Covili Federico
Al cuore della democrazia
2024/9, p. 38
Nella 50.ma Settimana sociale dei cattolici (Trieste, 3-7 luglio 2024: “Al cuore della democrazia. Partecipazione tra storia e futuro”) è emerso un dato: la Chiesa italiana continua a scegliere la democrazia, consapevole però che è malata e che necessita di chiavi interpretative nuove. Occorre dare voce ai tanti laici credenti impegnati nella cosa pubblica, per cambiare la narrazione e le politiche in cui da troppi anni è bloccata l’Italia, contribuendo così a frenare la crescita dell’astensionismo.

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50° SETTIMANA SOCIALE
Al cuore della democrazia
Nella 50ma Settimana sociale dei cattolici (Trieste, 3-7 luglio 2024: «Al cuore della democrazia. Partecipazione tra storia e futuro») è emerso un dato: la Chiesa italiana continua a scegliere la democrazia, consapevole però che è malata e che necessita di chiavi interpretative nuove. Occorre dare voce ai tanti laici credenti impegnati nella cosa pubblica, per cambiare la narrazione e le politiche in cui da troppi anni è bloccata l’Italia, contribuendo così a frenare la crescita dell’astensionismo.
Parlando con un dirigente nazionale di un’importante associazione cattolica, al termine della Settimana sociale di Trieste, ho potuto avere uno sguardo diverso da quello di chi, come me, era alla prima esperienza: «vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi, già in passato è capitato che gli slanci e i progetti di queste Settimane si disperdessero, fino ad arenarsi completamente». E allora vale la pena, ora che è già passato un po’ di tempo, fare un bilancio dei giorni di Trieste, dei messaggi lanciati e di ciò che può (o non può) restare. A partire da un’indicazione chiara e di questi tempi non scontata: la Chiesa italiana sta dalla parte della democrazia. Mentre molti stati del mondo stanno vedendo una pericolosa involuzione autoritaria e mentre diverse democrazie liberali stanno vivendo situazioni di grande crisi, la Chiesa fa una scelta di campo senza tentennamenti. Si tratta di una risposta chiara a tante correnti interne che, da anni, strizzano l’occhio a teorie complottistiche e leader politici autoritari. La Chiesa italiana continua a scegliere la democrazia ma – e qui sta forse l’elemento più interessante – si rende conto che la democrazia è malata e si sente interpellata nella necessità di fornire parole e chiavi interpretative nuove. Con coraggio e senza nostalgie del passato. È necessario che i laici impegnati in politica e nel sociale sentano l’urgenza di questo compito e si diano da fare con coraggio e modalità nuovi.
Lo scarto tra i vertici e la base della Chiesa
Ed è necessario che la Chiesa (a partire dalla sua base) modifichi l’approccio. A molti di noi delegati balzava agli occhi la grande differenza fra il modo di affrontare la democrazia qui a Trieste e il modo in cui è vissuta in tantissime comunità: un approccio spesso ancorato alla visione «ruiniana» dei «valori non negoziabili» e alla volontà di tenere la discussione politica fuori dalle parrocchie. Molti delegati hanno testimoniato il senso di solitudine che colpisce chi vuole impegnarsi a partire da un’esperienza di fede, gli spazi che si chiudono, le diffidenze, i silenzi, la lontananza di comunità che dovrebbero invece sostenere con la preghiera e l’amicizia questi fratelli impegnati nel bene comune.
Non nascondiamoci dietro un dito: lo scarto tra i vertici e la base della Chiesa è un tema enorme e molti di questi sforzi si infrangeranno inevitabilmente su una parte di clero e operatori pastorali che anzi hanno visto con sospetto i discorsi di Trieste. Questioni legate alla forza dell’abitudine ma anche a diversi orientamenti politici, visto che la stampa di destra si è esposta con forti critiche: il quotidiano La Verità si è chiesto se si trattasse di una Settimana sociale o di un centro sociale, parlando di «festival a senso unico», mentre La Bussola Quotidiana ha accusato la Cei di aver «appaltato al Partito Democratico le settimane sociali in formato Festa dell’Unità». Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo: si tratta di suddivisioni che si allungano anche in altri ambiti e che toccano il modo di essere Chiesa.
La cura per il cuore «infartuato» della democrazia
Sarebbe inutile però fermarsi qui, considerato che molte di queste prese di posizione sono arrivate a priori. È invece importante entrare nel cuore dei contenuti, per segnalare il rifiuto sia della tentazione un po’ pilatesca dell’equidistanza, sia dell’accusa di essere «a rimorchio della sinistra e del PD». La sfida lanciata è stata, invece, quella di avere cristiani che propongano parole e modi nuovi di intendere e vivere la democrazia. La forma e il contenuto delle relazioni sono stati molto diversi da ciò che siamo abituati a sentire nella politica nazionale. Sono state pronunciate parole nuove, coraggiose, concrete, espressione di un paese generativo che esiste già ma che spesso non ha voce. Parole che aprono al dialogo, che mettono in moto percorsi. I relatori erano bilanciati per genere e per età, e questo ha consentito di mettere in luce punti di vista diversi ma appartenenti a una stessa visione di bene comune. Una visione che ci porta direttamente al cuore della democrazia, perché essa non è solo un metodo o un sistema intercambiabile con altri. La democrazia è un valore in sé, il sistema migliore per far «fiorire» le persone, dare loro la possibilità di essere libere e trovare la propria realizzazione. Per curare il cuore «infartuato» (definizione di papa Francesco) della democrazia, possiamo ricorrere alle scorciatoie di leadership carismatiche, populismi o tecnocrazie, finendo però per non risolvere e addirittura aggravare la situazione. Oppure possiamo andare più in profondità e scoprire che, alla radice, c’è il problema della partecipazione che è l’esatto opposto dell’individualismo e della «cultura dello scarto». Partecipazione è stata in effetti una delle parole chiave della Settimana. Ripetuta nella canzone La libertà di Gaber che faceva da cornice agli incontri, più volte ricercata nella preoccupazione per la drammatica crescita dell’astensionismo. Fino ad arrivare a una conclusione evidente ma mai messa adeguatamente in luce: le persone non partecipano perché non vengono ascoltate né coinvolte. Non è un caso che i luoghi in cui si registrano grandi tassi di lontananza dal voto e dalle istituzioni siano proprio quelli più marginali.
