Savagnone Giuseppe
Siamo alle soglie della terza guerra mondiale?
2024/6, p. 42
«Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato, è reale, è già iniziata più di due anni fa: la cosa più preoccupante è che ogni scenario è possibile e che è la prima volta dal 1945 che ci troviamo in una situazione del genere».

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FOCUS SUL MONDO
Siamo alle soglie della terza guerra mondiale?
«Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato, è reale, è già iniziata più di due anni fa: la cosa più preoccupante è che ogni scenario è possibile e che è la prima volta dal 1945 che ci troviamo in una situazione del genere».
Lo ha detto qualche giorno fa il premier polacco Donald Tusk, in una intervista che ha avuto larghissima risonanza. Tusk, che è un personaggio politico di primo piano anche a livello internazionale – è stato presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019 –, era ben consapevole della gravità delle sue affermazioni: «So che sembra devastante, soprattutto per i più giovani» – ha riconosciuto –, «ma dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era, è l’era prebellica». Come ha fatto notare il premier polacco, era dal 1945, dalla fine della Seconda guerra mondiale, che non ci si trovava sull’orlo di un conflitto globale. In particolare, per quanto riguarda l’Europa – con la sola eccezione delle guerre, molto localizzate e circoscritte che avevano segnato la dissoluzione della ex Jugoslavia, alla fine del secolo scorso –, la pace non era mai stata veramente minacciata. Ma anche a livello mondiale, neppure nel periodo della «guerra fredda» essa era stata così gravemente in pericolo.
La guerra impossibile del tempo del nucleare
Non perché non ci fossero più motivi di contrasto – essi erano fortissimi, perché anche ideologici –, ma per il radicale cambiamento che l’introduzione delle armi nucleari aveva prodotto nella valutazione di una possibile guerra. Dopo Hiroshima e Nagasaki, essa non poteva più essere concepita solo come lo scontro tra due apparati militari, da cui uno dei due sarebbe uscito vittorioso. Ne avevano preso atto gli intellettuali. In un saggio del 1979, intitolato «Il problema della guerra e le vie della pace», Norberto Bobbio aveva concluso che ormai le potenzialità distruttive delle armi create dall’uomo aprivano inediti scenari di distruzione su scala planetaria, al punto da mettere a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana. La guerra termonucleare, a differenza delle altre passate, potrebbe non permettere una distinzione tra vincitori e vinti, accomunando tutti nella stessa catastrofe.
A questa pace fondata sul principio della «mutual assured destruction» (mutua distruzione assicurata) avevano aderito anche i due leader delle superpotenze mondiali di allora, Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, in un vertice bilaterale tenutosi a Ginevra il 21 novembre 1985: «Oggi riaffermiamo il principio che una guerra nucleare non può essere vinta e non deve essere combattuta». Così, di un conflitto atomico mondiale nessuno ha più parlato seriamente per un pezzo. Fino a oggi. Le parole di Tusk ci avvertono che esso è tornato a essere una prospettiva reale, a cui «dobbiamo abituarci mentalmente». Perché è chiaro che, se lo scontro coinvolgerà Stati dotati di armi nucleari, non ci si può illudere che esso possa essere limitato a quelle convenzionali. Non appena uno dei contendenti si trovasse in serie difficoltà su questo terreno, la tentazione di evitare la sconfitta ricorrendo ai suoi arsenali di missili a testata atomica sarebbe irresistibile. Tanto più che ormai questi arsenali non contengono solo armi nucleari «strategiche», dispositivi a lungo raggio – anche intercontinentali – progettati per attaccare direttamente il suolo nemico e distruggere città e infrastrutture, ma anche quelle «tattiche», pensate per un uso più circoscritto, sul campo di battaglia.
In realtà il ricorso di una delle due parti in guerra a queste ultime provocherebbe l’immediata risposta simmetrica dell’altra parte, aprendo la porta a una escalation di cui è facile prevedere fin da ora l’esito.
