Montaldi Gianluca
Il Regno di Dio
2025/1, p. 4
Ancora sulla struttura del simbolo niceno.

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SPECIALE GIUBILEO
Il regno di Dio
Ancora sulla struttura del simbolo niceno.
GIANLUCA MONTALDI
Il simbolo niceno-costantinopolitano è sostanzialmente diviso in tre parti, ciascuna corrispondente a quanto in teologia trinitaria viene chiamato «persona», cui si tributa l’atto di fede. Il termine «persona» (che più o meno traduce il termine «ipostasi» derivante dal greco) non va ovviamente interpretato in senso moderno, come cioè se ci si riferisse a tre diversi e distinti centri spirituali di autodeterminazione e di coscienza che si spartiscono una non meglio precisata sostanza divina; il termine, invece, indica il «ruolo» e la «relazione» che costituiscono la vita trinitaria: possono e in buona parte devono essere interpretati come termini «relazionali» che sono di fatto un unico movimento nel quale le persone si implicano a vicenda (si utilizza a questo riguardo il termine «pericoresi», molto spesso spiegata come una danza circolare). A ciascuna persona viene quindi attribuito un «nome» (Padre, Figlio, Spirito), al quale viene collegata una descrizione dell’operazione storico-salvifica operata nel mondo. Questa parte descrittiva prende il proprio linguaggio dalla Bibbia o dalla filosofia.
È particolarmente importante comprendere questa struttura, se non si vuole davvero cadere nel pericolo di giustapporre tra loro le tre parti, realizzando l’accusa di associazionismo che a volte viene rivolta al cristianesimo. Secondo tale modo scorretto di comprenderne l’insegnamento, vengono associate a Dio (generalmente identificandolo solo con il Padre) figure non divine, rompendo il monoteismo ebraico. Al contrario, il credo niceno-costantinopolitano rappresenta la figura di una stretta fede monoteistica («io credo», «noi crediamo») che corregge l’idea naturale di Dio a partire dall’esperienza della salvezza storica che l’incontro con lui comporta. Risponde in tal modo alla domanda: «Come fa l’assoluta trascendenza di Dio a comunicarsi come salvezza al mondo?». La riposta suona: «L’assoluta trascendenza di Dio può comunicarsi perché il mondo vive già dentro l’eterna relazione che è la vita divina». La trascendenza non corrisponde ad un essere a sé stante, ma è relazione. Che sia anche caratterizzata come amorevole relazione di «grazia» lo si può accogliere in un atto di fede che parte dall’esperienza preveniente delle possibilità sempre plurali dell’amore:
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
La missione del Figlio
Nel credo, quello che il «Figlio» opera viene descritto in cinque momenti che costituiscono la trama della vicenda storica di Gesù narrata dai testi neotestamentari. In tal modo, l’unicità dell’esperienza di Dio avvenuta nell’incontro con Gesù di Nazareth viene riletta come presenza nella storia del Nazareno della stessa vita divina.
Vi è un primo movimento dove si parla di quanto, in termini tecnici, viene chiamato incarnazione. Si utilizzano a questo riguardo tre modalità di descrizione: il Figlio «discende» dal cielo (cf. Gv 3,13), diventa «carne» (cf. Gv 1,14), si fa «essere umano» (cf. At 7,56; come tale l’espressione non è biblica, ma proviene dal linguaggio dei padri della chiesa). La proposta cristiana è che in Gesù l’esperienza dell’unione senza confusione tra umano e divino, tra creato e trascendente non è solamente apparente o mitica; i termini utilizzati mostrano che ci si riferisce alla totalità dell’esperienza umana e non ad una sua sublimazione. Del resto, l’esperienza termina nel momento kenotico della passione, della morte e della sepoltura (cf. Fil 2,6-8), dove è addirittura la fragilità della carne a diventare strada per mostrare l’estremo affidamento di Gesù a Dio, del Figlio al Padre.
