SPAZIO A DOMANDE DI VITA
2024/7, p. 18
I Capitoli sono in grado di dare spazio alle domande che nascono dalla vita?
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Testimoni
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VITA CONSACRATA NEL TEMPO
Spazio a domande di vita
I Capitoli sono in grado di dare spazio alle domande che nascono dalla vita?
Con il termine «vita», qui si intende ciò che oggi pulsa negli avvenimenti del mondo e nelle aspirazioni delle persone. Vale a dire che il credere di oggi è esso stesso parte della tradizione, creatore di nuove tradizioni e di nuovi approfondimenti, per il fatto – è detto nella Gaudium et spes n. 11 – che in questi, ci sono i «vera signa praesentiae vel consilii Dei».
Da qui la domanda: perché la vita religiosa, attraverso i suoi organi di indirizzo e di governo, quali sono i Capitoli, non è stata in grado, specie dal Concilio in poi, di dare nuove espressioni alla creatività carismatica che pure è nel patrimonio genetico di ogni istituto, tanto da ritrovarsi oggi con una «forma vitae» che corre il rischio d’essere consegnata alla storia senza essere negata?
Una risposta sta nell’aver creduto che «un Capitolo si misurasse dalle dichiarazioni anziché dai processi che riusciva a mettere in atto», portandosi ad essere, volenti o no, luoghi convenzionali, ricchi di «saputo», di dichiarazioni altisonanti, o di «messa a norma». È per questo – disse il teologo Bruno Secondin – che «i Capitoli di questi ultimi sessant’anni danno l’impressione di essere stati un gioco di specchi che rimandano sempre la stessa figura».
Sta di fatto che per un vetusto sistema istituzionale è ardua impresa cedere il passo a nuovi modelli, anche perché il palato dei religiosi/e si è progressivamente «abituato al gusto del vino vecchio», che li porta a «conservare il carisma come in una bottiglia di acqua distillata, anziché – disse il papa – farlo fruttificare, mettendolo a confronto con la realtà presente, con le culture, con la storia».
Vie da intraprendere
Quando le forze in campo sono poche, sbagliare strada diventa fatale.
Uno dei meriti del Concilio è di aver dato l’avvio a un processo di distacco da vecchi modelli di pensiero, e di aver fatto emergere i nuovi punti di vista che hanno portato alla rilevante svolta non solo teologica ma anche sociologica e antropologica, aspetti che la vita religiosa non ha sufficientemente fatti suoi.
Un modo di cambiare strada, per papa Francesco, sta nel passare dall’«occupare spazi» all’«inaugurare processi», vale a dire a ricercare una identità progrediente, creativa, resa possibile dall’abbandonare le vie già frequentate, per avventurarsi su vie sconosciute, che facciano capire che oggi l’annuncio evangelico non passa da quelle istituzioni che sono mosse dalla custodia del sistema organizzativo spesso riconducibile a logiche aziendali che portano ad essere sempre più funzionali alle opere (spazi), portando così la preoccupazione istituzionale a spostarsi inevitabilmente dal ben-essere umano-spirituale del religioso/a, al buon andamento dell’attività. Ne consegue che la generatività non è data dal moltiplicare l’occupazione di quegli «spazi» che hanno portato la vita religiosa al punto critico in cui oggi si trova.
Un’altra indicazione di cambio di strada sta nel fatto – dice il papa – che la vita religiosa oggi «non è una condizione a parte propria di una categoria di cristiani, ma punto di riferimento per tutti i battezzati […] per cui il religioso è esemplare non perché il suo stato di vita sia più ammirevole di qualunque altro stato di vita cristiana, ma perché nella sua esistenza può emergere più chiaramente, e in modo più diretto, quello che è il senso di ogni vita cristiana».
Da qui l’invito ai religiosi/e di passare dal che cosa serve a sé, chiusi in sistemi di vita clerico-conventuali, a che cosa apporta alla vita di ogni credente.
Per far presente l’insufficienza di cambiamento nella Chiesa, il papa ha applicato ad essa il motto gattopardesco «cambiare tutto per non cambiare niente», intendendo dire che il cambiamento all’interno dei gruppi tendenti a conservare immutata la propria situazione, le proprie norme e i propri modi di vita, sono in grado di realizzare soltanto quelle innovazioni che li aiutano a risolvere retrospettivamente i problemi che di volta in volta incontrano.
Ma oggi è il cristianesimo stesso che chiede di non rimanere una retrospettiva, perché – scrive il fondatore della Comunità di s. Egidio, Andrea Riccardi – «la sua storia non fa che cominciare. Infatti, tutto quello che ora chiamiamo storia del cristianesimo non è che l'insieme dei tentativi di realizzarlo».
Realismo e consapevolezza
Di quali consapevolezze dovrebbero essere portatori i capitolari?
La prima consapevolezza dovrebbe essere di trovarsi in una cultura «altra» da quella da cui hanno preso l’avvio le forme vigenti di vita religiosa; «altri» quei tempi di spiccato ascetismo in cui l’individuo poteva trovare in questo un’appagante risposta di senso. Da qui il prendere atto dell’esaurimento di un ciclo della storia, per cui tornare alle parole e alle realizzazioni degli inizi di un carisma, di per sé non è garanzia di arrivare al cuore del carisma stesso, perché – come disse A. Einstein – «è follia immaginare di ottenere risultati diversi, mettendo all’opera sempre le stesse cose».
