Ospitalità, monachesimo e Chiesa sinodale
2024/9, p. 7
Oggi lo stile ospitale è un’urgenza, proprio a partire dallo stile di Gesù.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
«GLI OSPITI NON MANCANO MAI IN MONASTERO»
Ospitalità, monachesimo
e Chiesa sinodale
Oggi lo stile ospitale è un’urgenza, proprio a partire dallo stile di Gesù.
San Benedetto nella Regola ci ricorda che «gli ospiti non mancano mai in monastero» (RB 53,16). Il tema dell’ospitalità è quindi particolarmente importante per tutte le comunità monastiche, che la praticano in diverse forme e in tempi differenti. In modo particolare in questo momento della vita della Chiesa la vita monastica può essere un segno prezioso di accoglienza e di ospitalità. Oggi lo stile ospitale è un’urgenza per la comunità cristiana, proprio a partire dallo stile di Gesù. Solamente una Chiesa ospitale, capace come il suo Signore di ospitare e di lasciarsi ospitare, può oggi annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo.
Che cosa possiamo dare?
Quando pratichiamo l’ospitalità come accoglienza noi innanzitutto pensiamo di «dare» qualcosa agli ospiti che incontrano le nostre comunità. Ma che cosa deve dare innanzitutto una comunità monastica all’ospite che trascorre qualche giorno condividendo la sua vita? La Regola di Benedetto (RB 53) ci fornisce alcune semplici ma fondamentali indicazioni che non dobbiamo dimenticare. Occorre partire oggi dalle cose semplici ed essenziali. Chi viene nelle nostre comunità non cerca l’«ultima moda teologica» un po’ «borghese» che stupisce ma svanisce subito; cerca invece l’essenziale che rimane. E Benedetto nella sua semplicità ci fornisce qualche indicazione in merito. L’ospite deve essere accolto dal superiore e dai fratelli «con ogni attenzione di Carità» (RB 53,4). Ma che cosa significa questo concretamente?
La prima cosa da condividere con gli ospiti è la preghiera: «prima preghino insieme». Nel monastero niente deve essere anteposto al servizio divino, alla preghiera (cf. RB 43,3). Così la prima cosa che una comunità monastica condivide con gli ospiti è la liturgia, la preghiera comunitaria: «gli ospiti così accolti siano accompagnati alla preghiera» (RB 43,8). Il monaco, la monaca, non ha nulla di più prezioso da condividere con gli ospiti della sua tensione a Dio, della sua ricerca del Signore. Se in una comunità monastica veramente si cerca Dio (cf. RB 58,7), quando arriva un ospite la prima cosa che si desidera condividere con lui è la preghiera. Gli ospiti, anche i non credenti, cercano – anche se non possono condividere l’esperienza – di incontrare uomini e donne di preghiera, capaci di essere veramente «anticonformisti» nell’indicare una ricerca libera e aperta di ciò che è invisibile agli occhi, uomini e donne di Dio. Questo primo tratto dell’accoglienza ci deve spingere ad interrogarci sul nostro modo di vivere la liturgia, come luogo nel quale custodiamo ciò che più ci sta a cuore.
La seconda cosa che dobbiamo condividere con gli ospiti è l’ascolto della Parola di Dio: «davanti all’ospite si legga, per sua edificazione la divina Scrittura» (RB 53,9). La Regola di Benedetto si apre con l’invito all’ascolto (cf. RB Prol. 1). Insegnare ad ascoltare la Parola di Dio contenuta nelle Scritture è per il monaco un’altra condivisione di ciò che ha di più caro e prezioso nella sua esperienza spirituale. Per una comunità monastica condividere l’ascolto della Parola di Dio non è semplicemente un’attività pastorale tra le altre, un servizio reso agli ospiti, ma innanzitutto la condivisione di ciò che nella nostra vita è essenziale. La centralità della lectio divina nella tradizione monastica è un tesoro prezioso che dobbiamo condividere anche con coloro che frequentano le nostre comunità. Nel contesto ecclesiale del nostro tempo, segnato dal percorso sinodale, mettere al centro l’ascolto delle Scritture è una grande testimonianza che la vita monastica più vivere nella Chiesa. Tuttavia, l’ascolto della Scrittura, fatto in comune, rimanda ad un altro dono che i monaci e le monache possono offrire agli ospiti: l’ascolto reciproco. Imparando ad ascoltare ogni giorno la Parola di Dio contenuta nelle Scritture, impariamo anche ad ascoltare l’altro. Gli uomini e le donne che raggiungono i nostri monasteri hanno bisogno di essere ascoltati. Le comunità monastiche nella pratica dell’ospitalità diventano luoghi di ascolto reciproco. I monaci e le monache devono essere uomini e donne capaci di «perdere tempo» nell’ascolto dell’altro, senza avere costantemente l’orologio in mano. Nell’ascolto sia della Parola che delle parole dei fratelli e delle sorelle occorre saper vivere la gratuità del tempo.
