’umanità». Si tratta di essere consapevoli che il vero modo di seguire Cristo sta nell’essere certi che per Lui, più l’individuo è umano, più manifesta il divino che è in sé, per questo esorta i discepoli ad essere persone di cuore, perché solo con gli occhi di questo si vede in profondità.
Cristo via, verità e vita ispirata dall’amore
Il compito che Gesù assunse fu quello di far scoprire all’uomo la presenza in se stesso, di questo spirito divino, di questo tesoro nascosto che sospira e grida il suo desiderio di essere liberato e di manifestarsi. E lo fece con la proclamazione del «regno di Dio» quale presa di distanza dalla religione degli scribi e farisei.
Gesù dunque non ha voluto rendere le persone più religiose, ma più umane con il portarle a non credere che il corpo, e più ampiamente ciò che è umano, sia un cattivo compagno per la loro anima.
È in tutto questo che Cristo manifestò d’essere quella figura profetica e carismatica che scelse di spendere la sua vita «nell’aiutare coloro che erano stati maltrattati dalla vita, a riprendersela in mano, a rendersi conto del loro valore, a riacquistare fiducia, non solo in loro stessi ma anche nella presenza di un “mistero di amore” che ha il potere di lanciarli su nuove strade, verso altri orizzonti, e di trasformarli in nuove creature».
Dunque, per Cristo, «una società è veramente umana quando è costruita sul potere dell’amore e non sull’amore del potere», come, in qualche misura, la chiesa si portò ad essere da Costantino in poi. Pertanto, essere cristiani non è essere particolarmente religiosi ma essere uomini e donne che nel Vangelo trovano ispirazione per convertire il cuore.
Chiamati a una vita consacrata credibile e desiderabile
Il religioso è esemplare – disse papa Francesco – «se nella sua esistenza emerge più chiaramente e in modo più diretto quello che è il senso di ogni vita cristiana». Cosa possibile con il farsi artefici di azioni motivate dalle esigenze dell’amore, quali: passione, ammirazione, comunione, e quanto porta alla felicità dell’altro oltre della propria. Persone per le quali l’incontro con Cristo riesce a destare in ognuno un’esperienza di luce, di liberazione, di gioia, di pace. Si è dunque chiamati a intraprendere il viaggio dentro di sé per raggiungere quella fonte dov’è conservata l’energia amorosa di Dio.
Questo porta a dire che le sfide attuali attendono dalla vita religiosa altre forme di manifestazione, consapevoli che Dio non ha la possibilità di operare salvezza se non esistono persone amanti che lo rendano visibile.
Ne consegue che oggi le opere che possono garantire il proseguimento della rivelazione di Dio come si è realizzata in Cristo sono le forme nuove di umanità, le invenzioni della solidarietà con gli ultimi e della compassione per i sofferenti.
Pertanto, il credere in Lui non è tanto il sottomettersi all’osservanza di alcuni doveri religiosi, ma è raggiungere le aspirazioni e i desideri più profondi dell’essere umano, capaci di organizzare anche la vita di culto in modo da incoraggiare l’amore gratuito verso gli altri, e nel contempo una vita sociale in cui non sia assente la dignità, la libertà e la responsabilità individuale.