Fallica Luca
Come vivere il passaggio da una riva all’altra
2024/7, p. 1
«C’è una resa che ci chiede disponibilità ad abbandonare, una resistenza che esige discernimento su ciò che deve essere salvato, pur attraverso una necessaria trasformazione». «Resistenza e resa»: parte da questo binomio la preziosa relazione di dom Luca Fallica, abate ordinario di Montecassino, che presenteremo in questo numero e nei prossimi, rammaricandoci di essere stati costretti a fare alcune limature. Quarant’anni – tanti sono quelli del cammino dei Convegni dell’Area della formazione della Vita consacrata a Collevalenza – segnano evidentemente un valore simbolico che può essere sintetizzato nel celebre binomio che ha dato il titolo alla raccolta delle lettere e di altri scritti di Dietrich Bonhoeffer durante la sua prigionia.

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Come vivere il passaggio
da una riva all’altra
«C’è una resa che ci chiede disponibilità ad abbandonare, una resistenza che esige discernimento su ciò che deve essere salvato, pur attraverso una necessaria trasformazione». «Resistenza e resa»: parte da questo binomio la preziosa relazione di dom Luca Fallica, abate ordinario di Montecassino, che presenteremo in questo numero e nei prossimi, rammaricandoci di essere stati costretti a fare alcune limature. Quarant’anni – tanti sono quelli del cammino dei Convegni dell’Area della formazione della Vita consacrata a Collevalenza – segnano evidentemente un valore simbolico che può essere sintetizzato nel celebre binomio che ha dato il titolo alla raccolta delle lettere e di altri scritti di Dietrich Bonhoeffer durante la sua prigionia.
L’imperativo del discernimento
«Resistenza e resa»: come ben sappiamo nel titolo di questo convegno risuona il celebre binomio scelto per la raccolta delle lettere e di altri scritti di Dietrich Bonhoeffer durante la sua detenzione. L’espressione è dello stesso Bonhoeffer, che nella lettera del 21 febbraio 1944 a Eberhard Bethge si domanda: «Qui mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino”» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, edd. Ch. Gremmels, E. Bethge e R. Bethge in collaborazione con I. Tödt, Queriniana, Brescia 2002 [= Opere di D. Bonhoeffer, vol. 8, p. 312]). È evidente che lo scritto di Bonheffer pone un problema di discernimento, non soltanto in ordine a come esercitare in modo sapiente e prudente la resistenza e la resa, entrambe definite necessarie, ma anche per riconoscere, proprio attraverso la resistenza e la resa da vivere in relazione a ciò che lui definisce “destino”, il rivelarsi di Dio e del suo agire. «Dio non si incontra solo nel Tu, ma anche camuffato nell’“Esso”, ed il mio problema in sostanza è come in questo “Esso” (“destino”) possiamo trovare il “Tu” o, in altre parole, come dal “destino” nasca effettivamente la “guida”».
È questa anche per noi una sfida per l’oggi: come, facendo memoria di questi quarant’anni, possiamo riconoscere la presenza di Dio e della sua guida e come, grazie a questa memoria capace di discernimento sapiente, riusciamo a scorgere un orientamento nel tempo presente che guardi con profezia al futuro.
La cifra storica dei quarant’anni assume un evidente valore simbolico nella luce di Deuteronomio 8,2. È ancora un esercizio di discernimento da vivere, nella consapevolezza tuttavia che il suo primo soggetto e attore è Dio stesso: è lui a condurre il suo popolo nella prova del deserto per sapere quello che aveva nel cuore. Tento allora, con questo intervento, di consentire alla parola di Dio di discernere ciò che viene chiesto ai religiosi e alle religiose oggi in questo tempo di trasformazione, nel quale siamo chiamati a esercitare una resistenza senza rigidità e una resa senza rassegnazione.
I quarant’anni vissuti da Israele nel deserto si collocano peraltro tra due passaggi delle acque: quelle del Mar Rosso, sotto la guida di Mosè, come ci narra il libro dell’Esodo, e quelle del Giordano, sotto la guida di Giosuè, come ci narra il libro che porta il suo nome nel titolo. Due passaggi che creano, secondo una dinamica che potremmo definire battesimale, Israele come popolo di Dio, legato a lui dal vincolo dell’alleanza. Due passaggi simili, analoghi, ma dei quali possiamo cogliere una differenza significativa. Il passaggio delle acque del Mar Rosso rappresenta la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, quello del Giordano l’ingresso nella terra promessa. C’è dunque un uscire da e un entrare in, che occorre tenere presente: ogni passaggio all’altra riva comporta l’abbandono o addirittura la liberazione da quanto in passato può averci condizionato, se non addirittura incatenato, e l’ingresso in una realtà nuova, spesso ancora da scoprire e da conoscere in tutta la sua complessità, o anche solo novità. Potremmo anche dire che si tratta di vivere non solo una libertà da, ma una libertà per.
