Fallica Luca
Passare all’altra riva
2024/7, p. 4
L’abate di Montecassino suggerisce alcuni aspetti di questo passaggio all’altra riva. In particolare: che cosa può e deve significare questo passaggio nell’ambito spirituale, cui seguirà: nell’ambito fraterno, nell’ambito carismatico, nell’ambito formativo.

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Passare all’altra riva
L’abate di Montecassino suggerisce alcuni aspetti di questo passaggio all’altra riva. In particolare: che cosa può e deve significare questo passaggio nell’ambito spirituale, cui seguirà: nell’ambito fraterno, nell’ambito carismatico, nell’ambito formativo.
LA VITA SPIRITUALE
Nell’ambito spirituale passare all’altra riva può significare abbandonare una religiosità intessuta di devozioni e di preghiere formali per giungere a un’autentica cura della vita interiore. Farlo significa accettare la fatica tanto di scendere in profondità, quanto di tendere a una unificazione personale. Lo dico a partire dalla mia esperienza monastica e in specie di discepolo di san Benedetto, perché credo che si tratti di un aspetto che interessa non solo i monaci, ma tutti i credenti. San Gregorio papa, nel Secondo Libro dei Dialoghi interamente dedicato al cammino spirituale di san Benedetto, ci descrive una significativa esperienza mistica che egli vive sul finire della sua vita. Dopo essersi intrattenuto in un colloquio spirituale con l’abate di un monastero vicino, Servando, e dopo aver un poco riposato, Benedetto si alza per pregare e mentre sta vegliando ha una visione: «Vide che una luce diffusa dall’alto aveva messo in fuga le tenebre della notte. Il suo splendore era tale che, pur brillando in mezzo all’oscurità, superava la stessa luce del giorno. Mentre stava così in contemplazione, accadde una cosa davvero meravigliosa, come egli stesso in seguito raccontò. Il mondo intero, come raccolto in un unico raggio di sole, fu posto davanti ai suoi occhi».
Quello che Benedetto contempla è un mondo “altro”, ma nel tempo stesso è sempre il medesimo mondo, che però ora viene unificato, tutto raccolto in un unico raggio di sole. Noi sperimentiamo la nostra storia personale, la storia nella quale siamo immersi, la storia più ampia degli uomini, come frantumata, dispersa, disarmonica, divisa. Benedetto ha invece uno sguardo che riconduce ogni dispersione e ogni frantumazione verso una riconciliazione e una unificazione. Il suo è uno sguardo riconciliato e dunque pacificato. Peraltro, nei Dialoghi Gregorio precisa che tutto questo accade non perché il mondo si fosse rimpicciolito, ma perché il cuore di Benedetto si era dilatato. Noi siamo sempre tentati di ricondurre la realtà alla nostra misura; Benedetto vive la dinamica opposta: il suo cuore, la sua vita vengono dilatati alla misura smisurata di Dio e del suo sguardo, e dunque anche alla misura di un mondo altro, secondo la visione di Dio e il suo desiderio. La realtà nella quale dimoriamo è complessa, spesso frantumata, dispersa, addirittura conflittuale. Non abbiamo molti strumenti per cambiarla, spesso dobbiamo accettarla nella sua complessità, senza pretendere o rischiare di ridurla ingenuamente o indebitamente. È il nostro cuore a dover trovare quell’unità che ci consenta di abitare la complessità della storia, come pure quella dei nostri molteplici impegni apostolici o ecclesiali, senza patire una frantumazione o una dispersione interiore, ma cercando quell’unificazione da cui può poi scaturire uno sguardo trasfigurato. Una unificazione che non è riduzione monistica, appiattimento, negazione delle differenze e della complessità, ma è appunto capacità di tenere insieme, senza esclusione o dispersione.
Il vaso spezzato e riunificato
Faccio ora una seconda osservazione, insistendo ancora sulla lettura dei Dialoghi. La visione di cui ho parlato viene collocata da papa Gregorio alla fine della vita di Benedetto. È utile ricordare brevemente che cosa sempre papa Gregorio collochi all’origine della vicenda di Benedetto, in particolare all’inizio della sua conversione e della sua scelta contemplativa, solitaria, monastica. Papa Gregorio narra che la sua nutrice, che era rimasta con lui anche dopo l’abbandono degli studi a Roma, chiede in prestito uno strumento di coccio per vagliare il grano, che però accidentalmente cade e si rompe in due pezzi. Allora Benedetto, avuta compassione delle lacrime della donna, prega e miracolosamente il vaglio viene trovato sanato, «senza un minimo segno d’incrinatura», precisa Gregorio. L’episodio appare ai nostri occhi banale, persino insignificante. Perché tante lacrime per uno strumento di coccio rotto, probabilmente di non grande valore, e perché pregare e invocare da Dio il prodigio di riaverlo integro?
Agli occhi di san Gregorio Magno, e per la sua sensibilità, l’episodio, per quanto semplice e domestico, assume un grande valore simbolico. Infatti, attraverso l’immagine metaforica del vaglio rotto, egli intende mostrarci come Benedetto torni a unificare ciò che era diviso. A rendere uno ciò che si era spezzato in due. In questo semplice gesto per Gregorio si nasconde e si rivela tutto il significato della sua esperienza monastica: una vita che tende a unificare ciò che spesso sperimentiamo come diviso, separato, disarmonico, addirittura frantumato. E ciò che va unificato non è certo un vaglio di coccio, ma il nostro cuore, la nostra vita, la nostra persona. Per Gregorio il monaco non è tanto colui che vive monos, da solo, ma colui che si impegna, nella grazia dello Spirito Santo, a rendere una, unificata, la propria vita. Per Gregorio l’uomo è monaco in quanto è vir unus, uomo unificato, uomo da un solo cuore, uomo da un’unica vita, semplice e non doppia, secondo l’ideale della monotropia dei padri greci. Vir unus quia amore singularis, dirà la Tradizione – «uomo uno perché capace di un solo amore» – giacché è soltanto il primato dell’amore, il non anteporre nulla all’amore di Cristo, che conduce a questa unificazione del cuore e a questa semplicità della vita, per la quale l’uomo è monos e non più disperso, e in questo modo genera relazione e comunione attorno a sé.
C’è dunque una sorta di inclusione, nei Dialoghi, tra l’inizio della vita monastica di Benedetto a Subiaco, e il suo compiersi, poco prima della morte, a Montecassino, nella visione della cella che ho all’inizio ricordato, con un animo dilatato, ma anche unificato, che diviene capace di contemplare il mondo raccolto in un unico raggio di luce. L’inizio e la conclusione ci mostrano come la via dell’unificazione non è tanto una via di semplificazione, ma di dilatazione, che consente uno sguardo unificato non perché riduca o soffochi le differenze, ma perché capace di tenerle insieme, nella loro complessità, diversità, facendole dialogare e ricomponendole nell’unità del cuore, che però deve dilatarsi alla loro misura, senza ridurle alla propria. (continua)
DOM LUCA FALLICA