Un altro gesto di accoglienza che la comunità monastica deve offrire agli ospiti secondo Benedetto è la lavanda dei piedi: «lui stesso (l’Abate) e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti» (RB 53,13). È un gesto molto bello che ha grande capacità evocativa e ricchezza di significati. Innanzitutto, lavare i piedi a dei pellegrini, che nell’antichità si spostavano a piedi, percorrendo lunghi tratti di cammino, significa alleviare le fatiche, dare sollievo. L’accoglienza monastica è anche questo: donare un luogo di sollievo, di riposo dalle fatiche del viaggio della vita. Tanti uomini e donne, anche non credenti ma in ricerca, possono trovare nelle nostre comunità il sollievo della lavanda dei piedi, un luogo nel quale posare per un attimo il proprio fardello, per poi riprendere rinfrancati il cammino. Ma poi la lavanda dei piedi è soprattutto il gesto di Gesù, quello che egli ha compiuto per i suoi discepoli la sera dell’ultima cena (cf. Gv 13,1-15). Indicando il dovere di compiere questo gesto per gli ospiti, Benedetto ci invita a condividere con loro «lo stile di Gesù». Chi incontra una comunità monastica dovrebbe respirare qualcosa dello «stile» del Signore, dei suoi gesti, delle sue parole. Gesù nella lavanda dei piedi mostra ai suoi discepoli un «amore fino alla fine», un amore gratuito, che si dona senza attendere nulla in cambio. Questo è il Vangelo: la gratuità dell’amore. Nella lavanda dei piedi Benedetto ci dice che i monaci dovrebbero poter donare agli ospiti un po’ di «profumo di Vangelo».
Infine, ciò che i monaci devono condividere con gli ospiti è la mensa: «se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all'ospite» (RB 53,10). Occorre che verso gli ospiti «si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità» (RB 53,9). La mensa, così come anche lo scambio della pace (cf. RB 53,4-5), indica la dimensione umana dell’accoglienza, la sincera fraternità, l’amicizia. Ma Benedetto avverte che questo avvenga dopo la preghiera e l’ascolto delle Scritture, perché non si corra il rischio di perderne il significato profondo: «questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche» (RB 53,5). Ci possono essere delle «illusioni diaboliche» che il monaco rischia di vivere nell’accoglienza dell’ospite, mettendo al centro se stesso, i propri bisogni, e non l’altro. La condivisione della mensa e il bacio della pace sottolineano la dimensione umana, gioiosa e fraterna dell’accoglienza che non va mai dimenticata e che non può mancare. Il fatto che questo non sia al primo posto non significa che sia meno importante, ma che deve essere custodito da eventuali distorsioni.
È importante che Benedetto parli esplicitamente dell’accoglienza dei poveri: «specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé» (RB 53,15). È un aspetto che ci interpella profondamente. Vanno accolti specialmente i poveri e i pellegrini. Chi sono oggi i poveri e i pellegrini che raggiungono le nostre comunità? La risposta a questo interrogativo non è uguale in tutte le parti del mondo. Ci sono differenti povertà che affliggono gli uomini e le donne del nostro tempo a seconda del contesto sociale, politico ed economico nel quale siamo presenti. L’ospitalità che pratichiamo deve necessariamente rivolgersi a queste differenti forme di povertà che segnano la vita di tanti uomini e donne nostri compagni di strada.
Che cosa possiamo ricevere?
In lingua italiana il termine «ospite» non indica unicamente colui che viene accolto, ma anche chi pratica l’ospitalità. Questo aspetto dice che nell’ospitalità noi non diamo solamente qualcosa all’altro, ma anche noi siamo destinatari di doni. Forse questa è la dimensione dell’ospitalità che più facciamo fatica a praticare. È infatti più facile accogliere che farsi accogliere. Ma Gesù faceva così: era capace di accogliere, ma anche di lasciarsi accogliere. Basta pensare alla chiamata dei primi discepoli sulle rive del lago di Galilea (Lc 5,1-11). La chiamata di Pietro e degli altri si colloca nel contesto di un gesto di ospitalità: Gesù si fa ospitare da coloro che chiama, li «prega» di scostare la barca dalla riva. Anche questo i suoi discepoli devono imparare dal loro maestro: per annunciare il Vangelo non basta essere ospitali, occorre anche la libertà e l’umiltà di chi è capace di lasciarsi ospitare e di domandare.