La conversione dal parteggiare al partecipare
Ritorna, inevitabile, l’andare alle periferie di papa Francesco. «Dio – ha spiegato il pontefice nell’omelia della domenica – si nasconde negli angoli scuri della vita della nostra città. La sua presenza si svela proprio nei volti scavati dalla sofferenza e laddove sembra trionfare il degrado. E noi, che talvolta ci scandalizziamo inutilmente di tante piccole cose, faremmo bene invece a chiederci: perché dinanzi al male che dilaga, alla vita che viene umiliata, alle problematiche del lavoro, alle sofferenze dei migranti, non ci scandalizziamo? Perché restiamo apatici e indifferenti alle ingiustizie del mondo? Perché non prendiamo a cuore la situazione dei carcerati, che anche da questa città di Trieste si leva come un grido di angoscia? Perché non contempliamo le miserie, il dolore, lo scarto di tanta gente nella città? Abbiamo paura, abbiamo paura di trovare Cristo, lì». L’amore politico ha bisogno di coraggio e radicalità, come Gesù che «è rimasto fedele alla sua missione, non si è nascosto dietro l’ambiguità, non è sceso a patti con le logiche del potere politico e religioso». Ma proprio qui occorre fare un ulteriore avanzamento: «la democrazia – ha spiegato sempre il papa, nel discorso al Centro congressi – richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal “fare il tifo” al dialogare». È forte il richiamo a lasciare le ideologie «seduttrici», a rifiutare la politica formato talk-show o social network e a ricercare la radice di un amore per la persona e la comunità. Un amore che parte dal «noi», perché «democrazia – ha detto Mattarella nel suo intervento iniziale – è camminare insieme».
Siamo «analfabeti di democrazia»
Se ci pensiamo è una direzione opposta rispetto a quella indicata dalle tendenze di personalizzazione che da anni caratterizzano il quadro nazionale e non solo, con partiti che si sono trasformati in comitati elettorali al servizio di un unico leader, il quale fa e disfa alleanze, sceglie parlamentari e collaboratori sulla base della fedeltà, trascura l’attenzione per i territori e si dedica alla ricerca di una immedesimazione con le emozioni della gente. E qui sta uno dei motivi di scontro con l’attuale maggioranza di governo: la Chiesa italiana rifiuta le soluzioni leaderistiche, gli uomini (o le donne) della Provvidenza e chiede invece di ripartire dal modello dell’assemblea costituente. Meno premierato, più democrazia sostanziale, per dirla con una formula che richiama Dossetti. La democrazia però non si improvvisa, c’è bisogno di battersi perché non ci possano più essere «analfabeti di democrazia», secondo la definizione del presidente Mattarella. Un obiettivo che chiama alle proprie responsabilità anche la Chiesa che deve tornare a fare formazione, inserendo con più convinzione la dottrina sociale all’interno dei percorsi pastorali. Non basta trovare le parole giuste e nemmeno individuare la radice del male e una possibile cura. Occorre tracciare dei percorsi per arrivare a una guarigione e per scongiurare il rischio da cui siamo partiti, quello di veder arenarsi gli entusiasmi nelle sabbie dell’ordinarietà.
La Rete di Trieste
La novità più interessante e concreta della Settimana, da questo punto di vista, è stata la nascita della «Rete di Trieste»: se la parola forse più pronunciata negli ultimi anni è stata populismo, la sfida è invece ripartire dal popolarismo, mettendo in relazione realtà associative virtuose e amministratori locali. Circa ottanta tra sindaci, consiglieri comunali e persone attivamente impegnate in politica, di diverse provenienze geografiche e politiche, hanno firmato una dichiarazione di intenti, con l’impegno di rivedersi e dare vita a un dialogo sempre più profondo e virtuoso. Si parte dalle istituzioni locali per mettere in relazione le esperienze migliori e le buone pratiche, provare a diffondere il vento di democrazia che ha soffiato forte a Trieste. Nel documento si fa riferimento, in particolare, a tre impegni: continuare il lavoro di scambio su temi concreti per arrivare a un incontro nazionale nel prossimo autunno; assumere i processi, gli obiettivi e i metodi della Settimana sociale di Trieste, con particolare riferimento a giustizia sociale e innovazione del welfare, sostenibilità ambientale, centralità della famiglia e della scuola, accoglienza e integrazione, cura e valorizzazione degli strumenti di valorizzazione democratica; fare del magistero sociale di papa Francesco l’elemento unificante per l’impegno dei cattolici in politica. Chi si aspettava un nuovo «partito dei cattolici» resterà deluso, visto che la soluzione appare al momento fuori fuoco e fuori luogo. Non occorre contarsi ma contare, non occorre un partito, ma piuttosto uno spartito da consegnare a un paese che appare a tratti senza voce e senza speranza. I cattolici impegnati in politica sono molti, soprattutto negli enti locali. Occorre creare una rete che li aiuti ad avere voce, per cambiare la narrazione e le politiche in cui da troppi anni è bloccata l’Italia.
FEDERICO COVILI