Centolanza Chiara Grazia
Marmo pregiato nelle mani dello Scultore
2024/7, p. 31
Alcune considerazioni sull’accompagnamento vocazionale.

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Testimoni
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GIOVANI
Marmo pregiato nelle mani dello Scultore
Alcune considerazioni sull’accompagnamento vocazionale
Sono sempre grandi la meraviglia, lo stupore e la gratitudine nell’accogliere i giovani che ci avvicinano con una domanda di senso, col desiderio, inespresso alle volte ma autentico, di spendere la vita per il Signore e per gli altri, con una domanda di felicità. Una domanda che alla fine è quella stessa del nostro cuore, del cuore dell’uomo, di ogni uomo.
Riscontriamo da qualche anno a questa parte l’abbassarsi dell’età di coloro che partecipano ai ritiri che proponiamo durante l’anno, come pure l’aumentare della richiesta di soggiornare da noi per tempi di silenzio, per confrontarsi con qualche sorella. Diversi poi chiedono di essere accompagnati seriamente nel discernimento vocazionale, iniziando cammini reali e profondi di conoscenza di sé e di conversione al Vangelo, che durano nel tempo e che perdurano anche quando si è abbracciato uno stato di vita: quell’amicizia di cui parla Gesù nel Vangelo (cf. Gv 15, 12ss) e che è il mistero della Chiesa.
Con tanta gratitudine allo Spirito, vediamo il risvegliarsi di un desiderio di radicalità, di donazione al Signore per i fratelli, di comunione e di fraternità. Il monastero diventa così un luogo in cui nascono tra i giovani rapporti duraturi, che proseguono oltre i tempi del ritiro e che cerchiamo di incoraggiare, perché si sostengano reciprocamente nel cammino della vita e nella fede. E cosa per nulla scontata, contempliamo il miracolo di giovani che si affidano, che cercano guide con cui camminare, con cui crescere, di cui fidarsi, a fronte molte volte di storie personali di solitudine e di abbandono educativo da parte dei famigliari. Cuori feriti, ma ancora capaci e desiderosi di seguire, di fidarsi, di affidarsi, di sperimentare sulla propria pelle quanto sia bello il Vangelo, affascinati da Gesù e il suo Vangelo. Alle volte così digiuni di terminologia clericale, di catechismo, da restare sorpresi dalla bellezza dell’annuncio gioioso dell’amore di Dio da parte di una comunità claustrale.
Le cose di lassù nelle cose di quaggiù
Se è vero che il mondo è in un continuo e velocissimo cambiamento (basti pensare che quando sono entrata in monastero, circa trent’anni fa, il cellulare era limitato a pochissime persone e ancora c’erano in uso nelle strade le cabine coi telefoni pubblici!), d’altra parte il cuore dell’uomo è lo stesso: è il cuore di Adamo e di Eva, di Abramo, di Pietro, Giovanni, Andrea, e ancora di Francesco e Chiara d’Assisi, e finalmente è il cuore di Gesù.
Mi ritorna in cuore un apoftegma di un padre del deserto, che amo particolarmente, Poimén: un giorno si reca da lui un famoso anacoreta, molto amato e stimato. L’anziano lo accoglie con gioia, ma quando lo straniero comincia a parlare di cose spirituali e della Scrittura, si volta e non gli dà alcuna risposta. L’anacoreta se ne va allora deluso. Il fratello che lo aveva condotto da Poimén chiede all’anziano il motivo del suo comportamento e l’anziano risponde: «Egli parla di cose celesti; io invece sono di quaggiù e parlo di cose terrene. Se mi avesse parlato delle passioni dell’anima, gli avrei risposto. Ma le cose spirituali, queste io non le so». Chiaramente è una risposta paradossale e l’anacoreta comprende e, «preso da compunzione, rientrò dall’anziano e gli chiese: “Che cosa devo fare, padre? Perché sono dominato dalle passioni dell’anima”. L’anziano lo guardò con gioia e gli disse: “Adesso sei venuto nel modo giusto: apri la tua bocca su questi argomenti e io la riempirò di beni”» (Poimén, 8).
Cosa voglio dire con questo? La fatica che tutti noi sperimentiamo e che anche le giovani sperimentano all’inizio del cammino di sequela di Gesù, fatica o tentazione o semplicemente fraintendimento: che cioè per seguire il Signore sia necessario abdicare alla propria umanità per salire a vette superiori, che anzi sia indispensabile sbarazzarsi della propria umanità fragile e bisognosa per vivere una spiritualità, che però non è cristiana. Il movimento del nostro Dio è un movimento di discesa, di abbassamento: è Lui che viene a noi, è Lui sempre nell’atto di venire, di abbassarsi per innalzarci a Sé. La via che Egli ha scelto di percorrere è quella della nostra umanità. Uno scoglio dunque importante da oltrepassare per una giovane è l’accettazione grata della propria umanità, l’accoglienza di essere bisognosa; l’accoglienza della propria carne, della propria storia quale luogo di rivelazione divina. Insomma, non c’è Spirito, lo Spirito del Padre e del Figlio, senza l’umanità di Gesù e senza anche la sua umanità. Allora normalmente la giovane è quasi destabilizzata dall’incontro col monastero: forse vi giungeva sperando che non avrebbe più avuto a che fare con i propri bisogni, con la propria umanità, con la fame di amore e di riconoscimento di cui siamo impastati noi esseri umani; che finalmente si sarebbe sbarazzata degli istinti sessuali o dello spirito di competizione; che si sarebbe dedicata esclusivamente alle cose dello spirito. Ed ecco che al contrario si tratta di consegnare tutto di noi, di lasciare che lo Spirito prenda tutto, perché lo trasformi in Gesù. Si tratta di lavare i piatti e di cucinare, di fare il bucato e di cantare la liturgia, di lavorare con le proprie mani e di studiare, di stare in silenzio e di mangiare, di giocare e di riposare, e di compiere tutto questo con le sorelle; si tratta semplicemente di vivere e di comprendere un po’ alla volta che questa vita di santa unità e altissima povertà è luogo di rivelazione teologale. Che cioè Cristo è nascosto nelle piccolissime cose di cui è fatta la nostra vita umana e che occorre imparare un gusto nuovo, per cui le cose di sempre acquistano un sapore eucaristico, cosicché la vita cristiana e l’unione col Signore non si misurino tanto sulle ore di preghiera che eventualmente scelgo io di fare, ma su come stendo i panni, su come spazzo i pavimenti, su come scelgo ciò che la vita mi dona, vi obbedisco e aderisco. Perché è davvero necessario scegliere ciò che sono, ciò che mi è accaduto, ciò che accade ora, scegliere la Chiesa, la comunità così come sono, scegliere la realtà per quello che è: sono quel campo in cui è nascosto il tesoro evangelico. E se voglio il tesoro, occorre comprare il campo!
