La storia della redazione del Credo
2024/9, p. 5
Il simbolo di fede è stato elaborato attraverso varie tappe, varie strade e vari impulsi: un lungo processo, culminato in un consenso tra comunità credenti di cui i concili sono stati espressione.
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Testimoni
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CONSENSO TRA COMUNITÀ CREDENTI
La storia della redazione del Credo
Il simbolo di fede è stato elaborato attraverso varie tappe, varie strade e vari impulsi: un lungo processo, culminato in un consenso tra comunità credenti di cui i concili sono stati espressione.
Il simbolo di fede non nasce dal niente, ma è stato elaborato attraverso varie tappe, varie strade e vari impulsi. Non si tratta, cioè, di una decisione presa da un qualche, pur importante gruppo di persone che in un dato momento hanno deciso improvvisamente di elencare i dati della fede e di ritenerli vincolanti, ma di un lungo processo, che è culminato non tanto in un concilio, ma in un consenso tra comunità credenti di cui i concili sono stati espressione.
Infatti, già nel testo biblico troviamo momenti nei quali si raccontano quali contenuti comporti l’incontro con Dio. Si tratta prima di tutto di testimoniare proprio questo incontro, che è il primo contenuto di fede, narrandone la storia e dimostrandone l’efficacia. Lo troviamo espresso chiaramente nel credo storico di Israele: «Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato» (Dt 26,5-10). Come appare evidente dall’ultima frase e dal contesto, tale narrazione è inserita in un ambiente liturgico e rituale, perché di fatto si tratta di un atto di popolo che sta celebrando il proprio costituirsi. Allo stesso livello potremmo, nel Secondo Testamento, considerare la prima predicazione apostolica un aggiornamento alla luce dell’incontro con Dio avvenuto in Gesù di Nazareth, ma è un’unica storia della salvezza che si incarna nella fede dei credenti (cfr. At 2,14-39).
Formule di fede semplici e ricorrenti
In particolare – vuoi per esigenze liturgiche, vuoi per esigenze didattiche e missionarie – tale racconto viene a condensarsi in formule di fede semplici e ricorrenti. Nel Secondo Testamento assumono varie strutture. Quella più semplice si presenta con un unico nucleo e fa riferimento più o meno immediato all’esperienza di Dio mediata dalla persona di Gesù di Nazareth, riferendo a lui i titoli messianici (figlio di Dio, figlio di Davide, messia, profeta, etc.) oppure esplicitamente appellandosi a lui con un nome divino: «Signore» (cfr. Gv 20,28 o il cammino di fede descritto nel racconto del Risorto a Maria Maddalena in Gv 20,11-18). Questa strada cristocentrica è rintracciabile in molte fonti neotestamentarie (cfr. At 4,12). Una seconda struttura simbolica si sviluppa, invece, con due riferimenti: attorno a dei nuclei che successivamente la teologia identificherà con le persone del Padre e del Figlio. Presumibilmente, si tratta dell’ampliamento simbolico della più stretta formula di fede ebraica (cfr. Dt 6,4; 1Cor 8,6; Rm 10,9; 1 Tim 5,6). Infine, la terza struttura è ternaria ed apre allo sviluppo successivo della teologia trinitaria: in questo caso, si tratta di un riferimento a tre agenti che in qualche modo sono correlati dallo stesso fine – distribuire salvezza nell’economia dei ruoli – ma con mediazioni tra loro distinte (cfr. Ef 4,4-6). Sinteticamente questa struttura viene poi elaborata indicando semplicemente i tre nomi (cfr. Mt 28,19). Accanto a queste tre macrostrutture simboliche e più propriamente teocentriche, vengono elaborate delle formule che condensano in poche espressioni la storia della salvezza, così come sperimentata dalla comunità cristiana; al centro si trova generalmente il riferimento alla passione e morte di Gesù di Nazareth, riletta in funzione redentrice, e alla risurrezione, testimoniata dagli incontri del Risorto con la comunità credente: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1 Cor 15,3-5; cfr. il parallelo eucaristico in 1 Cor 11,23-26).
