Un testimone di fede e democrazia
2024/6, p. 46
Uno scritto sull'esperienza di Francesco Luigi Ferrari, intorno a tre parole-chiave: democrazia, Europa e fede.
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FRANCESCO LUIGI FERRARI
Un testimone di fede e democrazia
Uno scritto sull'esperienza di Francesco Luigi Ferrari, intorno a tre parole-chiave: democrazia, Europa e fede.
Ha ancora senso, a 91 anni dalla morte, ricordare la figura di Francesco Luigi Ferrari. Ed ha senso soprattutto adesso: mentre in Europa è tornata la guerra e le minacce nucleari sono all’ordine del giorno; mentre le nuove tecnologie ci aprono strade mai esplorate, con il portato di inevitabili speranze e timori; mentre la Terra appare segnata da un cambiamento climatico che non sappiamo quali conseguenze comporterà; e mentre tante altre sfide si infittiscono all’orizzonte, ci sembra davvero sensato ricordare la figura di Ferrari. I motivi sono tanti ma credo che, nei tempi che stiamo vivendo, possano essere riassunti in tre parole su cui il nostro centro culturale fonda da sempre la sua ricerca: democrazia, Europa, fede.
Fiducia nella democrazia
Credere nella democrazia, per un italiano del primo dopoguerra, non era affatto una cosa scontata. Il conflitto del 1915-1918 aveva lasciato un’Italia vincitrice ma a pezzi sotto tanti punti di vista: l’economia faticava a riprendersi, alle prese con le necessità della riconversione industriale e le spese della guerra; il tessuto sociale era completamente strappato con odi interclassisti che si moltiplicavano; l’Italia si sentiva «mutilata» dalle decisioni prese nella conferenza di pace di Versailles; i reduci di guerra non riuscivano a reinserirsi e vedevano svanire le promesse fatte ai tempi dei combattimenti in trincea. E, in tutto questo, la politica arrancava. Troppo divisi i partiti per creare percorsi di alleanza comuni, troppo fragili i governi. Lo «spettro» comunista, dopo la Rivoluzione russa, si aggirava con sempre più costanza nelle fabbriche e fra i ceti proletari. Infine, le violenze fasciste, l’inizio della dittatura di Mussolini e la necessità per Ferrari di prendere la strada dell’esilio, mentre le folle esultanti si stringevano per acclamare il «duce» sotto il balcone di Palazzo Venezia.
No, non era un bel periodo per essere democratici. E non lo era nemmeno all’interno della Chiesa: il Concilio era lontano e la democrazia, lungi dall’essere accolta e auspicata, era invece temuta da molti.
Proprio per tutti questi motivi appare ancora più significativa la scelta di Ferrari. Una scelta praticata nei territori, adoperandosi nell’attività sindacale per far radicare le organizzazioni cattoliche in tutta la provincia e in Consiglio Comunale a Modena. Poi, dopo l’appello ai «liberi e forti», sotto le insegne del Partito Popolare, dove si collocava a sinistra. Quella passione democratica lo portò ad essere prima bastonato dai socialisti e poi malmenato e perseguitato dai fascisti. Fino a quando, dopo l’assalto al suo studio e alla sua casa di Formigine, consigliato da alcuni amici, decise di lasciare l’Italia, l’8 novembre 1926.
L’esilio
L’esilio ci porta inevitabilmente alla seconda parola: Europa. E non solo per una questione fisica, legata alle città in cui Ferrari si trovò a vivere. Ma soprattutto perché l’impegno politico dell’avvocato modenese negli anni dell’esilio non accennò a diminuire. Nel 1928, insieme ad esponenti di altre aree culturali antifasciste, Ferrari creò il Comité Italien de Bruxelles, un centro di studi politici e sociali e da quell’esperienza nacque il settimanale «L’Observateur».
Dopo la firma dei Patti Lateranensi e la forzata uscita di scena di don Sturzo, Ferrari raccolse direttamente da lui la sua eredità, prendendo parte al Segretariato internazionale dei partiti democratici di ispirazione cristiana. Si trattava di un organismo di coordinamento fondato a Parigi dal sacerdote siciliano, allo scopo di creare una sorta di «internazionale popolare». Ad esso partecipavano rappresentanti di diversi Paesi europei, in un clima che si faceva, con il passare degli anni, sempre più pesante. Aumentavano le rivalità nazionalistiche e molti partiti cattolici viravano con decisione verso strade autoritarie. Ferrari mantenne con Sturzo una fitta corrispondenza e continuò a lavorare con grande determinazione, denunciando il pericolo che la diffusione dei fascismi rappresentava per tutta l’Europa. Nonostante la grande dedizione di Ferrari, il Segretariato si vide sempre più indebolito dalle spinte nazionalistiche e dall’atteggiamento sempre più accondiscendente verso i fascismi di una parte di questi partiti europei. Trasferitosi a Parigi nel 1932, Ferrari fondò e diresse «Res Pubblica», rivista bimestrale in cui riuscì a coinvolgere alcune importanti personalità dell’antifascismo democratico. Un altro progetto destinato però a durare poco, vista la morte che lo colse il 2 marzo 1933.
