Fattori Giovanna
La cattedra dei poveri
2025/1, p. 14
Durante il Forum missionario 2024 (Montesilvano-PE), abbiamo raccolto la testimonianza di Giovanna Fattori della Comunità papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi.

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FORUM MISSIONARIO
La cattedra dei poveri
Durante il Forum missionario 2024 (Montesilvano-PE), abbiamo raccolto la testimonianza di Giovanna Fattori della Comunità papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi.
GIOVANNA FATTORI
Vivo da 25 anni nel sud dell’Asia, 16 passati nell’India meridionale (Kerala e Tamil Nadu). Da 8 anni in Sri Lanka condivido la vita con una decina di giovani diversamente abili secondo lo stile della mia Comunità, cioè facendo famiglia con loro. Sono giovani con varie problematiche (autismo, sindrome di Down, schizofrenia, disturbi mentali e comportamentali…) accomunati dalla medesima condizione: abbandonati dalla famiglia o allontanati per abusi.
Una grande sfida sociale
La disabilità in generale è vissuta con vergogna dalla famiglia che, nella migliore delle ipotesi, tende a nascondere il familiare che ne è segnato, oppure lo relega negli istituti. Sono dunque considerati come «scarti» della società anche dalla cultura dominante, quella buddista, che tende ad emarginarli poiché considera la loro condizione come «necessaria purificazione» dal male commesso nella vita precedente, per poter così «meritare» di reincarnarsi in una forma migliore nella vita successiva, secondo il proprio karma. Fare famiglia proprio con questi «scarti» è stata ed è una sfida sociale di grande valore, anzitutto perché è un modo per restituire la dignità umana che è stata loro negata, ma anche per promuovere e valorizzare le loro capacità e farle riconoscere negli ambienti sociali del territorio in cui viviamo. Per questo cerchiamo di condividere il quotidiano in vari i modi: andando a fare la spesa con loro, in passeggiata o col bus, destando nei passanti e venditori curiosità e simpatia ed un certo stupore nel vederli così sereni e gioiosi. Cerchiamo inoltre di inserirli, per quanto possibile, nella vita della parrocchia, favorendo la loro partecipazione ad alcune attività, come il canto in coro durante la messa, il catechismo e le varie feste liturgiche (Natale, Santi Patroni, ecc,), come pure le uscite organizzate. Questa realtà è certamente una «goccia nell’oceano», se pensiamo che la parrocchia di Ratnapura conta qualche centinaio di famiglie e che in tutta la diocesi, i cristiani raggiungono appena l’1% della popolazione; tuttavia, rappresenta una «gemma» di gran valore, di portata estremamente maggiore di quella che si attribuisce alle pietre preziose, di cui è ricco il sottosuolo di questa area e che sono all’origine dello sviluppo economico di Ratnapura!
I poveri, nostri maestri di vita
Il tema «La cattedra dei Poveri» mi ha rimandato subito all’inizio della mia vita professionale di insegnante elementare, che ho esercitato per una decina di anni. Amavo molto questa professione e soprattutto il rapporto educativo con gli alunni, che vivevo con molta passione ed entusiasmo. Per me era infatti molto stimolante e gratificante accompagnare queste piccole creature verso la conoscenza scolastica e non solo, ma anche con le esperienze di vita! Eppure, nel tempo mi sono accorta che c’era qualcosa che mi mancava e mi faceva sentire incompiuta, insoddisfatta. Solo quando, dopo un po’ di anni di ricerca ho conosciuto don Oreste e la vocazione della Comunità Papa Giovanni, ho realizzato il passaggio che mi mancava: «scendere dalla cattedra» per mettermi alla scuola dei poveri!!! È così che ho iniziato a mettere la mia vita con tanti piccoli, poveri ed emarginati, che ho scoperto essere dei «maestri speciali»! A cominciare da Nicola, affetto da molte patologie e disabilità: lui, ipovedente, autistico e tetraplegico, pur essendo incapace di comunicare, mi ha guidata ad un ascolto sempre più profondo delle sue numerose necessità, del suo grido silenzioso, che esprimeva nonostante tutto una grande voglia di vivere, insieme al bisogno profondo di essere amato! E non è stato solo una guida all’ascolto, ma anche maestro di pazienza: quanta ne ha dovuta portare per aspettare i miei tempi, la mia disponibilità ad uscire da me stessa, per accorgermi delle sue sofferenze e cercare di alleviarle adeguatamente! È vero che si impara fin dai primi anni di vita e di scuola, ma l’ascolto dei bisogni vitali profondi l’ho imparato vivendo con gli ultimi che il Signore mi ha fatto incontrare: disabili, tossicodipendenti, malati mentali, per non parlare dei fratelli Rom e Sinti, con cui ho condiviso la vita per una decina di anni.