Al Capitolo servono dunque persone con idee che portino a fare esperienza di un pensiero innovativo, capace di aprire varchi di visioni inedite, quali «segni» rivelatori della vivacità di quello Spirito che porta a nuove incarnazioni e nuove sintesi; gente che sappia vedere quante sono ancora le strutture non comunicative, centralistiche e gerarchiche che pongono la vita religiosa in un contrasto del tutto inutile con la cultura giuridica moderna; gente, ancora, che sappia di trovarsi in un’epoca che ci sta portando a lasciare il posto a una nuova figura di uomo. È papa Francesco a dire «che l’uomo si sta interpretando in maniera differente dal passato», per cui «mi aspetto – sono sue parole – che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano». Invito che sottende il coraggio di avventurarsi su strade sconosciute, senza lasciarsi tentare da una vita fatta di consuetudini e formule ormai infruttuosamente ripetitive, dal pensiero chiuso, rigido, istruttivo-ascetico». Si tratta perciò di far crescere la consapevolezza che la trasmissione della tradizione non è ripetizione, bensì continua reinterpretazione, essendo state nel frattempo elaborate nuove, molteplici forme di esperienza evangelica, nate, anche, dal saper rispondere a quelle domande cui la vita religiosa, soddisfatta del suo arcaico repertorio, non ha dato ascolto.
È tempo allora di essere «annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria attraverso forme organizzative semplici, non aziendali, poco pesanti e aperte», segnate non da univocità, ma molteplicità di modelli di comunione, «in grado di far fronte al sorgere di una certa melanconia collettiva che si manifesta con sintomi di insoddisfazione, stanchezza, evasioni, delusioni».
Infine, serve al Capitolo, gente che abbia chiara la differenza tra il camminare che porta ad un «oltre», e il camminare su un tapis-roulant.
Scelte evangeliche, umanamente significative
Nei progetti d’avvenire dei giovani quali attenzioni prevalgono?
Già da molto tempo si constata che difficilmente i giovani si consacrano per tener vivo il passato: d'altronde è quello che hanno fatto i Fondatori. Si tratta allora di prendere atto – come disse papa Francesco – che «la vita carismatica della Chiesa, invece di esaurirsi trovi costantemente nuove forme».
Per quelli che delle nuove generazioni pensano a un cammino discepolare, l’identità del singolo non è data dal configurarsi all’istituto, per il fatto che la dimensione istituzionale, per la sua anacronistica fissità non attira più. Oggi, le evidenze evangeliche, che tali si definiscono dal mostrare quanto sia viva l’azione dello Spirito Santo, interessano più dei riconoscimenti giuridici e storici; scelte che per essere evangelicamente efficaci, devono nel contempo essere «umanamente significative», perché oggi non si può parlare di salvezza in termini cristiani senza avere davanti agli occhi la salvezza di tutto l’uomo: ossia non ci si impegna più verso un codice, una regola scritta o un sistema caratterizzato da scambi formali, specie se difesi dalla maschera del ruolo (superiore-suddito), sono invece per appartenenze che bandiscano ogni dottrinarismo e che non considerino la legge più importante dell’uomo concreto.
I giovani per di più non amano quella fedeltà che finisce per essere identificata con la conformità: attitudine questa, in genere particolarmente premiata dall’istituzione.
Alla domanda rivolta a una cinquantina di giovani, circa l’idea che si erano fatta della vita religiosa, essi risposero dicendo che questa è da loro percepita come una vita troppo artificiale (artefatta), per essere trasparenza del dire e fare di Cristo; una vita che porta a preoccuparsi prevalentemente del proprio orto, e così invece di prendersi cura, «i religiosi finiscono spesso con il curarsi». Inoltre sentono i religiosi come persone prese dalla prestazione di tanti servizi, tanto da non avere più il tempo di vedere cosa sia possibile fare sulla linea del Vangelo. Persone sul versante del clericalismo anziché sul versante della laicità come lo era Cristo.
Alla domanda poi, circa che cosa i giovani suggerirebbero ai religiosi/e per ricuperare la freschezza evangelica di questa forma di vita, risposero con l’augurare loro di diventare più espressamente una comunità di «annunciatori», a preferenza di una comunità di «consumatori di beni spirituali» (salvarsi l’anima), per il fatto che talvolta questo consumo interno «diventa così importante da non far sentire più il freddo di coloro che stanno lungo la strada».
Infine, i/le giovani affermarono di voler dire ai religiosi/e: «mostrateci che cosa e chi vi rende felici e noi vi seguiremo», e questo per dire che la vita discepolare non va vista come un dovere, ma come desiderio: solo allora vale la pena di essere accolta.
Dunque, la scelta di appartenenza ad una data forma di vita da discepoli oggi non proviene primariamente da distillate argomentazioni teologiche ma piuttosto da esperienze concrete di vita bella, secondo il sogno di Cristo.
Ne consegue che nel nuovo eco-sistema spirituale sopravviveranno solo realtà più liquide, decentrate e meno strutturate, che non aggreghino le persone tramite le sole regole e i vincoli giuridici, ma con la trasparente forza del messaggio del carisma.
In conclusione: «la vita carismatica, per non esaurirsi, deve trovare costantemente nuove forme d’essere vissuta», per cui a suo fondamento non sono sufficienti i «per sempre» (in perpetuum) detti all’inizio del cammino, perché la verità della vita evangelica non è data in pienezza una volta per tutte, ma va continuamente rigenerata alla luce delle nuove domande che via-via la storia presenta: è da queste che siamo chiamati a dire a Cristo: «ti amo anche oggi»; cioè «non per sempre, ma ogni giorno, per tutti i giorni»: questo è ciò che nutre l’amore.
RINO COZZA csj