Ma che cosa possiamo ricevere dai tanti uomini e donne che raggiungono le nostre comunità in modi differenti? Innanzitutto, riceviamo in dono la consapevolezza di essere tutti «ospiti e pellegrini». Questo è il fondamento dell’ospitalità per le Scritture (cf. Lv 25,23). L’ospite ricorda ai monaci la condizione che condividono con tutti gli uomini e le donne della terra. Siamo tutti ospiti e pellegrini accolti da Dio: il Signore ci ha donato una terra nella quale abitare e nulla è nostro.
Ma poi per il monaco l’ospite è «il sacramento dell’incontro con Dio», il sacramento dell’Alterità. Benedetto per due volte dice esplicitamente che l’ospite deve essere accolto come Cristo: «Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”» (RB 53,1; cf. 53,15). Nell’ospite il monaco incontra ciò che ha di più prezioso per la sua vita: Cristo! Occorre praticare l’ospitalità non per «buona educazione», ma perché nell’altro, «custode» di diversità e di lontananza, devo scoprire non l’ostilità del nemico, ma il dono dell’allargamento di orizzonti che giunge fino ad uno sguardo più penetrante capace di leggere la mia storia come storia di salvezza. Infatti, alcuni praticando l’ospitalità «senza saperlo, ospitarono angeli» (cf. Eb 13, 1-8). L’angelo è colui che rivela la volontà di Dio sull’uomo e sulla storia, colui che apre strade insperate nei nostri giorni, colui che allarga i nostri orizzonti fino all’ampiezza senza confini degli orizzonti di Dio. L’ospite è quindi colui che può donarci questo «allargamento di orizzonti». Una comunità chiusa completamente in se stessa, o convinta di avere solamente da dare e nulla da ricevere, rischia di inaridirsi, di perdere il contatto con la realtà, di ripiegarsi sui propri piccoli e, a volte insignificanti, problemi.
«Per evitare che i monaci siano disturbati» (RB 53,16)
Ma Benedetto, saggiamente, ci mette anche in guardia dai rischi di una ospitalità mal vissuta e mal gestita. Per poter essere luogo di condivisione reciproca di doni l’accoglienza deve essere praticata con attenzione e consapevolezza.
La prima attenzione consiste nella custodia del tempo. Afferma Benedetto: «la cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero» (RB 53,16). Praticando l’ospitalità i monaci devono custodire il loro ritmo di preghiera, di lavoro, di lectio divina… se no, non hanno nulla da dare e nulla possono ricevere. La prima cosa che possiamo condividere con gli ospiti è il ritmo della giornata scandita da preghiera, lectio, lavoro. Gli ospiti vengono per questo, non per aggiungere altre relazioni alla loro vita, uguali a quelle che già sperimentano nella loro quotidianità. C’è un ritmo e un tempo «altro» che lo spazio dei monasteri può offrire agli uomini e alle donne di oggi. Anche per questo occorre che ci sia nel monastero un monaco, o più monaci, addetto all’ospitalità, per garantire la possibilità alla comunità di vivere il proprio ritmo di preghiera e lavoro (cf. RB 53,21-14).
Ma anche gli spazi vanno custoditi. Benedetto afferma: «così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio: in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge» (RB 53,21-22). Perché l’accoglienza sia autentica occorre custodire gli spazi. La vita della comunità deve essere salvaguardata nella sua intimità. Per prendersi cura degli ospiti la comunità deve prima di tutto prendersi cura di se stessa e a questo tutti i fratelli e le sorelle sono chiamati a contribuire. C’è un legame tra la cura delle esigenze della comunità e la cura degli ospiti… di questo gli ospiti vanno avvertiti con carità. Se non c’è attenzione a custodire gli spazi della comunità non c’è nemmeno vera cura dell’ospite, ma solo superficialità e disattenzione. Quando non c’è cura degli spazi comuni, non c’è vera attenzione agli ospiti, ma solo soddisfazione dei propri bisogni personali.
Ospitalità incondizionata
Parlando dell’itinerario di Gesù, del suo stile, Christoph Theobald parla di una sua «ospitalità incondizionata». Ed egli afferma: «Questa ospitalità, narrata in modo così concreto nei racconti evangelici, consente di “rimpatriare” tali racconti nell’attualità delle nostre “Galilee”» (Urgenze pastorali, 70). Come monaci e monache, nella pratica dell’ospitalità, possiamo fornire un nostro specifico «servizio» a questo passaggio della vita ecclesiale.
D. MATTEO FERRARI OSB Cam
Priore Generale