Si apre a questo punto la possibilità liberante di lasciarsi stupire dalla gratuità del buon Dio: che in prima battuta non ci sceglie perché siamo bravi o per farci fare qualcosa. In fondo, un altro inganno assai frequente è considerare e fare della vocazione un luogo di prestazione dei talenti, un progetto per esibire le proprie capacità, più che per servire, pensare di dover meritare l’amore del Signore, pensare alla chiamata e alla relazione con Lui in termini merocratici, di crediti e debiti secondo la logica del mondo. Invece è tutto gratis! Che fatica però accettarlo! Che fatica lasciarsi raggiungere dalla Misericordia del Padre, che non ci chiede se non di accogliere il suo amore perché si possa riversare sul mondo intero! Che fatica lasciarsi stupire dalla semplice e incredibile verità che il buon Dio vuole la nostra gioia, vuole parteciparci la sua stessa gioia!
Passare così dalla logica mondana del merito a quella eucaristica della gratitudine e della restituzione, è un cammino di umiltà e di povertà.
Dalla terra germoglierà la creatura nuova
Significativo che Bonaventura nell’opuscolo La perfezione evangelica premetta alla sua esposizione dei consigli evangelici un capitolo sull’umiltà. Dice: «Nessuno giunge a una piena conoscenza di Dio se non mediante una conoscenza di sé retta e verace; e non conosce rettamente se stesso chi non considera la propria nullità». Pensiamo a Paolo quando afferma che Dio ha scelto ciò che è stolto, ciò che è debole, ignobile e disprezzato, quello che è nulla (1Cor 1, 27-28), oppure quando mette in guardia i Galati: «Se uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso» (Gal 6,3). Non si tratta del sentirsi inadeguati, della bassa stima di sé, ma di riconoscere semplicemente di essere stati tratti dal nulla e che se non fossimo ogni giorno scelti dal buon Dio per sua sola grazia e misericordia, piomberemmo immediatamente nel nulla. Mentre noi viviamo e vivremo per sempre, perché così Egli vuole! Questa verità dovrebbe riempirci di gioia, di libertà e di umiltà.
Un tale cammino di conoscenza umile di sé non può che essere pensato sulla persona, col suo carattere e la sua storia. Allora certamente ci sono delle linee comuni che proponiamo per tutte le giovani che iniziano a camminare con noi, però tempi e modi sono in certo modo modellati su ciascuna. E infine è la nostra stessa forma di vita il percorso che proponiamo in ogni tappa della formazione: la vita monastica non ha apostolati a cui iniziare le giovani, è semplicemente una vita e le giovani vi entrano gradualmente, assumendone a poco a poco la forma; meglio riconoscendo progressivamente lungo i giorni se questa forma corrisponde al loro cuore e quindi assecondandola.
Chiara d’Assisi utilizza un’espressione molto efficace nel suo Testamento alle sorelle: «Riconosci la tua vocazione!», Agnosce, cioè non tanto conoscere la propria vocazione quasi con un atto esclusivamente intellettuale, quanto ri-conoscere nel senso di constatare, assecondare, confessare. Il verbo indica in certo modo la necessità di scoprire il legame profondo tra la forma di vita che si vuole professare e la propria persona, la propria umanità. Ri -conoscere è scoprire la propria corrispondenza alla forma, e stando all’italiano, conoscere sempre nuovamente e più in profondità. È far emergere dalla nostra persona la forma di Gesù, il nostro autentico io. Penso all’opera dello scultore come Bonaventura la tratteggia: lo scultore non fa qualcosa; la sua opera in realtà è una ablatio, cioè un eliminare, un portar via, un togliere ciò che è inautentico perché emerga la nobilis forma, la figura preziosa. Anche il grande Michelangelo concepiva così la sua arte di scultore: riportare alla luce, rimettere in libertà l’immagine nascosta nel marmo, la quale attende che sia portato via quanto ancora di inutile la ricopre. Lo scultore è Dio, che vuole liberarci da tutte le scorie che oscurano il tesoro che ci inabita, che è la sua stessa vita divina; e lo fa attraverso i colpi del suo scalpello che sono gli accadimenti della vita, facendo emergere così dal blocco di pietra l’autentico volto della nostra persona, che Egli già intravede.
È decisivo allora che ci lasciamo purificare da tutto ciò che è inautentico in noi e che oscura l’immagine divina in cui siamo stati scolpiti, di cui siamo in verità impastati, la nostra vera e profonda natura. Si tratta di divenire ciò che già siamo, donati a noi stessi.
SR. CHIARA GRAZIA CENTOLANZA
Sorelle povere di S. Chiara
Monastero SS. Trinità, Gubbio