Il secondo movimento è, invece, verso l’alto e fa riferimento ai racconti evangelici delle apparizioni del risorto, dell’ascensione e della promessa del ritorno del Signore nella gloria. La forza di questo secondo movimento è, in realtà, legata a quella del primo. Per questo, anche se il linguaggio in questo caso fa ricorso a terminologie più mitiche, di fatto deve essere interpretato ancora una volta in senso storico-salvifico: la risurrezione e la gloria del Signore attraversano sin da ora la storia umana nella sua concretezza. Da questo punto di vista, il credo si propone come una rielaborazione ermeneutica dei racconti evangelici e in questo dovremmo trovarne la forza. Che diventa anche forza liturgica, oltre che dogmatica.
Quello che manca
Proprio tenendo presente questa ultima considerazione appare chiara una mancanza che già dagli anni 1990 J. Moltmann aveva da parte sua fatto notare. La struttura narrativa del credo, infatti, salta a pié pari tutto il ministero itinerante di Gesù. Certamente può essere fondata l’affermazione fatta da qualcuno che i vangeli sono sostanzialmente una grande introduzione ai racconti di passione, ma di fatto non si tratta solo di una premessa metodologica che niente a che fare con quello che succede prima o dopo. Al contrario, le pericopi che narrano della nascita e dell’infanzia di Gesù, come quelle che presentano la sua passione, morte e risurrezione, sono narrativamente comprese solo in connessione con quello che accade in mezzo. Non solo dal punto di vista della completezza del racconto, ma proprio nel loro significato intimo e teologico. E viceversa.
La condanna e la crocifissione di Gesù perderebbero il loro senso proprio se non ci fosse la storia precedente e certamente ne sarebbe sminuito il senso evangelico se quella morte non fosse letta anche alla luce di ulteriori momenti e di ulteriori parole riportate nei vangeli. Che quelle parole siano o meno direttamente riconducibili alla voce di Gesù, che quei gesti siano o meno direttamente riportati quali sono accaduti, può forse qui rimanere una questione aperta, benché importante. Certamente nella loro globalità i cosiddetti vangeli dell’infanzia, le narrazioni del ministero pubblico di Gesù, i racconti di passione e delle apparizioni perderebbero il loro senso salvifico se fossero semplicemente giustapposti o separati. Per lo meno perché si perderebbe il senso teologico del percorso umano compiuto da Gesù di Nazareth e si rincorrerebbe la chimera monofisita (propria di coloro che in fin dei conti non hanno ancora accettato l’umanità redenta in Gesù) di un Dio semplicemente nascosto nell’umano e non con esso definitivamente compromesso.
Per questo J. Moltmann proponeva di inserire dopo il paragrafo sull’incarnazione anche un rimando al percorso ministeriale storico di Gesù di Nazareth, riprendendone sostanzialmente due episodi per così dire programmatici: quello del battesimo per i peccati ricevuto da Gesù nel Giordano da parte di Giovanni Battista (Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 13,21-22) e la prima predicazione del Nazareno come narrata dal vangelo secondo Luca, dove nella sinagoga, Gesù commenta la descrizione del Messia liberatore (cf. Lc 4,15-21). Ecco la sua proposta:
[…] e si è fatto uomo.
Fu battezzato da Giovanni il Battezzatore
e riempito di Spirito Santo:
per annunciare ai poveri il regno di Dio,
guarire gli ammalati,
accogliere gli esclusi,
risvegliare Israele alla sua condizione di luce delle genti
e mostrare pietà a tutto il popolo.
Fu crocifisso per noi […]
Ovviamente non si tratta di cambiare un testo che la tradizione ha consolidato e che condividiamo con tutta la cristianità. Tuttavia, tenere presente questa proposta aiuterebbe a introdurre nell’atto di fede la tematica centrale della predicazione di Gesù, quella del regno di Dio, altrimenti rimandata ad un aldilà imprecisato nel tempo e nei modi, e rafforzerebbe ulteriormente la presenza dello Spirito nella presentazione simbolica del Figlio: non solo si è incarnato per opera dello Spirito, ma il suo ministero è stato un ministero messianico, il ministero dell’Unto nello Spirito. In tal modo, almeno implicitamente al simbolo verrebbe collegato anche quell’ulteriore nucleo della nuova vita evangelica che sono le beatitudini, come ulteriore compimento del Regno.