Montaldi Gianluca
IL «CREDO» A 1700 ANNI DAL CONCILIO DI NICEA
2024/7, p. 3
Una delle occasioni per l’indizione del prossimo anno giubilare è il credo niceno-costantinopolitano che, pur avendo origine orientale, può essere recitato all’interno della celebrazione eucaristica anche del rito latino. Nella sua forma fnale, esso venne condiviso durante il concilio Costantinopolitano I nel 381; tuttavia, trae origine sostanzialmente dalle discussioni avvenute durante il concilio di Nicea nel 325.

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UNA COMUNITÀ CONFESSANTE
Il «credo» a 1700 anni dal concilio di Nicea
Una delle occasioni per l’indizione del prossimo anno giubilare è il credo niceno-costantinopolitano che, pur avendo origine orientale, può essere recitato all’interno della celebrazione eucaristica anche del rito latino. Nella sua forma finale, esso venne condiviso durante il concilio Costantinopolitano I nel 381; tuttavia, trae origine sostanzialmente dalle discussioni avvenute durante il concilio di Nicea nel 325.
Il prossimo giubileo oltre al tema della speranza che ne caratterizza il motivo di fondo, diventa per forza anche celebrazione dei 1700 anni di promulgazione della prima stesura di questo testo, che per la sua diffusione interconfessionale fa parte del patrimonio storico e tradizionale delle maggiori comunità cristiane, tanto che Benedetto XVI, nell’anno santo della fede (2013), decise di farne il simbolo di riferimento per il cammino giubilare di tutta la chiesa cattolica. Oltre tutto, il prossimo anno oriente ed occidente potranno ancora una volta confessare insieme questa identica fede durante la veglia di Pasqua che cadrà finalmente nella stessa domenica. È quindi più di una motivazione che spinge anche la nostra rivista a ripercorrere alcuni spunti storici e teologici legati a questo testo e a proporre alcune riflessioni per offrire materiale di formazione.
Vi sono tuttavia alcune considerazioni preliminari che è importante tenere presenti per chi lo vuole apprezzare fino in fondo e che potrebbero anche aiutare le comunità cattoliche a vivere in maniera più adeguata la sua recita durante le celebrazioni eucaristiche. Non senza motivo pastorale, infatti, alcune comunità lo sostituiscono con altre formulazioni simboliche, come il rinnovo delle promesse battesimali: è oggettivamente un testo difficile e spesso lontano dalla nostra mentalità e dal nostro linguaggio. Mi pare, invece, difficilmente accettabile che il momento della confessione della fede venga «semplicemente» saltato a piè pari, invece di cercare soluzioni alternative. Tale momento, infatti, ha una importanza fondamentale, dal punto di vista della liturgia e della celebrazione, e metterlo per così dire nel cassetto non risolve il problema, ma anzi lo aggrava. È vero certamente che celebrare è già confessare una fede condivisa, appunto una fede comune; il rito latino lo ha ben presente proprio nell’acclamazione che segue direttamente le parole dell’eucologia eucaristica. L’offerta del pane e del vino e la preghiera di consacrazione sui doni, infatti, sono già da soli un annuncio della morte e della risurrezione di Gesù Cristo «in attesa» della sua venuta. Eppure, a me pare che solo anche un’esplicitazione sistematica e celebrata del dato di fede permette di assicurare che l’evento della salvezza sia organicamente vissuto ad ogni livello dell’esistenza umana: quello del cuore – con la gestualità rituale – e quello della mente – con la espressività delle parole: «verbis gestisque intrinsece inter se connexis» (DV 4).
