Resistenza e resa in Madre Speranza di Gesù
2024/6, p. 1
Quando, quarant’anni fa, nel 1983, l’Area della formazione della Vita consacrata dava inizio a quelli che sarebbero diventati i tradizionali Convegni di Collevalenza, Madre Speranza, beatificata da Papa Francesco il 31 maggio 2014, concludeva la sua missione terrena. In queste pagine Marina Berardi della Congregazione dell’Amore Misericordioso di Collevalenza e Notaio della sua causa di beatificazione, ne ripercorre l’itinerario spirituale.
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Resistenza e resa in Madre Speranza di Gesù
Quando, quarant’anni fa, nel 1983, l’Area della formazione della Vita consacrata dava inizio a quelli che sarebbero diventati i tradizionali Convegni di Collevalenza, Madre Speranza, beatificata da Papa Francesco il 31 maggio 2014, concludeva la sua missione terrena. In queste pagine Marina Berardi della Congregazione dell’Amore Misericordioso di Collevalenza e Notaio della sua causa di beatificazione, ne ripercorre l’itinerario spirituale. Una storia e una vita di fede – letta come lotta e dono di sé, come «resistenza» e «resa» – che può ispirare e illuminare anche il cammino della vita consacrata. Nata nel 1893, a Santomera (Spagna), Madre Speranza, al secolo María Josefa Alhama Valera, all’età di nove anni va a vivere a casa del parroco per offrire piccoli servizi, dove, provvidenzialmente impara a leggere e a scrivere. Nel 1914 parte per farsi religiosa ed entra tra le Figlie del Calvario di Villena, che dopo qualche anno si annetterà alle Missionarie Claretiane. Su ispirazione divina, esce per fondare una Famiglia religiosa, le Ancelle (Madrid 1930) e i Figli (Roma 1951) dell’Amore Misericordioso. A partire dal 1951, per ispirazione divina, Madre Speranza inizia la realizzazione del grande complesso di Collevalenza, destinato a divenire meta di numerosissimi pellegrini.
«Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere
in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova,
per sapere quello che avevi nel cuore,
se tu avresti osservato o no i suoi comandi»
(Deuteronomio 8,2).
Mi accingo a condividere con voi alcune semplici riflessioni, senza la pretesa di presentare la figura di Madre Speranza così come meriterebbe. Personalmente non l’ho conosciuta, ma l’ho «incontrata» vivendo a contatto con tanti testimoni oculari, attraverso i suoi scritti, e, non ultimo, nel servizio di notaio in occasione della Causa di Canonizzazione, iniziata a cinque anni dalla sua morte.
Desidero far parlare lei e la sua vita che ci svela ciò in cui ha creduto, dove fosse il suo cuore, quale tesoro andasse cercando, quale sia stata la fatica di assumere i criteri di Dio, le sue resistenze e le sue rese appunto.
Direi, innanzitutto, che Madre Speranza si è sentita inserita nella storia di un Dio che le ha insegnato a camminare tenendola per mano, che l’ha attirata a Sé con legami di bontà e con vincoli d’amore, desideroso di tracciare con lei una storia sacra. Questa certezza l’ha portata a leggere ogni evento alla luce di un progetto più grande e di un piano di salvezza a favore di tutti gli uomini.
Un cammino che ha coinvolto, in primis, due persone: lei, la creatura, e Dio, il suo Creatore. Un cammino per alcuni versi inconsueto perché costellato da doni straordinari elargiti da Dio stesso, come le estasi, le bilocazioni, le stigmate e la partecipazione alla Passione di Cristo. Tutto questo non ha annullato in Madre Speranza la fatica del passo dopo passo, l’incertezza, i timori, le resistenze nel vivere una storia che ora la portava su un sentiero pianeggiante ora su una «salita ripida, molto ripida», come lei era solita ripetere.
