Povertà, castità e obbedienza ci consegnano alla solidarietà
2024/9, p. 1
Riprendiamo la lettura della relazione di dom Luca Fallica, abate ordinario di Montecassino, che aveva preso spunto dal celebre detto che ha dato il titolo alla raccolta delle lettere e di altri scritti di Dietrich Bonhoeffer durante la sua prigionia: «Resistenza e resa». «Occorre», diceva l’abate di Montecassino, «vivere il passaggio per arrivare all’altra sponda, accettando che la barca possa fare naufragio e all’altra riva giungiamo» solo grazie all’aiuto di un fratello, di una sorella. Una preziosa sottolineatura che dom Fallica trae dalle lezioni di san Benedetto.
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Povertà, castità e obbedienza
ci consegnano alla solidarietà
Riprendiamo la lettura della relazione di dom Luca Fallica, abate ordinario di Montecassino, che aveva preso spunto dal celebre detto che ha dato il titolo alla raccolta delle lettere e di altri scritti di Dietrich Bonhoeffer durante la sua prigionia: «Resistenza e resa». «Occorre», diceva l’abate di Montecassino, «vivere il passaggio per arrivare all’altra sponda, accettando che la barca possa fare naufragio e all’altra riva giungiamo» solo grazie all’aiuto di un fratello, di una sorella. Una preziosa sottolineatura che dom Fallica trae dalle lezioni di san Benedetto.
San Benedetto, e la vita monastica che a lui fa riferimento, sono diventati famosi per un motto che egli di per sé non ha mai coniato, ma che si deve alla tradizione successiva. Alludo all’ora et labora, al quale probabilmente andrebbe aggiunto un terzo imperativo – lege –, perché anche la lettura, lo studio, la lectio divina, sono elementi irrinunciabili nella vita di un monaco. Tuttavia, credo la cosa più importante non stia nei due o tre verbi, o in altri possibili verbi che si potrebbero ulteriormente aggiungere, ma in quell’et et che li congiunge, che appunto li fa incontrare, dialogare, integrare in una visione unitaria e non dualistica. Non aut aut, ma et et, questo è tipicamente benedettino. Continuamente questa interrelazione viene proposta dall’esperienza benedettina, e la si può riscontrare in tanti ambiti della Regola: non solo la preghiera, ma anche il lavoro; non solo la vita fraterna e comunitaria, ma anche il respiro della solitudine; non solo il servizio di Dio, ma anche il servizio dell’uomo; non solo l’obbedienza all’abate, ma anche tra fratelli… E questo vale non solo per la vita monastica, ma per ogni altra forma e stile di vita cristiana. Siamo sempre chiamati a molteplici impegni. Ciò che è decisivo è gettare ponti tra di loro, abbattendo le mura e i baluardi che siamo sempre tentati di erigere. L’aut aut edifica mura, l’et et getta ponti.
Tra prossimità e trascendenza
C’è un altro aspetto di questa cura della vita interiore che mi pare importante, soprattutto per chi vive molti impegni di servizio nel crogiuolo delle relazioni solidali e caritatevoli. Ne parlo ricorrendo ancora a un’immagine evangelica. Se andiamo ai primi due capitoli del Vangelo di Luca, cioè ai Vangeli dell’infanzia, e più precisamente al capitolo secondo, ci accorgiamo facilmente di una dinamica significativa. Gesù, insieme ai suoi genitori Maria e Giuseppe, vive tra Nazaret e Gerusalemme. L’evangelista, infatti, ci ricorda il suo abitare in questo piccolo villaggio della Galilea, ma ci narra anche dei suoi viaggi a Gerusalemme, in occasione della presentazione al tempio e poi quando Maria e Giuseppe lo ritrovano al tempio, dopo averlo smarrito. È come se Luca volesse suggerirci questa idea, o aprirci questo orizzonte di comprensione: Gerusalemme deve rimanere in rapporto con Nazaret, e Nazaret con Gerusalemme. Sono i due poli inseparabili, non sovrapponibili ma neppure divisibili, della vita di Gesù, ma anche della nostra esperienza credente. E in particolare della nostra vita consacrata. Gerusalemme dice la tensione di Gesù a cercare le cose del Padre, Nazaret dice che il suo modo di farlo è impastarsi fino in fondo, come lievito nella massa o seme nascosto nel campo, nelle cose degli uomini.
La vita di Gesù, come la vita di ogni suo discepolo, cresce e matura davanti a Dio e davanti agli uomini, cioè in una tensione che possiamo definire come tensione tra prossimità e trascendenza. Anche la vita religiosa, come luogo sintetico e paradigmatico della vita credente, della vita discepolare, ha bisogno di stare in questa tensione dinamica tra Nazaret e Gerusalemme, senza mai lasciarsi risucchiare o dall’una o dall’altra. Occorre stare tra l’una e l’altra, a Nazaret guardando a Gerusalemme, a Gerusalemme senza dimenticare Nazaret.