La chiesa «in statu confessionis»
Del resto, la vita credente, che prende avvio e viene ritualizzata nelle celebrazioni sacramentali, non può letteralmente fare a meno della potenzialità dell’atto confessante. Vorrei ricordare solamente due spunti per farne intuire il nesso. Al di là degli abusi che si sono avuti nel campo dell’utilizzo delle reliquie, per esempio, tra i centri celebrativi che sono segno della presenza del Risorto nella comunità riunita in preghiera, vi è l’altare e un aspetto importante (anche se non costitutivo) dell’altare è il riferimento ad una reliquia di qualche martire, cioè di un testimone, cioè di una persona che con la sua vita ha confessato la fede in Gesù. Mi pare uno dei modi architettonici per assicurare un legame tra annuncio di fede e celebrazione della stessa e per evitare di tenerli su piani separati. Il secondo spunto è, invece, più storico: dopo l’ascesa al potere di A. Hitler, le chiese cristiane si sono trovate a decidere da che parte stare. I Deutsche Christen hanno proposto di accogliere come realizzazione messianica del regno di Dio il Reich tedesco; altri li seguiranno. Non li seguiranno, invece, quei gruppi minoritari e oppressi che si incontrarono nella formulazione di uno dei principali testi che sono poi stati alla base della ricchezza dei tentativi di riformulazione della fede a partire dal XX secolo: la Dichiarazione di Barmen. Torneremo su questo testo, ma le comunità che vi si rifacevano sono ricordate sotto il nome comune di «Chiesa Confessante». In quel testo, infatti, di fronte alla tentazione costituita dalla connessione tra potere statuale, potere militare, potere nazionale e potere ideologico, hanno confessato la priorità della parola di Dio nei confronti di qualsiasi altra autorità. Non nego che anche in questo atteggiamento possano sussistere derive fondamentaliste e assolutiste, ma solo nell’ipotesi che qualcuno o qualcosa venga messo al posto di Dio. La confessione di fede dovrebbe essere monito che va proprio contro tale sostituzione e questo ha un valore infinitamente più grande del desiderio di non stancare la comunità che celebra. Tanto più che la confessione di fede è prescritta subito dopo l’omelia, nella quale – (ab)sit iniuria verbo – le parole a volte spesso non solo si configurano come perdita di tempo, ma anche come nascondimento della Parola.
Si tratta, cioè, di tornare a quel solenne ed esplicito momento nel quale il popolo di Dio si mette a nudo e si affida (io credo/noi crediamo) alla grazia che lo ha convocato, come al Sinai (cf. Dt 27), come di fronte ai gesti di Gesù (cf. Mc 10,52), come di fronte alla morte in croce (cf. Mt 27,54). Invece di fuggire alla responsabilità comune di questo momento, le comunità dovrebbero impegnarsi in un serio processo di formazione ed esigere di farlo. Questo processo è avvenuto parzialmente per quanto riguarda la cura e l’attenzione alla parola di Dio e alla sua proclamazione ed attuazione; mi pare che siamo invece restati fermi – o forse siamo andati molto più lentamente – per quanto riguarda l’accettazione di tale Parola, l’atto di fede e la sua confessione. L’imposizione di un pur utile strumento, come il Catechismo della Chiesa Cattolica, che si propone anche come commento al credo niceno-costantinopolitano, non ha affatto aiutato ad incarnarlo nel vissuto di ogni singola chiesa locale, ma ha suggerito piuttosto che le singole comunità ne scaricassero su altri l’impegno formativo.
Le caratteristiche interne
In realtà, un primo insegnamento in senso contrario viene dal simbolo o, meglio, dalla sua stessa struttura interna. Infatti, in esso troviamo il tentativo di mettere in dialogo l’unica verità rivelata e celebrata, cioè la persona di Gesù come mediatore del Padre, con le verità ideali e sociali del contesto nel quale viene elaborato. In particolare, il confronto con la razionalità greca e con quella del mondo orientale e mediterraneo riesce a trovare sintesi che portano a superare lo stretto dettato biblico (con l’introduzione di parole non presenti nella tradizione della Scrittura Sacra) e a dare una soluzione alle tensioni che l’incontro con il mistero di Dio – mai sufficientemente chiarito – comporta. Si tratta di un tentativo nel senso pieno, ovvero del tentativo della comunità di fede di prendere responsabilità per il tesoro che le viene affidato perché venga annunciata la salvezza e venga sufficientemente compresa.
È prima di tutto questo tipo di sforzo, che si presenta come opera ermeneutica, a caratterizzare questo testo come esemplare. Ovviamente anche le soluzioni adottate rimangono come primo anello di una catena interpretativa che mantiene il legame storico e ideale tra la chiesa contemporanea e quella primitiva. Eppure, non possono essere unicamente prese come modello insuperabile: il cammino ecumenico e quello teologico ne hanno mostrato nello stesso tempo la fecondità e il carattere contestuale. Del resto, se possiamo e dobbiamo applicare i metodi storico-critici e un’ermeneutica demitizzante alla Sacra Scrittura, una simile operazione non può essere negata nemmeno per il contenuto del simbolo.
GIANLUCA MONTALDI