Un noviziato permanente
2024/9, p. 7
Per imparare l’arte di saper vivere con discernimento.
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Testimoni
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Un noviziato permanente
Per imparare l’arte di saper vivere con discernimento.
Nell’ambito formativo
Il tema della formazione è il quarto e ultimo ambito nel quale possiamo e dobbiamo immaginare un passaggio all’altra riva. Su questo tema vorrei suggerire, sempre molto rapidamente, tre possibili passaggi o attraversamento delle acque.
a.Il primo passaggio: occorre abbandonare dei programmi formativi standardizzati, uguali per tutti, per cercare di offrire proposte più personalizzate, capaci di ascoltare più attentamente le diverse esigenze di ciascuno e di ciascuna.
b.Un secondo passaggio: abbandonare la preoccupazione di offrire soltanto contenuti per essere più attenti a creare uno stile, un atteggiamento, una postura, nel senso di un modo di essere e di stare nella vita, davanti alla storia, al cospetto di Dio e degli altri. La docibilitas è «imparare ad imparare». È disponibilità a rimanere sempre novizi, discepoli, che ogni giorno ritornano a dire, come facevano i nostri Padri, «oggi incomincio, oggi inizio». Un noviziato raggiunge il suo scopo ed è davvero fecondo, sia sul piano umano sia sul piano spirituale, non quando finisce, ma quando si traduce in un noviziato permanente. Possiamo ritradurre questa attitudine o questa virtù nell’arte di saper vivere con discernimento. Discernere significa anche questo: capire in che modo e a quale conversione mi appella ciò che accade, le persone che incontro, le fatiche che faccio… Ascoltare la realtà per scoprire lì la voce di Dio che ci chiama e ci mostra la via della vita.
c.Un terzo passaggio: essere più attenti al linguaggio dei sentimenti, delle emozioni, degli affetti. A questo proposito mi paiono interessanti alcune osservazioni di Madre Ignazia Angelini, che traggo da un suo libro, Mentre vi guardo (La badessa del monastero di Viboldone racconta, Einaudi, Torino 2013, pp. 18-20). Ella fa riferimento alla sua esperienza personale e dunque parla esplicitamente delle dinamiche presenti in una comunità monastica, ma mi pare che le sue considerazioni possano essere senza difficoltà estese ad altre forme di vita comunitaria: «La prima scuola che si propone a chi entra in una vita comunitaria è di discernere il linguaggio delle passioni: dare loro un nome. Perché può darsi che tu nell’altro veda una parte di te che non vuoi vedere e quindi ti dia fastidio; può essere che l’altro susciti una memoria del tuo passato e pertanto tu riproduca delle dinamiche che hai vissuto a livello familiare e in tal modo voglia riscattare questa memoria. Quel che è certo è che ogni sentimento è presagio di una verità che va capita. Non è la verità, ma è un indizio, un segno che richiede il lavoro del cuore. Questo delicatissimo lavoro di discernimento e di decodificazione è opera della libertà della fede ed è arte tutta da imparare. […] Quando san Paolo dice «Portate il peso gli uni degli altri» allude al fatto che ognuno è veramente un peso, ha un peso; ma invita a portarlo, il che è un lavoro buono. Occorre fare un lavoro di ermeneutica dei sentimenti, esercizio a cui i giovani oggi non sono abituati, sono invece inclinati a seguire le emozioni immediate, senza rielaborarle. Il progetto monastico è fondato sulla tesi alternativa, cioè che non ci sono persone umane incompatibili. Il progetto monastico è affine al martirio perché ha il medesimo livello di radicalità, pensa di arrivare allo scopo di una umanità riconciliata attraverso la lotta intorno alle passioni, cioè cerca appassionatamente di decodificare il movimento di attrazione/repulsione in base alla verità del Vangelo. Ma è una lotta all’ultimo sangue… Se costruiamo rapporti sulla base del rifiuto del diverso e quindi sulla base del mi piace / non mi piace (l’emozione) o mi conviene / non mi conviene (il calcolo utilitaristico), è finita».