Farsi accogliere da un popolo
La vita nel campo nomadi ha segnato un passaggio importante: dal bisogno di accogliere i poveri per toglierli dall’abbandono, al bisogno di farsi accogliere da un popolo, segnato non tanto dalla povertà, quanto piuttosto dallo stigma del disprezzo e dell’emarginazione. Questo passaggio mi ha aperto a un altro mondo, fatto di incontri quotidiani con tante famiglie e la loro cultura, la lingua, la fede, la storia e le tradizioni particolari, tutte immerse in una condizione di marginalità sociale pesante. È stato necessario superare la spessa coltre di disprezzo e di luoghi comuni per andare a incontrare e conoscere questo popolo nel suo essere genuino, disarmati e con semplicità, sul terreno più comune che è la nostra umanità! Così sono nate relazioni molto semplici, ma vere, coltivate dentro un clima di crescente fiducia e reciproca stima, fino a diventare storie di amicizia e autentica familiarità. Come è successo con Devlija, mamma, nonna e bisnonna di una grande famiglia del campo, che sapeva accogliere tutti, dal sindaco, al poliziotto, fino al barbone e al tossicodipendente di passaggio, con lo stesso calore umano, un buon caffè alla turca e il pane da lei preparato, vestita come una regina in abiti coloratissimi, pur vivendo in una semplice baracca di legno! Con la sua sapienza di vita ha toccato e aperto il cuore di tanti, non solo di noi che facevamo famiglia con lei, ma anche di assistenti sociali, volontari della Caritas, avvocati, forze dell’ordine, giovani del servizio civile. Capitava spesso di vederla conversare con persone di diversa etnia, religione, stato sociale, con gesti e parole di pace, che trasmettevano una fede semplice, ma forte! Ricordo come in tanti momenti di preghiera che abbiamo vissuto insieme al campo, lei invocava la pace tra noi e alla fine concludeva alzando le braccia al cielo con un’espressione, diventata presto il suo motto di vita, che nella sua lingua, romanì, suonava così: «Jek Del, Jek puv pale savorenghe!» che significa «C’è un solo Dio e una terra per tutti». In quel tempo ho visto letteralmente «prendere carne» quella parola di Paolo ai Galati: «Non c’è più giudeo o greco, schiavo o libero, uomo o donna, (e potremmo aggiungere zingaro o gagè come ci chiamano loro), perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Una parola che ha rivelato tutta la bellezza di riconoscersi figli di un solo Padre e fratelli nella stessa umanità, resi capaci di abbattere i muri di divisione. A conferma di questo, un giorno successe che una figlia di Devlija, S… mamma di cinque figli, a una giornalista che le chiese: «Perché secondo te queste ragazze (eravamo allora in due) sono venute a vivere con voi in questo accampamento?», rispose con voce fiera e senza esitazione: «Loro vivono con noi per dimostrare a voi gagi che noi non siamo bestie, ma persone come voi!». Così lasciò senza parole la giornalista e tutti i presenti. Nella vita al campo abbiamo incontrato dei veri «maestri di accoglienza ed umanità».
La vita con i piccoli ci rende veramente umani
La vita nel campo con i Rom si è rivelata anche una buona palestra per ciò che mi aspettava in terra d’Oriente (da cui anticamente proviene questo popolo). Prima in Kerala abbiamo accompagnato la crescita di numerosi bimbi accolti nella nostra casa-famiglia, alcuni orfani dalla strada, sempre in ascolto di quell’insaziabile sete di affetto e di calore umano, tipico di chi ha vissuto l’abbandono. E ora in Sri Lanka, con queste «gemme» sconosciute agli uomini, ma scelte e preziose agli occhi di Dio, che ama rivelarsi nei piccoli e fa grandi cose servendosi proprio degli ultimi e disprezzati.