Rovesciando la prospettiva, dobbiamo avere la consapevolezza che non possiamo portare tutto sull’altra riva; qualcosa dobbiamo abbandonare, c’è qualcosa di cui dobbiamo liberarci. C’è una resa che ci chiede disponibilità ad abbandonare, una resistenza che esige discernimento su ciò che deve essere salvato, pur attraverso una necessaria trasformazione.
Attraversare la tempesta
Su questo tema di un “passaggio all’altra riva” troviamo altre immagini suggestive nel Nuovo Testamento. Il passaggio all’altra riva comporta spesso, nei Vangeli, l’attraversamento di una tempesta. Avviene su una piccola barca, nella quale a volte i discepoli sono soli, senza Gesù, altre volte Gesù c’è, ma dorme; una barca che ben presto viene minacciata dall’infuriare del vento, dal montare delle onde, dallo scatenarsi della tempesta. Si tratta di un evidente simbolo ecclesiale: la comunità cristiana, con tutte le sue debolezze e fragilità, deve comunque frangere i flutti della storia per giungere all’altra riva, per vivere il passaggio che la storia di tanto in tanto richiede di compiere. Non si può sempre rimanere fermi, ben ancorati alla riva, occorre saper traghettare all’altra sponda. Ora, scorrendo velocemente il Nuovo Testamento, ci sono tre modi nei quali questa traversata viene narrata. Tre modi diversi, non alternativi, che vanno comunque compresi e integrati nelle loro differenze. Un solo modello non basta a rendere conto di come vivere questa traversata.
Il primo modello è quello più consolante, o meno arduo da vivere. Ce lo narra Marco al capitolo quarto, a conclusione del capitolo sulle parabole che narrano del mistero del Regno nella luce del seme che a volte sembra dormire, improduttivo, nella terra, e invece sta lavorando e sprigionando la sua potenza vitale. Come il seme nel terreno, così Gesù dorme sulla barca, che viene assalita dalla grande tempesta. Allora i discepoli, terrorizzati, lo risvegliano con le loro grida e i loro rimproveri: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Gesù si desta, minaccia il vento e dice al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessa e c’è grande bonaccia. Poi dice ai discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». I discepoli sono presi da grande timore e si dicono l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,38-41; cf. par. in Mt 8, 18.23-27 e Lc 8,22-25).
Gesù mette a tacere il vento, si fa bonaccia, ma prima ancora placa la paura dei discepoli. Il pericolo più insidioso non è fuori, nella tempesta, ma dentro, nel cuore dei discepoli, nella loro paura, frutto di incredulità. A volte il Signore dorme, Dio tace, non ci sono risposte; bisogna attendere, senza affrettare o forzare la risposta, senza colmare il vuoto con una falsa tesi, ma dominando la paura con la fiducia di un affidamento (una resa?) nella fede. È in forza di questa resa che si resiste all’infuriare dell’uragano.
È interessante osservare come Giovanni rilegge l’episodio. Al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, il quarto evangelista inserisce una scena analoga a quella che leggiamo nella tradizione sinottica, anche se in questo caso il riferimento più preciso è ad altri due passi: Mt 14,22-23 e Mc 6,45-52. Sono tutte scene che si collocano dopo il segno dei pani. Gesù rimane sul monte a pregare, i discepoli devono attraversare senza di lui il lago e la tempesta torna a minacciarli. In Marco, Gesù li raggiunge camminando sul mare, sale sulla barca e subito il vento cessa e la barca può proseguire la sua traversata. La stessa cosa accade in Matteo, che però inserisce in questo contesto la richiesta di Pietro di camminare anche lui sulle acque. In Giovanni, invece, c’è una diversità che non deve passare inosservata: «Dopo aver remato per circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Sono io, non abbiate paura!”. Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti» (Gv 6,19-21).