Vino nuovo in otri nuovi
Vorrei concludere questa riflessione tornando alle Scritture e in particolare a una piccola icona evangelica, alla quale faccio spesso riferimento: quella del vino nuovo in otri nuovi. Val la pena, però, inquadrarla nel contesto più ampio nella quale è inserita dalla tradizione sinottica. In Marco, l’evangelo più antico, subito dopo la cosiddetta giornata inaugurale di Cafarnao incontriamo le cosiddette cinque controversie galilaiche. Mi interessa osservare le prime tre, che oppongono Gesù ad alcune categorie ben individuate del giudaismo della sua epoca. Nel testo parallelo di Matteo (9,1-17) l’immagine diviene più chiara, poiché il primo evangelista lascia cadere le ultime due controversie di Marco, relative al sabato (che colloca in altro contesto del suo racconto: rispettivamente in 12,1-8 e 12,9-14), mentre conserva le prime tre nella medesima sequenza della sua fonte.
La prima controversia segue alla guarigione del paralitico e suscita la mormorazione degli scribi che accusano Gesù di bestemmia, perché si arroga il potere di perdonare i peccati, che appartiene solo a Dio. Segue poi il pasto di Gesù con i peccatori nella casa del pubblicano Levi, che nel primo vangelo diviene Matteo; ora sono i farisei a scandalizzarsi perché Gesù entra nelle case dei peccatori e mangia con loro. Infine, abbiamo la discussione sul digiuno che oppone Gesù ai discepoli del Battista: in questa terza controversia Gesù si rivela come lo sposo atteso. E commenta: «non si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano» (Mt 9,17).
In questi tre dibattiti entrano in polemica con Gesù categorie diverse del mondo giudaico della sua epoca: dapprima abbiamo gli scribi, che sono i dottori della Legge, i conoscitori delle Scritture, potremmo definirli i teologi o gli esegeti del tempo. Difatti, loro sollevano un problema teologico: «chi può perdonare i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,7). Poi abbiamo i farisei, gli osservanti della Legge, molto attenti e scrupolosi per quanto attiene la sfera morale dell’agire del credente; infatti, la loro attenzione si concentra su un problema relativo all’osservanza della Legge di Mosè: perché Gesù mangia con i peccatori trasgredendo la Legge? Infine, ci sono i discepoli di Giovanni, gli asceti, quelli che vivono pratiche particolari, più estese, di preghiera, di digiuno, di ascesi. Potremmo dire che sono un po’ i ‘monaci’ o i ‘religiosi’ dell’epoca, disponibili a vivere impegni religiosi più estesi e radicali. Non a caso sollevano un interrogativo su una pratica ascetica quale il digiuno.
Con questo modo di narrare è come se Matteo, e prima di lui lo stesso Marco, ci suggerissero che tutte queste dimensioni della vita di fede devono essere rinnovate dal vino nuovo di Gesù. Se gli otri non si lasciano trasformare da questa novità, si spaccano, e si perde tanto il vino quanto gli otri. In altri termini, il vino nuovo del regno deve rigenerare:
a.la nostra teologia (gli scribi), cioè il nostro modo di conoscere il volto di Dio e di dimorare nella relazione con lui; di fare esperienza di lui;
b.la qualità etica o morale della nostra vita (i farisei);
c.il significato degli impegni ascetici (i discepoli del Battista); possiamo ricondurre in questo orizzonte anche i più tipici impegni della vita consacrata (quali l’obbedienza, la povertà, la verginità).
Dobbiamo allora interrogarci: il vino nuovo del Regno come può rinnovare il nostro modo di vivere l’esperienza di Dio? Il vino nuovo del Regno come può rinnovare i nostri impegni umani ed etici, il nostro servizio, le nostre opere e strutture? Il vino nuovo del Regno come può rinnovare i nostri stessi impegni ascetici? Queste tre dimensioni sono peraltro strettamente intrecciate e connesse tra di loro, in una interdipendenza che fa sì che non sia possibile rinnovare l’una dimensione trascurando le altre. Pertanto, la rigenerazione stessa degli impegni di obbedienza, povertà, castità, ha bisogno di un profondo rinnovamento anche del nostro modo di dimorare nella relazione con Dio (cioè di conoscerlo) e di misurarci con la qualità etica della nostra vita.
DOM LUCA FALLICA