Morgante Patrizia
UNA VITA CONSACRATA STANCA
2024/7, p. 13
Il trasloco, tra le fonti di stress, è secondo solo al lutto. Io sono nel mezzo di un cambio di casa e di vita, direi: è uno spostamento geografico ma anche esistenziale. Una nuova casa, un altro stile e ritmo di vita, un riadattamento completo. Mentre mi preparo al passaggio, sento che non ho casa né qui né lì. È come se mi trovassi in una soglia dove non appartengo a nessun luogo, dove non posso fare ed essere casa da nessuna parte. Mi sento provvisoria. Abito una situazione di incertezza a molti livelli. Lascio il conosciuto per andare verso qualcosa di bello ma anche di imprevisto.

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ZOOM SULLA VITA CONSACRATA
Una vita consacrata stanca
Il trasloco, tra le fonti di stress, è secondo solo al lutto. Io sono nel mezzo di un cambio di casa e di vita, direi: è uno spostamento geografico ma anche esistenziale. Una nuova casa, un altro stile e ritmo di vita, un riadattamento completo. Mentre mi preparo al passaggio, sento che non ho casa né qui né lì. È come se mi trovassi in una soglia dove non appartengo a nessun luogo, dove non posso fare ed essere casa da nessuna parte. Mi sento provvisoria. Abito una situazione di incertezza a molti livelli. Lascio il conosciuto per andare verso qualcosa di bello ma anche di imprevisto.
Questa premessa vuole dimostrare che, trasloco o meno, noi viviamo sempre più spesso situazioni di transitorietà e incertezza, dove i punti di riferimento cambiano a una velocità, spesso, incompatibile con la capacità umana di adattarsi.
Sovente mi chiedo: di quali risorse interne ho bisogno per abitare questo tempo senza consumarmi? Di quali competenze emotive ho bisogno per vivere il cambiamento in modo sano?
La stanchezza nella vita consacrata
«Perché siamo così stanchi? La stanchezza è diventata un fenomeno a sé, sembra esserci una pandemia della stanchezza. Quella strana stanchezza che abbiamo e che non finisce con il nostro lavoro ci accompagna anche nel tempo libero. È possibile riprendersi dalla stanchezza del lavoro ma non dalla stanchezza che deriva dall’ansia da prestazione». (Byung-Chul Han)
Le fonti di stress sono notevolmente aumentate anche nella vita consacrata. Viviamo una complessità interna ed esterna agli istituti che richiede competenze alle quali non siamo state formate.
La maggior parte dei membri della vita consacrata in Italia è cresciuta ed è stata formata in un paradigma lineare, prevedibile e determinista. Sapersi adattare a un paradigma liquido, fluido, complesso, ambiguo, imprevedibile e mutevole richiede un consumo di energie fisiche, cognitive ed affettive superiori al passato. Siamo costantemente vulnerabili verso il cambiamento.
Alla luce di questo, siamo maggiormente esposte a sperimentare lo stress, in forme più o meno acute. Come ci insegna la psicologia, un livello basso di stress e in un tempo finito, funziona da stimolo all’azione, ci sprona ad attivarci. Quando lo stress diventa cronico, gli effetti sulla salute e sulla qualità delle nostre relazioni sono evidenti. Siamo in uno stato cronico di tensione e allerta: come se non potessimo più rilassarci, lasciar andare il controllo e allentare la presa sulla vita.
Vi ricordate la storia della rana che, dentro un contenitore di acqua che diventa sempre più calda, muore perché non si accorge del cambiamento di temperatura?
Ci stiamo abituando a essere tese, irritabili e sempre all’erta.
Questo incide profondamente sulla vita in comunità: si fa più fatica a essere pazienti, gentili, compassionevoli con noi stesse e con le altre persone.
Quando lo stress supera la nostra capacità di percepirlo e gestirlo si può arrivare a una situazione di burn-out.
L’Organizzazione Mondiale della Salute definisce il burn-out come «una sindrome concettualizzata come conseguenza dello stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo».
È caratterizzato da tre stati:
sentimenti di esaurimento o esaurimento energetico;
maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, o sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro;
ridotta efficacia professionale.
Abbiamo mai provato sensazioni simili nella nostra missione? Alcune sorelle mi raccontano che, in situazioni di forte stress, provano un senso di nausea o conati di vomito all’avvicinarsi alla fonte della fatica. Il corpo lo ascoltiamo poco, ma ci manda dei messaggi importanti per invitarci a cambiare qualcosa che, nella nostra vita, non gioca a favore di un benessere integrale.
Ascoltiamo la stanchezza: ha un messaggio per noi
Mi sono domandata: quali possono essere le cause alla base della stanchezza che, sovente, percepisco nelle comunità religiose?
Condivido alcuni punti, invitando lettrici e lettori a completare il quadro:
La complessità della nostra realtà: sono aumentati gli elementi che incidono a generare la realtà; abbiamo bisogno di avere uno sguardo che sappia abitare la complessità senza volerla semplificare per comprenderla. Saper abitare la complessità, ci richiede di lasciar andare l’idea che possiamo vedere tutto con un unico sguardo, accettare di avere punti ciechi che non ci permettono una visione completa. Per questo motivo sta sempre più emergendo l’«inter»: abbiamo bisogno degli altri e delle altre per disegnare un quadro completo, seppur temporaneo. Parliamo di intergenerazionalità, interculturalità, intercongregazionalità.
