Ruanda trent'anni fa, l'apocalisse
2025/1, p. 18
In un momento storico in cui si è scatenata la follia distruttiva della guerra, è necessario far memoria della grande pulizia etnica che ha dilaniato il paese africano. Solo nel 2016 in tutte le chiese dell’Africa orientale verrà letta una dichiarazione dei vescovi ruandesi con cui si chiede perdono per il reato di odio omicida tra fratelli a causa della loro appartenenza etnica.
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UN GRIDO DALL’AFRICA
Ruanda trent’anni fa,
l’apocalisse
In un momento storico in cui si è scatenata la follia distruttiva della guerra, è necessario far memoria della grande pulizia etnica che ha dilaniato il paese africano. Solo nel 2016 in tutte le chiese dell'Africa orientale verrà letta una dichiarazione dei vescovi ruandesi con cui si chiede perdono per il reato di odio omicida tra fratelli a causa della loro appartenenza etnica.
PIERLUIGI GIACOMONI
Il 6 aprile 1994 in Ruanda si scatena l'apocalisse: per cento giorni forse un milione di persone muore fatta a pezzi coi grandi coltelli machete, arsa viva, smembrata con le granate: è la grande pulizia etnica ideata da qualcuno che ritiene che Tutsi e Hutu non possano più vivere insieme. C'è una radio, molto seguita, che incita la popolazione a far fuori gli scarafaggi tutsi, a rimandarli da dove son venuti. Giunge così all'acme una crisi che ha origini lontane nel tempo: emergono rancori apparentemente sopiti, che ci mettono un attimo a riesplodere in tutta la loro capacità distruttiva.
La geografia. Il Ruanda è un piccolo stato dell'Africa equatoriale: occupa una superficie di 26.338 kmq e ospita una popolazione di 13 milioni di abitanti (all'epoca erano 7,5 milioni). Ex colonia belga, conquista l'indipendenza il 1º luglio 1962, contemporaneamente ai «gemelli» del Burundi con cui confina (altri stati vicini: Tanzania ad est, Uganda a nord, Congo a ovest). Siamo in piena zona dei Grandi laghi africani: il territorio è tutto in altitudine, culminante con la catena dei vulcani Virunga. Una delle attrazioni turistiche sono i gorilla di montagna, una specie di primati a rischio d'estinzione. Povero di risorse minerarie, il paese vive soprattutto di agricoltura di sussistenza e turismo.
L'epoca coloniale. Ruanda e Burundi vengono occupati nel 1884 dalla Germania che controlla già il Tanganyika. A seguito della sconfitta dei tedeschi nella Prima guerra mondiale, i due territori passano sotto il controllo belga, che decide d'esercitare la cosiddetta Indirect rule: i re locali dovranno occuparsi degli affari interni, mentre alla potenza coloniale spetterà la difesa e la possibilità d'intervento quando necessario. Negli anni a partire dal 1930 vengono introdotte le carte d'identità in cui è riportata per ciascun individuo anche la propria appartenenza «etnica». Chi decide a quale gruppo si appartiene? È il padre, che ha il compito d'istruire i figli facendone dei Tutsi, degli Hutu o dei Twa, malgrado da secoli vi siano molti matrimoni misti. Tutta la popolazione parla la stessa lingua, kinyarwanda (gruppo Bantu), come in Burundi tutti si esprimono in kirundi. Come lingua coloniale i belgi hanno diffuso il francese, fattore che permetterà l’ingresso dei due stati nell’orbita di Parigi insieme al Congo-Zaire.
