Fallica Luca
Da schiavi a figli
2024/9, p. 3
Così ci riconosciamo fratelli e sorelle.

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Testimoni
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Da schiavi a figli
Così ci riconosciamo fratelli e sorelle.
L’ambito fraterno
Un altro passaggio importante che siamo chiamati a vivere concerne il movimento dall’essere schiavi (o servi) al divenire figli. Ricordavo prima il duplice passaggio battesimale che Israele vive all’inizio della sua storia di salvezza: il passaggio del Mar Rosso che lo libera dalla terra di schiavitù, l’Egitto, per introdurlo nella terra promessa, che è una terra di libertà, non più terra di schiavi, ma terra dei liberi figli di Dio. O terra di alleanza. Proprio del servo è vivere un rapporto con Dio di tipo mercantile, fondato sulla logica del contraccambio: io faccio delle cose per te, o Dio, perché tu in cambio mi dia questi beni e alla fine mi conceda il paradiso. C’è nel Nuovo Testamento un testo molto chiaro, che ci consente di vigilare su questa tentazione o rischio. Penso alla parabola del «padre misericordioso» o del «figliol prodigo», che Luca narra al capitolo quindici del suo Vangelo. È utile uno sguardo globale sull’intero capitolo. Osserviamo anzitutto una stranezza che il racconto di Luca evidenzia: le parabole sono tre, ma l’evangelista scrive che «egli [Gesù] disse loro questa parabola». Una sola o tre parabole? Le tre parabole sono una sola parabola perché rivelano non tre atteggiamenti differenti di Dio, ma un solo modo di essere e di agire, o meglio un solo criterio di discernimento e di giudizio, che poi si manifesta in modi e direzioni differenti, come mostrano i tre diversi racconti.
La prima parabola ci descrive un pastore che cerca l’unica pecora che si è smarrita fuori dal gregge, anche a costo di lasciare le altre novantanove non al sicuro, ma nel deserto. La seconda vede protagonista una donna che «accuratamente» cerca la moneta che si è perduta dentro la casa. Infine, nella terza e ultima parabola, il padre che ne è protagonista esce incontro a entrambi i figli, sia quello che torna dopo essersene andato fuori di casa, sia quello che, pur essendo rimasto sempre dentro casa, ora non vi vuole più entrare. I modi di smarrirsi sono diversi: ci si può perdere al di fuori, come accade alla pecora della prima parabola, o dentro, come per la moneta perduta; infine, la terza parabola sintetizza entrambe le situazioni. Ci si può perdere fuori o dentro casa. Infatti, entrambi i figli della terza parabola vivono da schiavi senza la capacità di essere figli.
Il primo se ne va di casa e quando decide di farvi ritorno spera di esservi accolto come un «servo». Il secondo, colui che si smarrisce «dentro», non se ne è mai andato di casa, ma vi è rimasto dentro come un servo, non come un figlio. Illuminanti sono le parole che rivolge al padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (Lc 15,29). «Io ti servo… tu non mi hai dato». Ecco in tutta evidenza la logica servile o mercantile: «io ti servo… tu mi devi dare». Il padre esce incontro a entrambi i figli per restituire loro la dignità filiale: al secondogenito, che vorrebbe essere accolto come un servo, dona i segni della filialità (la veste, l’anello, i calzari ai piedi); al primogenito rivela la gratuità del suo amore, che non si basa sulle logiche del contraccambio («io ti servo, tu mi devi dare»), ma su quelle della condivisione («tutto ciò che è mio, è anche tuo»).
Nel cammino sinodale
Riconoscersi nella condizione dei figli ci conduce poi a riconoscere il nostro essere fratelli e sorelle, capaci di vivere in una fraternità riconciliata. Ecco allora emergere il secondo ambito, nel quale siamo chiamati a vivere un passaggio all’altra riva: l’ambito delle relazioni fraterne e comunitarie. Vorrei inserire questa riflessione dentro l’orizzonte che stiamo contemplando come Chiesa, vale a dire l’orizzonte «sinodale». Dobbiamo diventare consapevoli che un cammino ecclesiale che desidera diventare sempre più sinodale cambia necessariamente, inevitabilmente, il modo di concepire l’autorità e di viverla poi concretamente, di esercitarla in modo effettivo.
Possiamo anche rovesciare la prospettiva: un cammino sinodale sarà davvero possibile solo se riusciremo a cambiare il modo di concepire l’autorità e di viverla. A tutti i livelli: dal papa, ai vescovi, ai parroci, ma anche al modo di vivere il servizio della presidenza nelle nostre comunità. Il cammino sinodale deve cambiare la concezione dell’autorità e a sua volta è solo il cambiamento di questa concezione che può rendere effettiva la sinodalità nella Chiesa tutta come pure nelle nostre singole comunità. Non so che cosa venga prima e che cosa venga dopo. Probabilmente non c’è un prima e un dopo, c’è però certamente una correlazione, molto stretta e vitale. Il cammino sinodale ci sfida a ripensare il modo di esercitare l’autorità e d’altra parte è il modo stesso di esercitare l’autorità che può favorire, o al contrario bloccare il cammino sinodale.