Per Ferrari l’Europa costituì un luogo di salvezza democratica, e non solo per l’accoglienza degli esuli antifascisti. Comprendendo i venti autoritari che soffiavano a inizio anni ’30, l’avvocato modenese insistette sulla necessità di portare almeno l’Internazionale «bianca» su posizioni condivise a proposito del disarmo, di approfondire la cultura comune popolare e di affrontare la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa. Tentativi destinati purtroppo a naufragare.
A guardare il percorso politico di Ferrari si resta stupiti dalla quantità di delusioni, di progetti falliti nonostante l’impegno e l’esattezza della proposta, facilmente leggibile a posteriori. Un democratico morto in esilio, probabilmente anche a causa dei postumi delle botte ricevute dai fascisti. È morto mentre il regime era al massimo della sua popolarità. Un credente che faceva politica «a causa della fede» – per citare Zaccagnini – e che si trovò ad affrontare l’allontanamento di Sturzo e il Concordato fra stato fascista e Vaticano, vissuto con grande sofferenza da tutti gli esuli popolari.
Pochi giorni dopo i Patti Lateranensi, Ferrari scrisse alla sorella Dolores e credo che proprio in quella lettera ci sia una chiave per capire il senso di una vicenda politica, riletta in chiave cristiana. «L’11 febbraio – si confida l’avvocato – ho provato uno dei più profondi dolori della mia vita. Soltanto perché il papà e la mamma nostri m’hanno dato una fede che supera gli uomini ed i tempi per affiggersi a Dio, una fede che permette di scernere la forma umana dalla sostanza divina, soltanto per questo sono riuscito a ritrovare d’un subito la tranquillità dello spirito nella preghiera e nella fiducia nella Provvidenza».
Il Vangelo è il libro dell’uomo
Lo sguardo di Ferrari va oltre le contingenze del momento e si ancora in una fede profonda che, seguendo il primato della coscienza, lo porta ad agire con coraggio. Come quando, nel 1923, dopo la richiesta di allontanamento di don Sturzo dal Ppi mandata da Mussolini al Vaticano, Ferrari capisce di essere l’unico con l’autorevolezza e l’ardire giusti per denunciare la cosa in pubblico, ben consapevole delle inevitabili conseguenze.
Siamo abituati a pesare l’azione politica sulla base dei risultati concreti, dei voti portati. È un elemento fondamentale, sicuramente. Ma il cristiano impegnato nelle vicende della storia deve portare con sé una dimensione che potremmo definire «profetica»: la sua condizione gli consente una libertà e uno sguardo che lo pongono su un piano diverso. Spesso si parla dei cristiani in politica oggi. Che fare? Dove andare? Come fare a pesare di più? Forse però quella che ci viene chiesta è proprio questa dimensione profetica, essere voci libere che parlano e agiscono con coraggio perché sciolti dalle costrizioni delle mode e delle ideologie del presente, dall’individualismo che ci impedisce di vedere e amare il prossimo.
Anche in questo sta la grandezza di Ferrari. Nella sua libertà di non rinunciare mai ai suoi valori, arrivando perfino a scrivere ai Parroci italiani, per chiedere di intervenire contro il fascismo. «Non vi si chiede – scriveva l’avvocato modenese nella lettera – di farvi centro di politiche cospirazioni o di porvi alla testa di bande armate, decise ad abbattere colla forza una dittatura. […] Altra cosa a voi si chiede, e si è in diritto di chiederla. Ammaestrate. V'è un libro che i partigiani della dittatura non amano: il Vangelo. […] Libro divino, il Vangelo è il libro dell'uomo. Apprendetene le massime ai giovinetti, e ne formerete i cittadini di domani».
Ecco allora perché riportare in primo piano l’esperienza di Francesco Luigi Ferrari. Non per farne un santino e nemmeno per una memorialistica sterile. Paolo VI scrisse che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni». Ferrari può davvero essere considerato un testimone di fede e democrazia, una radice solida ma ancora fertile da cui far crescere nuove stagioni di impegno politico.
FEDERICO COVILI