Le vocazioni sono sostanzialmente diminuite, pertanto è minore la capacità delle congregazioni di mantenere le proprie opere e missioni. Questo genera un carico di lavoro enorme sulle risorse più giovani e ancora attive. Anche quando alcune opere si chiudono o si affidano al laicato, rimane la responsabilità o il dolore non elaborato di assistere a una riduzione della presenza carismatica, soprattutto nei luoghi storici della congregazione.
La cura delle anziane e delle giovani è abbastanza sviluppata negli istituti. Trovo che sia presente poca attenzione nei confronti della generazione di mezzo, la generazione «sandwich» che porta, sulle proprie spalle, il peso e il carico maggiore. È la generazione che deve trovare soluzioni per le sorelle più anziane e accompagnare la formazione di quelle più giovani. Come ci occupiamo di loro? È in questa generazione che, con più frequenza, si sviluppa il burn out o dipendenze, più o meno importanti.
L’attivismo che vive la vita consacrata all’interno di una società sempre più performativa: per gestire tutto il carico di lavoro ci si dimentica del riposo e della domenica; si tralasciano anche gli spazi di silenzio, contemplazione e preghiera. La vita consacrata, che si adegua al ritmo efficientista e funzionale della società liberista, rischia di non generare quel cambiamento delle relazioni tra le persone che è il sogno di Dio: amatevi come Io vi ho amati; ama il prossimo come ami te stessa/o. Esiste il rischio che le congregazioni assorbano la mentalità profit delle imprese perdendo la capacità di generare sogni e inspirare le persone?
Le frasi che mi sento dire più sovente sono: «Non ho tempo! Vorrei fare tante cose ma la giornata è solo di 24 ore! Mi riprometto di non lavorare di notte o la domenica, ma poi non ci riesco. Con questi nuovi mezzi siamo reperibili 7 giorni/24 ore».
«La pazienza ha tutto il tempo di questo mondo; l’impazienza non ha tempo. L’impazienza è l’incapacità di sopportare la transitorietà di qualsiasi situazione.La pazienza ottiene la vittoria sul tempo ed è un riflesso dell’eternità, perché non ha paura di perdere tempo». (Jürgen Moltmann)
È necessario educarci di nuovo al ritmo del respiro. Dico «di nuovo» perché è il movimento più naturale quello dell’ispirazione e dell’espirazione, eppure ne abbiamo fatto un automatismo inconsapevole. Spesso blocchiamo la respirazione e siamo in apnea, vivendo in uno stato di ansia cronico. Per nutrire il benessere dobbiamo educarci a un ritmo che rispetti il corpo, la mente e l’anima.
Spiritualità e stress
Se vogliamo prevenire malesseri, più o meno gravi, è necessario organizzare la propria vita e quella della comunità tenendo presenti tutti i bisogni di una persona umana.
Richiamo qui la famosa «Piramide di Maslow» che elenca i bisogni fondamentali di un essere umano in una gerarchia che va da quelli essenziali (cibo, acqua, riparo, sesso) a quelli legati alla realizzazione di sé: per un benessere integrato e integrale è bene prendersi cura di tutti e organizzare la nostra esistenza perché ci sia spazio per ciascuno di essi.
I bisogni, secondo Abraham Harold Maslow, sono:
bisogni fisiologici
bisogni di sicurezza
bisogni di appartenenza
bisogni di stima
bisogni di autorealizzazione
bisogni estetici.
A questa lista, io aggiungerei il bisogno di spiritualità. Dedicare spazi e tempi alla nostra anima è fondamentale: non solo per recitare preghiere che conosciamo a memoria, ma per entrare in un silenzio di relazione col mistero che ci rende spazi fecondi per generare vita e amore.
La nostra responsabilità è fare un check-up periodico su quali dei bisogni stiamo trascurando e per quale motivo. Sarebbe ideale avere come una dieta dei bisogni periodica, dove rileviamo ciò che facciamo per prenderci cura di ciascun aspetto della nostra vita.
Andare al cinema o a teatro, ascoltare un concerto di musica classica nutre quella dimensione poetica e metafisica che rende gli esseri umani più della somma delle loro parti. Dedicarci a degli hobby nutre la parte giocosa e bambina di noi, che è spinta a fare le cose per gioco e piacere, fini a se stesse e non per produrre qualcosa o raggiungere degli obiettivi.
La stanchezza delle leader
Un’ultima osservazione la vorrei dedicare alle leader delle congregazioni, nel loro ruolo di gestire tante situazioni nuove e complesse, che genera una forma nuova di «fatigue dell’autorità». Alle leader è richiesto anche di accompagnare le situazioni di stress e difficoltà delle proprie sorelle: dove trovano la competenza e l’energia necessaria per nutrire la forza per gestire tutto questo senza sentirsi schiacciate?
È sempre più frequente il ricorso a figure esterne come counsellor, facilitatrici e consulenti che possano aiutare il processo senza invadere spazi che non gli sono propri.
Mi domando se, talvolta, mettiamo un peso troppo grande sulle spalle delle persone, e di noi stesse.
PATRIZIA MORGANTE