Una di queste «gemme speciali» si chiama Pradeep: un giovane affetto da psicosi e autismo che stava sempre solo ed era ignorato da tutti. Faceva molte stranezze e ogni tanto buttava all’aria le cose, senza però essere pericoloso verso gli altri. Eppure, nessuno si relazionava con lui, se non per dargli da mangiare, fargli il bagno e metterlo a letto. Nel tempo gli altri ragazzi accolti hanno visto che Pradeep cominciava a reagire a certi stimoli, ad esempio chiamandolo per nome o sedendosi vicino a lui per canticchiare una canzone o fargli battere le mani. Tanti piccoli gesti e attenzioni che anche i ragazzi hanno imparato a dargli con i quali pian piano si è aperta una via di comunicazione, che nessuno avrebbe mai creduto possibile! Eppure, questo «training» di gruppo in cui tutti si sono coinvolti, ha fatto fiorire la vita di Pradeep, che nell’arco di un paio d’anni ha conquistato autonomie importanti come mangiare e bere da solo, andare in bagno con minima assistenza; ha cominciato a cercare relazioni con gli altri, prendendoli per mano, cercando coccole, sorridendo e regalando abbracci a tutti come mai aveva fatto prima. Ma la cosa ancor più sorprendente è stato il cambiamento che egli ha portato alla vita di tutta la casa. Quando i ragazzi hanno capito che prestandogli delle attenzioni, Pradeep nel suo silenzio esprimeva come poteva il suo bisogno di relazione, hanno cominciato a fare a gara tra loro per accudirlo, aiutarlo a vestirsi, accompagnarlo a passeggio: così intorno a lui si è creato un clima veramente familiare, per cui da estraneo, ignorato da tutti, è diventato «il fratello» più fragile da custodire e accompagnare! Un vero splendore di umanità! Così si è avverata anche la parola di Paolo ai Corinti (1Cor12,22) quando dice che «proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie»: infatti abbiamo sperimentato insieme ai ragazzi che attraverso le cure offerte a Pradeep siamo diventati una bella famiglia, in cui, se ognuno cerca il bene dell’altro, tutti stanno bene e nessuno rimane indietro o da solo […] In questi anni anche molti dei giovani volontari che sono passati e hanno condiviso un po’ del loro tempo nella nostra casa-famiglia hanno riconosciuto che stando accanto a questi ragazzi fragili si sono arricchiti di tanta umanità. Così pure molte persone della zona, che vengono a casa nostra per chiedere aiuto, vendere qualcosa, perfino gli operai che vengono a fare qualche riparazione, rimangono sorpresi da quello che vedono fare dai ragazzi e soprattutto dalla gioia che trasmettono loro. Non ultimo, il nostro viceparroco, quando può, viene molto volentieri a celebrare la messa a casa nostra, perché dice che con loro si sta molto bene e che la loro semplicità lo fa crescere.
I poveri, rivelatori del Povero e la loro speciale missione
La vita con questi piccoli segnati da molti drammi (non solo abbandono, ma anche violenze e maltrattamenti) mi ha guidata gradualmente a riconoscere dietro le loro sembianze, quelle del Povero per eccellenza, Gesù, che per noi si è spogliato della sua gloria per rivestire la nostra umanità, identificandosi in modo particolare con i più piccoli. Proprio guardando, anzi contemplando i segni delle violenze subite in tenera età, mi sono sentita mossa a compassione, a sentire come mio il dolore che hanno sofferto e che talora si risveglia quando ancora capita di essere offesi e umiliati da altri ragazzi. Stare accanto a loro, ascoltare le loro storie, le loro paure e il loro pianto è un po’ come rivisitare la Passione di Gesù, che continua nelle loro vite ferite. Sono loro stessi che mi mostrano di quale particolare cura hanno bisogno, comunque per tutti vale la terapia dell’amore, che lenisce ogni dolore. Ma quello che non finisce mai di stupirmi è l’abbandono pieno di fiducia con cui, soprattutto i più fragili e indifesi, si lasciano curare […] Questo atteggiamento di totale dipendenza che per loro è spontaneo, è per me un invito e richiamo continuo a imparare a mia volta a lasciarmi curare, a lasciar demolire in me il senso di autosufficienza per poter vivere con lo stesso abbandono fiducioso la mia relazione con Gesù! Credo che la grande missione che il buon Dio ha affidato a tutti i piccoli sia quella di rivelarsi a noi attraverso le loro vite, deboli e apparentemente insignificanti, perché in loro è Gesù stesso che ci visita, il Povero che ha scelto questa modalità per farci diventare ricchi della sua povertà!