Da notare la differenza: qui cade ogni accenno a che il vento cessi o che la tempesta si plachi. Giovanni non dice nulla: narra solamente che subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti. Tutto nel suo racconto pare alludere al fatto che la tempesta non cessa, rimane, continua la minaccia del vento e delle onde, ma nonostante tutto la barca è in grado di attraversare il pericolo e di giungere dove doveva arrivare. Ecco un secondo modello di passaggio, non alternativo, ma diverso, e comunque integrabile con il primo modello. Se la paura viene vinta, non è necessario che la tempesta si plachi, la si può comunque attraversare.
C’è però un terzo modello, che ci viene proposto dagli Atti degli Apostoli, ed è il naufragio di Paolo, in viaggio verso Roma (per questa lettura di Atti 27, e per il relativo commento di Balthasar, sono in debito con Stella Morra, dell’Università Gregoriana, e all’intervento da lei tenuto al Convegno CIM-CIMB del maggio 2019. La sua relazione, intitolata Nel segno di un naufragio: criteri teologici per vivere nel trapasso, è al momento inedita).
Siamo al capitolo 27 degli Atti, un racconto molto lungo. È illuminante il commento del grande teologo H.U. von Balthasar, collocato proprio a conclusione della sua grande sintesi teologica; così infatti si chiude il VII volume di Gloria dedicato al Nuovo patto.: «Può accadere talvolta che le compagini delle istituzioni temporali si allentino; esse sono veramente temporali, il tempo le divora e le logora, molte cose arrugginiscono, marciscono, devono essere sostituite; addentellati in apparenza solidi si staccano, lasciano intravedere la luce o anche il buio. Gli Atti degli apostoli si concludono con un naufragio raccontato in modo diffuso e quasi divertito: il naufragio della nave di Paolo. Luca è perfettamente cosciente del simbolismo del suo racconto. La nave viene afferrata dal vento marino “e, non potendo più resistere al vento, abbandonati in sua balia, andavamo alla deriva” (At 27,15). La nave viene prima fasciata con le gomene, poi si butta in mare il carico, infine i marinai smontano l'attrezzatura e la gettano anch’essa in acqua (27,17ss.). “Ogni speranza di salvarci sembrava ormai perduta”. Paolo ha in sogno un avvertimento da trasmettere: “Non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi ma solo della nave”. Infatti, questa si schianta, la prua si incaglia in una secca e la poppa si sfascia sotto la violenza delle onde. Chi sa nuotare si tuffa, gli altri si salvano su tavole o in spalla ai nuotatori (27,41-44). La situazione è esattamente escatologica: la struttura come forma esterna va in frantumi, ci si può salvare solo guadagnando terra sui rottami... “Salvaci, Signore, siamo perduti!”, gridavano anche i discepoli nella barca di Pietro (Mt 8,25). L'uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia - «cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa» (Mt 7,24s.) - è l’uomo che ha confidato sulla roccia che è Cristo. Egli troverà la tavola di salvezza che lo porterà a riva, e questa saranno forse le spalle di uno che sa nuotare» (H. U. von Balthasar, Gloria. Vol. VII. Nuovo Patto, Jaca Book, Milano 1977, p. 483 ss.).
La promessa di Dio è che «non ci sarà alcuna perdita di vite umane in mezzo a voi, ma solo della nave». La vita umana non è perduta, viene salvata, ma questo può esigere il coraggio di accettare che qualcosa vada perduto, che non tutto venga salvato. Occorre la sapienza per discernere che cosa sia necessario buttare a mare. Non sempre la situazione è quella descritta dai Vangeli, con la barca che raggiunge incolume l’altra riva. Accade alla barca di fare naufragio e allora occorre capire come salvare ciò che è essenziale, affinché nessuna vita vada perduta. Avere il coraggio di vivere il passaggio, compiere la traversata, ci chiede anche questo: «la struttura come forma esterna va in frantumi, ci si può salvare solo guadagnando terra sui rottami». L’uomo saggio «troverà la tavola di salvezza che lo porterà a riva, e questa saranno forse le spalle di uno che sa nuotare».
Non dobbiamo confondere la barca con la riva. Occorre vivere il passaggio per arrivare all’altra sponda, accettando che la barca possa fare naufragio e all’altra riva giungiamo con queste tavole di salvezza, neppure con delle scialuppe, ma solo con queste tavole, e a volte senza neppure queste tavole, poiché ciò a cui possiamo aggrapparci sono solo le spalle di un fratello, di una sorella, cioè la qualità delle nostre relazioni fraterne.
DOM LUCA FALLICA