La rivoluzione degli Hutu e la reazione dei Tutsi. Nel 1959 muore re Mutara III Rudahigwa e sale al trono Kigeri V Ndahindurwa, tutsi come il predecessore. Gli Hutu però vogliono l'Hutuland, cioè uno stato dominato da loro. A tal fine fondano un partito, il ParMe-Hutu, per favorire la loro emancipazione, elemento che contribuirà a far esplodere la ribellione contro la monarchia, conducendo alla proclamazione della repubblica nel 1961. Intanto, anche il Burundi entra in ebollizione: qui i Tutsi riaffermano il loro potere che presto si trasforma in dittatura militare con frequenti pogrom (termine russo: persecuzione contro minoranze etniche o religiose) contro gli Hutu. Per sfuggire alla pulizia etnica messa in atto da Kigali (la capitale del paese), i Tutsi si rifugiano nei paesi vicini. Quasi un milione di persone vive in campi di raccolta allestiti nei pressi del confine, aspettando così il momento buono per rientrare. Nel 1963 iniziano ad aggredire il Ruanda da sud, ossia dal paese gemello: «L'esercito hutu, scrive Ryszard Kapuscinski, li respinge e per rappresaglia organizza in Ruanda una immane, crudele carneficina di tutsi. Squartati dai machete hutu ne muoiono, secondo certuni, ventimila, secondo altri cinquantamila». Consolidatosi il potere del partito hutu ParMe-Hutu, si ristabilisce una calma precaria che è messa in discussione dall'Ikiza, il terribile pogrom anti-hutu scatenato da Bujumbura (1972), come reazione a un’ennesima insurrezione hutu, oppressi dal regime militare che governa il paese. Negli eccidi muoiono centinaia di migliaia di persone, per lo più intellettuali e funzionari dello Stato. La conseguenza è che un milione di burundesi sfollano in Ruanda, contando sulla protezione di Kigali. Per il «gemello» settentrionale l'impatto è pesante: il territorio è sovrappopolato e si fatica a nutrire questi profughi che temono per la propria sopravvivenza. Come nei primi anni ’60 ancora una volta ciò che accade in un paese ha ripercussioni nell'altro.
Habyarimana. «Approfittando della situazione critica, narra ancora Kapuscinski, il capo dell'esercito ruandese, il generale Juvénal Habyarimana nel 1973 compie un colpo di stato e si proclama presidente. Forte, energico, di costituzione massiccia, pone ogni cura nella creazione di una dittatura di ferro. Introduce il sistema monopartitico. Leader del partito è lui stesso e i suoi membri devono essere cittadini del paese fin dalla nascita. Il generale corregge anche lo schema vigente fino a quel momento e troppo semplicistico della contrapposizione «Hutu contro Tutsi». Se si è un tutsi leale, si può anche diventare capo villaggio e sindaco (ma non ministro); chi invece critica il governo finisce in galera o sul patibolo, fosse anche un hutu purosangue». Col tempo, poi, tutto passa sotto il controllo del clan Akazu, originario di Gisenyi, località nei pressi del lago Kivu da cui proviene la moglie del presidente e primo ministro, Agathe Uwilingiyimana, che insieme a fratelli e cugini controlla l'esercito, la polizia, le banche e l'amministrazione pubblica. Nel 1983, il traballante regime di Milton Obote, presidente ugandese, vuole rimandare in Ruanda i Tutsi che abitano in tre distretti meridionali, nei pressi del confine: secondo lui fanno parte del movimento che nel 1986 porta al potere Yoweri Museveni (National resistence army, Nra). In effetti, questi fa spazio alla nuova generazione di esuli ruandesi che sognano di tornare un giorno nel paese dei loro antenati. A questo punto diversi di loro entrano nel paese: uno di loro, Paul Kagame, diventa capo dei servizi segreti di Kampala e da quella posizione dirige l'invasione del Ruanda. Nella notte tra il 30 settembre e il 1º ottobre 1990, i militanti del «Fronte patriottico ruandese» (Fpr) penetrano nel «paese delle mille colline» e guadagnano rapidamente terreno: l'esercito di Kigali, la capitale del Ruanda, è impreparato e non riesce a fermare l'avanzata. Il generale Habyarimana pare avere le ore contate, senonché il presidente francese François Mitterrand e il dittatore dello Zaire, Mobutu Seseseko, accettano di aiutare il traballante collega. I partigiani dell'Fpr si fermano, occupando la regione nordorientale del Ruanda: il paese è sostanzialmente spaccato in due.
L'ideologia dell’Hutuland. Emerge, all'interno del regime, l'ideologia che condurrà all'apocalisse. Alcuni intellettuali, docenti di storia e filosofia presso università, la diffondono dichiarando che i Tutsi sono una «razza estranea». Sono niloti venuti in Ruanda dall'altopiano etiopico, che hanno sconfitto gli Hutu, abitanti originari, impadronendosi di tutto: terra, bestiame, mercati e perfino dello stato. Gli Hutu son diventati schiavi a casa loro, costretti per secoli a lavorare per i nuovi padroni e a vivere nella miseria, nella fame e nell'umiliazione. È arrivato il momento di riconquistare l'identità e la dignità perdute, per occupare un posto alla pari tra le altre nazioni del mondo. Questa ideologia si sviluppa: poiché la storia dei rapporti hutu-tutsi è segnata da così tanti massacri, è evidente che nel piccolo Ruanda non c'è posto per due popoli così estranei e accaniti l'un contro l'altro. Da qui discende la martellante propaganda che fa da sfondo agli eccidi del 1994. Ancora una volta la scintilla della crisi scatta in Burundi: nel giugno1993, l'hutu Melchior Ndadaye vince a sorpresa le presidenziali. I Tutsi hanno veramente paura: il 21 ottobre l'esercito uccide Ndadaye, provocando la reazione dei partiti hutu. Il paese sprofonda nel caos: tutto ciò sembra dar ragione ai falchi che nella capitale Kigali predicano la «soluzione finale».