Nel lontano novembre 1927, nella prima data del suo Diario, Madre Speranza scrive che Dio si vuole rivelare per ciò che veramente è: «Mi sono “distratta”, ossia, ho trascorso parte della notte fuori di me e molto unita al buon Gesù. Lui mi diceva che devo riuscire a farlo conoscere agli uomini non come un Padre offeso dalle ingratitudini dei suoi figli, ma come un Padre amorevole, che cerca in ogni maniera di confortare, aiutare e rendere felici i suoi figli e li segue e cerca con amore instancabile, come se non potesse essere felice senza di loro. Quanto mi ha impressionato questo, padre mio!» (Diario, El Pan 18, 2).
Dio non smette di stupirla ed è lei per prima a fare esperienza della profonda tenerezza di questo «Padre buono e tenera Madre», come annoterà più avanti. È certa che ogni circostanza che il Signore permette nella vita, come incomprensioni, calunnie, sofferenze, è «per ricavarne un bene più grande» e questo le ha dato forza e coraggio per intraprendere un cammino arduo e per attraversare anche il travaglio umano.
Andando alla ricerca dell’etimologia della parola «resa» ci si accorge che essa racchiude in sé diversi significati; provo a rivisitarne alcuni alla luce della vita di Madre Speranza.
Resa, innanzitutto, indica l’arrendersi, la consegna di se stessi nelle mani di un altro e, per chi abbraccia la vita religiosa, la A è maiuscola. Ripenso a quando Madre Speranza ha compreso la sua vocazione e, il 15 ottobre 1914, è entrata tra le Figlie del Calvario «per diventare una grande santa come Teresa d’Avila», dopo aver ricevuto la benedizione della mamma malata che le chiedeva di aspettare. Al momento di emettere i voti perpetui mostra però una forte «resistenza», tanto da dire al vescovo di voler uscire, visto che in quella comunità non ha trovato l’amore. Questi, in modo geniale ed ispirato, le offre la metafora della scopa, davanti alla quale Madre Speranza si arrende: «Manifestai [al Vescovo] quello che provavo ed egli mi rispose: “Madre, non pensi più di essere una persona, immagini di essere una scopa; si presenta una consorella dai modi delicati, fine e ordinata, pulisce il salone o altro e poi la ripone delicatamente al suo posto. Viene un’altra brusca, disordinata e poco delicata, si serve di essa e poi l’abbandona in un angolo. La scopa non si lamenta, non protesta e in silenzio lascia che la utilizzino per una cosa o per l’altra, la trattino più o meno delicatamente. Tu, allo stesso modo, devi pensare di essere una scopa, per cui non devi offenderti se una ti dice, l’altra ti fa... no, ma sarai sempre disposta a tutto, come una scopa che mai si lamenta”».
«Da quel tempo», annota Madre Speranza, «posso assicurarvi che ho cercato sempre di servire da scopa e tutti i giorni chiedo al Signore di darmi un grande amore, un desiderio forte e costante di santificarmi e che, come la scopa, mi lascino di qua o di là, mi trattino in un modo o in un altro, non serva ad altro che a spazzare e a raccogliere l’immondizia. Tutti i giorni dico: Signore, fa’ di me quello che vuoi, non permettere che mai ti dia un dispiacere e il mio cuore sia sempre fisso in te e che i miei figli e le mie figlie, tutti, ti diano quanto chiedi loro» (Esortazioni, El Pan 21, 722-723).
La consegna nelle mani del suo Dio passa per la consegna, la resa, davanti agli eventi ma anche nelle mani delle consorelle, in spirito di servizio, mossa dal desiderio di non resistere al piano che Dio ha su di lei.
Di fatto l’Istituto è ormai in via di estinzione e, di lì a pochi anni, sarà annesso a quello delle Missionarie Claretiane da dove, dopo nove anni, Madre Speranza esce perché, già nel marzo 1929, comprende di essere chiamata a fondare una realtà nuova: una Famiglia religiosa.
MARINA BERARDI