Una nuova autorità per una nuova obbedienza
C’è però una seconda conseguenza che in questo momento mi sta più a cuore sottolineare: cambiare il modo di intendere il servizio di autorità implica necessariamente – anche in questo caso c’è una correlazione stretta e vitale – che cambi il modo di intendere l’obbedienza. Attenzione, quando parlo di cambiamenti non intendo affermare che tutto venga stravolto: sono cambiamenti per rendere più vera e più autentica tanto l’autorità quanto la correlativa obbedienza, per approfondirle, per renderle più evangeliche e anche antropologicamente più mature. Qui la riflessione da fare sarebbe molto ampia, e ci porterebbe fuori dal seminato. Mi limito a evidenziare un solo aspetto, tra i molti che andrebbero affrontati. Noi, nelle nostre comunità, fino a oggi siamo stati educati a vivere l’obbedienza anzitutto come adesione – spero non come semplice sottomissione – ma come adesione a decisioni già prese. Più precisamente alle decisioni del responsabile o della responsabile della comunità. Siamo stati anche abituati a dire o a sentirci dire: obbedisci e non sbagli mai. Lo dico in modo molto approssimativo e brutale, ma è così. Nel documento emanato ormai molti anni fa (nel 2008, nella solennità di Pentecoste, che cadeva allora l’11 maggio) dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di vita Apostolica, dedicato al tema «Il servizio dell’autorità e l’obbedienza», lo si diceva in modo più raffinato, citando sant’Agostino, ma noi spesso lo abbiamo tradotto in modo riduttivo e più rozzo: obbedisci e non sbagli mai, come dicevo.
Nel modello di un’obbedienza rigida e gerarchica, la qualità spirituale di chi presiede la comunità sta nell’autorità, o anche nell’autorevolezza, con la quale è chiamato a prendere una decisione, a operare un discernimento, che rimane però più un discernimento individuale, per quanto illuminato dal consiglio di altri. Al contrario, nel modello della Regola di Benedetto, chi presiede è sollecitato a maturare un’altra qualità, più relazionale, aperta all’ascolto, al dialogo, al confronto, alla reciproca illuminazione. Non è preoccupato di imporre una decisione già presa, ma di saggiare la decisione, di verificarla ed eventualmente, se necessario, modificarla, perché illuminato da una parola diversa, da un consiglio sapiente, da un dialogo che, se è autentico, trasforma sempre tutti gli interlocutori coinvolti. Non c’è autentico discernimento là dove esso non maturi dentro un cammino di obbedienza: obbedienza alla parola di Dio, ma non solo, è anche obbedienza alla storia e a situazioni o condizioni determinate; è obbedienza a una tradizione come pure a un futuro da scrutare e in parte costruire, ascoltando la sua promessa; è obbedienza creaturale, a ciò che io sono e a ciò che è l’altro.
Obbedienza, cioè ascolto, ascolto attento, ascolto «da sotto» come suggerisce la preposizione ob che precede il verbo audire, ascoltare. E questo non è un atteggiamento facile. Non è facile per nessuno, tanto più per un superiore, per una superiora, che invece sono qualificati da un comparativo, superior, un comparativo relativo dal latino superus, che significa «colui che sta sopra». Di conseguenza, anche quando è capace di ascolto, la tentazione, o il rischio, anzitutto umano e poi spirituale, è quello di ascoltare «da sopra» e non «da sotto», «dall’alto» e non «dal basso». Nella visione di una Chiesa sinodale papa Francesco ha affermato che la piramide va rovesciata: colui che è al vertice si mette sotto, alla base, e impara ad ascoltare da quella posizione. E a operare discernimenti da quella posizione. Il suo non è più un discernimento che dall’alto scende in basso, come se avesse le chiavi delle porte del cielo e attraverso la sua parola, in forza del ruolo che riveste, parlasse Dio stesso (quanti danni ha fatto nella Chiesa e nelle nostre comunità questa pre-comprensione, questa postura umana e spirituale!); è piuttosto un discernimento che dal basso sale verso l’alto, dal basso, cioè da quella posizione che consente di ascoltare tanto la parola di Dio quanto la parola dei fratelli e delle sorelle, perché questa è la condizione per poter ascoltare davvero Dio che ci parla, o accogliere il dono dello Spirito che ci illumina.
DOM LUCA FALLICA