I Vangeli ce lo ricordano continuamente, anche se con immagini e racconti tra loro molto diversi, ma tali da ridirci la medesima tensione. È questo, ad esempio, il linguaggio delle parabole, un linguaggio che Gesù ha imparato dimorando a Nazaret, nelle case degli uomini, per imparare a parlare loro delle cose di Dio. Le parabole dicono questa vicinanza di Dio e del suo regno alla nostra vita, alla nostra esperienza umana. Nelle parabole, tuttavia, c’è sempre un elemento di sorpresa, di non ovvietà, di difformità rispetto alla nostra più immediata esperienza umana, che ci costringe a una conversione, a un passaggio dal nostro umano pensare a quello che san Paolo chiama «il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16). Credo che la verità della vita consacrata, attraverso gli impegni della obbedienza, della povertà e della castità, debba condividere questa stessa qualità parabolica: tenere insieme la prossimità di una vicinanza e l’altrove di una trascendenza. E gli impegni evangelici di obbedienza, di povertà, di castità, sono autentici e vengono vissuti nel giusto modo quando sono in grado di testimoniare entrambe queste dimensioni tipiche dell’avvento del Regno in Gesù: la prossimità e la trascendenza, la vicinanza e l’altrove.
Questa dinamica ci chiede di vivere un rinnovamento profondo nel modo di comprendere e di vivere i nostri tipici evangelici, quali la povertà, l’obbedienza, la castità. L’obbedienza ci consegna alla solidarietà con tutti coloro che hanno patito ferite nella loro libertà, che non obbediscono liberamente ma perché oppressi da strutture di potere o condizionati dalle contingenze della vita; la povertà ci consegna alla solidarietà con tutti coloro che si vedono ogni giorno espropriati del necessario per vivere o subiscono le molteplici forme di povertà che la nostra civiltà globalizzata sa inventare con fantasia ineguagliabile; la verginità ci consegna alla solidarietà con tutti coloro che vivono ferite profonde nelle loro relazioni di amicizia, di affetto, di amore; che sperimentano la precarietà dei legami; che patiscono l’oltraggio della morte che sottrae le persone amate, che soffrono la solitudine degli abbandoni o delle indifferenze.
Noi oggi sperimentiamo una sorta di difficoltà di linguaggio, perché sembrano mancare o venire meno i termini adeguati per parlare di questi tre impegni tipici della vita evangelica. Il modo più consueto, che riceviamo dalla tradizione, li definisce «voti» o più precisamente «consigli evangelici». Questa è la terminologia adottata anche dal concilio Vaticano II nel Decreto Perfectæ caritatis e prima ancora dalla Costituzione dogmatica Lumen gentium. Ora, per quanto possiamo ritenere ancora valida tale terminologia, o comunque dettata dalla consuetudine e accolta dalla tradizione, non dobbiamo ignorare che dietro di essa si cela una visione teologica dei cui gravi limiti abbiamo oggi maturato una maggiore consapevolezza. Il retroterra teologico e spirituale in cui affonda le sue radici la visione dei «consigli evangelici» oggi è fortemente messo in crisi, soprattutto dopo che il Vaticano II ha provvidenzialmente ricordato l’universale chiamata alla santità. Una chiamata alla santità, e dunque alla perfezione evangelica della carità, che concerne tutti, anche se in modi molteplici e diversi. Ma tale diversità non autorizza certamente a divisioni quali quella tra la via dei precetti e la via dei consigli, come non autorizza neppure a parlare di stati di maggiore o di minore perfezione.
A me pare necessario rivedere e correggere il modello di Chiesa sottostante a queste visioni insufficienti. Un criterio per farlo ci viene offerto dall’apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, laddove afferma: «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune» (1Cor 12,7). Il criterio non è la differenziazione, ma l’utilità comune. Questo significa che ognuno vive in modo particolare ciò che è per tutti, dunque anche ciò che è comune a tutti. Per comprendere quanto intendo dire dobbiamo cambiare un po’ il modello di Chiesa che abbiamo in mente, nell’immaginario e nella sensibilità diffusa.
Noi spesso immaginiamo la Chiesa come un grande mosaico, o un grande puzzle, dove ognuno porta la sua tessera per ricostruire un’immagine unitaria. È evidente che secondo questo modello ogni tessera è diversa dalle altre anche se si deve incastonare con le altre. Dobbiamo invece cambiare modello di riferimento e immaginare una Chiesa nella quale ciascuno vive in modo simbolicamente forte e più evidente ciò che è di tutti perché tutti possano riconoscerlo come proprio. Il valore si incarna in un modello e nello stesso tempo lo trascende, senza diventare sua proprietà esclusiva. Conosco la bontà quando la vedo incarnarsi in un uomo buono, che tuttavia la vive non in modo esclusivo. Una dinamica analoga la ritroviamo nella vita consacrata e nella sua appartenenza all’unità del corpo di Cristo che è la Chiesa. Se io monaco sono chiamato a vivere una più intensa esperienza di ascolto della parola di Dio, o di preghiera, o di vita comunitaria, non è perché questo sia esclusivo dei monaci che in tal modo portano la propria tessera per ricostruire il grande mosaico della Chiesa, ma devo viverlo in modo simbolicamente evidente per ricordare a tutti i credenti che l’ascolto della parola, o la preghiera, o la vita di comunione appartiene anche alla loro chiamata vocazionale e alla loro consacrazione battesimale, anche se poi lo vivranno in modo diverso dal mio, secondo il loro peculiare stato di vita. La vita consacrata è dunque chiamata a vivere in modo simbolicamente evidente la chiamata alla santità perché tutto il popolo di Dio possa riconoscere di essere chiamato alla stessa santità, comprendendo anche quali sono le vie da percorrere per lasciarsi rivestire della santità stessa di Dio.
DOM LUCA FALLICA