L'apocalisse. È ormai calata la notte a Kigali quando l'aereo, con a bordo il presidente Habyarimana con il collega burundese Cyprien Ntaryamira, sta per atterrare all'aeroporto di Kanombe. Si sa che il presidente ha firmato un accordo per la condivisione del potere in Ruanda, cosa che dà molto fastidio a quanti vedono come fumo negli occhi quest'intesa. Mentre il velivolo sta scendendo, parte un razzo che lo colpisce in pieno abbattendolo: chi è a bordo muore. Inizia l'apocalisse che terminerà solo a luglio. Chi ha lanciato il razzo? Il Fronte Patriottico che ha un presidio armato nel centro della capitale? I falchi del regime che non vogliono cedere il potere? Di fatto, le inchieste condotte successivamente non saranno in grado di attribuire a nessuno la responsabilità del gravissimo atto. Ma chi sa davvero le cose agisce immediatamente. Tra le prime vittime della mattanza c'è il primo ministro Agathe Uwilingyimana, che viene fatta a pezzi sotto gli occhi dei figli e dei caschi blu del Belgio che non hanno il mandato di difenderla con le armi. Per settimane c’è un'escalation di orrori che non risparmia nulla e nessuno. Solo pochi giorni prima dell'esplosione della follia, la domenica di Pasqua, la gente secondo la consuetudine si riunisce nelle chiese per celebrare la solennità. In quel momento gli inermi si rifugiano negli edifici di culto nella speranza di salvar la vita: ciò non accade perché gli assassini non si fermano davanti a nulla, pieni come sono di odio, di droga e di alcol. Si tratta di una guerra tra poveri, che si compie con armi povere: fucili kalashnikov, granate, il machete. Sulle strade si creano posti di blocco: chi viene fermato, se sulla carta d'identità ha scritto che è Tutsi, viene ammazzato sul posto. Anche chi non vuol partecipare all'orgia di sangue vi è costretto perché minacciato di morte: la logica della «soluzione finale» non lascia scampo a nessuno. Per fortuna, si narrano storie di persone che non hanno accettato la logica estremista. La più nota è la vicenda dell'Hotel Mille Colline di Kigali dove il direttore, Paul Rusesabagina, salva almeno mille persone dalla morte: lui Hutu è sposato con una donna Tutsi, che farebbe una brutta fine se cadesse nelle mani dei massacratori.
La Chiesa e l’eccidio
Tra chi cade vittima degli eccidi vi sono anche sacerdoti e religiosi, ma anche tra i killer vi saranno sacerdoti e religiosi, anch'essi travolti dalla logica di un conflitto che non ha limiti. Nel mese di giugno del 1994, anche l'arcivescovo di Kigali mons.Vincent Sengyumbwa, insieme ad altri confratelli, è ucciso: la sua colpa principale è di essere stato sempre troppo vicino al presidente Habyarimana e alle leve del potere. Questa connivenza aveva già spinto papa Giovanni Paolo II a rimproverarlo in occasione della sua visita in Ruanda (settembre 1990). Il 20 novembre 2016, in tutte le chiese dell'Africa orientale viene letta una dichiarazione della Conferenza episcopale ruandese con cui si chiede perdono per il ruolo svolto dalla Chiesa nelle settimane dell'apocalisse. Nel documento, pubblicato in concomitanza con la conclusione del Giubileo della misericordia, voluto da papa Francesco, i vescovi riconoscono che i membri della Chiesa hanno violato il loro «giuramento di fedeltà ai comandamenti di Dio», partecipando agli eccidi. «Essi - proseguono - sono stati coinvolti nella progettazione e nell’esecuzione dei massacri: chiediamo perdono per il reato di odio nel paese fino al punto di arrivare a odiare anche i nostri compagni a causa della loro appartenenza etnica. Non abbiamo dimostrato di essere una famiglia, ci siamo uccisi a vicenda». In Ruanda e nel Burundi la Chiesa penetra profondamente nella società fin dall'epoca coloniale e la maggioranza della popolazione si professa cattolica, anche se vi sono minoranze di altre fedi.