Prassi liturgica
Già in tutte queste testimonianze è all’opera un riferimento alla prassi liturgica concreta delle prime comunità cristiane: il rimando più o meno esplicito al mistero della fede significato nell’eucaristia, come al battesimo nel nome delle tre Persone, ne possono dare rapida conferma. La ritualità ha, infatti, due necessità di fondo che aiutano ad elaborare e sintetizzare i contenuti della fede: ha bisogno di testi semplici dal punto di vista mnemonico e facili da ripetere. Non è quindi un caso che il contenuto del Credo sia venuto a svilupparsi e a strutturarsi proprio all’interno della prassi liturgica. Le orazioni presidenziali, per esempio, da presto vengono ad essere concluse con la formula dossologica: «al Padre, per Cristo, nello Spirito Santo». Tra parentesi, questo uso di porre fine alla preghiera liturgica viene anche sovrapposto all’uso della recita del salterio, ‘cristianizzando’ i singoli salmi con la recita finale della dossologia e aprendoli, quindi, ad una interpretazione cristologica. Per ragioni facilmente comprensibili, è in particolare nella celebrazione del battesimo che questa finalità viene raggiunta: in modo particolare, quando l’iniziazione cristiana viene strutturata durante il cammino quaresimale, i vari scrutini – cioè i momenti nei quali la preparazione del catecumeno viene in qualche modo testata e resa pubblica – sono tappe per assicurare che le parole della celebrazione del battesimo siano state assimilate e comprese nelle loro conseguenze. Per questo il battesimo vero e proprio può avvenire ‘semplicemente’ come triplice immersione: «nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo». E per questo le prime formule di fede vengono a coincidere con le risposte a tre domande che ripercorrono gli articoli di fede. Anche se non possiamo del tutto determinare se venga prima la formula declaratoria o quella interrogativa – in realtà, mi pare una questione piuttosto accademica e sufficientemente relativa –, la compresenza delle due possibilità è già significativa, senza tener conto che ancora sopravvive, per quanto riguarda il rito latino della chiesa cattolica, nella solenne veglia pasquale e nella sua ripresa domenicale. Per avere un primo quadro di questa duplice possibilità, si veda la versione copta delle costituzioni della chiesa egiziana (DH 3-4) o per la parte occidentale la doppia recensione del simbolo di Idelfonso di Toledo (cfr. DH 23).
L’oscillazione dei simboli di fede tra una professione personale («credo») e una plurale («crediamo») apre anche alla considerazione che chi emette la professione di fede entra in comunione con tutta la comunità credente. E questo ci permette di sottolineare un ultimo filone – in realtà necessariamente legato a quelli precedenti –: lo ritroviamo nelle cosiddette litterae communionis o, in senso largo, nella professione di fede contenuta nelle lettere che un vescovo comunicava per iscritto ai vescovi della regione ecclesiastica quando era eletto al governo di una diocesi. In tali scritti, troviamo non solo una prassi sinodale antica che permetteva di mantenere l’autonomia e la differenza di ogni singola diocesi nel permanere delle relazioni con le altre (ovviamente ci si riferisce qui ad un’epoca nella quale l’episcopato monarchico era già diffuso). Troviamo anche un ricco materiale con il quale viene alla luce la ricca pluralità dei tentativi di mettere a sistema il contenuto della fede; infatti, nel riferire la fede della comunità ecclesiale nella quale il vescovo assumeva la funzione di riferimento, ciascun autore ne personalizza i contenuti, rielaborandone il linguaggio e proponendone a volte anche sintesi innovative. In questo processo, spesso sotterraneo, vengono a formarsi delle correnti teologiche e linguistiche, che noi possiamo riconoscere proprio attraverso l’analisi delle formule di fede dei primi secoli e delle loro interpretazioni autorevoli. A livello di scuola, particolare attenzione viene riservata alla distinzione strutturale tra quei simboli che sottolineano maggiormente l’umanità di Gesù di Nazareth (la tradizione antiochena) e quelli che invece tendono ad esprimerne meglio l’origine divina (la tradizione alessandrina). Potremmo anche dire che proprio questa distinzione viene a giocare un forte ruolo nella successiva redazione dei simboli e proprio su questo si centrerà la discussione nei concili ecumenici che sono alla base dell’attuale Simbolo niceno-costantinopolitano. Né ci si può meravigliare di questo: per comunità nate dalla fede ebraica e dal suo forte richiamo all’unicità di Dio e cresciute con queste spiritualità, testimoniare cosa possa significare la differenza in Dio è stata certamente una delle prime sfide.
Questi tre livelli processuali – la storia biblica della salvezza, la celebrazione liturgica dei misteri cristiani, la strutturazione delle comunità ecclesiali e dei loro rapporti di comunione – possono essere considerati la preistoria del Credo, in quanto hanno insieme preparato la strada e i modelli che sono serviti come base di discussione e attorno ad alcuni dei quali si sono man mano costruiti consensi. Che nella distinzione delle strade e dei simboli si riesca come in quel tempo a mantenere l’unità della fede è auspicio anche dell’odierno cammino ecumenico.
GIANLUCA MONTALDI