Illusioni e delusioni della crisi ucraina
Alla base di questa emergenza, impensabile tre anni fa, c’è la crisi ucraina. Una crisi che sembra mettere in discussione la salvezza dell’Europa e delle democrazie occidentali. È, insomma, questione di vita o di morte. Tusk l’ha detto chiaramente: «Dobbiamo spendere il più possibile per acquistare attrezzature e munizioni per l’Ucraina, perché (…) se non riusciremo a sostenere l’Ucraina con attrezzature e munizioni sufficienti, se l’Ucraina perderà, nessuno in Europa potrà sentirsi al sicuro».
È questa, del resto, la prospettiva in cui la Nato – l’Alleanza militare nata del dopoguerra per fronteggiare il Patto di Varsavia – aveva fin dall’inizio ritrovato le ragioni della propria esistenza, che erano sembrate venire meno con la caduta del muro di Berlino. Pur non facendo parte dell’Alleanza, l’Ucraina era apparsa solo un grande test della scommessa di Putin di ricostruire l’impero russo. Una scommessa a cui l’Occidente ha risposto mettendo in opera durissime sanzioni nei confronti di Mosca e fornendo ampia assistenza militare al governo di Kiev, nella convinzione che un ulteriore cedimento – dopo quello già verificatosi in occasione dell’annessione russa della Crimea – avrebbe avuto come solo effetto quello di incoraggiare la politica aggressiva del Cremlino. All’inizio l’andamento delle operazioni militari aveva fatto apparire la prospettiva di un successo a portata di mano. Ma queste ottimistiche previsioni si sono rivelate illusorie. Quanto alle sanzioni, l’economia russa le ha fronteggiate con un successo che nessuno si aspettava, anche grazie al fatto che Mosca ha continuato a godere dell’appoggio politico di molti paesi che non si sono riconosciuti nella linea della Nato e che l’hanno aiutata a colmare i vuoti creati dalla rottura dei rapporti commerciali con l’Occidente. Ma è soprattutto sul campo che lo scenario è progressivamente peggiorato. L’esercito russo, dopo una partenza disastrosa, si è riorganizzato e sta facendo inesorabilmente valere la sua superiorità numerica. Anche perché già da tempo, col fallimento della tanto attesa controffensiva preannunciata da Kiev per l’estate scorsa, il conflitto si è trasformato in una logorante guerra di posizione e, dopo la caotica ritirata dell’esercito ucraino da Avdiivka, il rischio di un suo cedimento appare ogni giorno più palpabile.
Ma bastano le armi?
Il presidente Zelensky ne ha addossato la responsabilità ai governi occidentali, accusandoli di non fornire all’Ucraina le armi necessarie. Ma, solo dal febbraio 2022 all’ottobre 2023, il Congresso degli Stati Uniti ha stanziato, a questo scopo, ben 113 miliardi di dollari. Senza contare il denaro e gli armamenti messi a disposizione, in questi due anni, dagli altri paesi della NATO. Altri aiuti importanti sono in arrivo. Proprio poche settimane fa un finanziamento di 50 miliardi di euro è stato approvato dall’Unione Europea. Ma non basta ancora. Il problema è che l’esercito ucraino attualmente non manca solo di armi, ma sempre più anche di forze fresche che lo reintegrino, dopo le ingenti perdite degli ultimi mesi. Da qui l’ipotesi, avanzata dal presidente francese Macron, che gli Stati membri della NATO inviino delle loro truppe a combattere contro i russi. Ipotesi unanimemente respinta, ufficialmente, ma che ha la sua forza nell’alternativa ammessa come indiscutibile da tutti i governi occidentali: vittoria dell’Ucraina o fine dell’Europa, anzi dello stesso mondo libero. Ma è alle armi che bisogna affidare le speranze di soluzione del conflitto? L’andamento della guerra sembra smentirlo per il passato e renderlo improbabilissimo per il futuro. È davvero impossibile trovare una via che da una parte non sia la resa all’imperialismo del dittatore russo, disposto a trattare, ma senza mettere in discussione le sue conquiste, dall’altra non coincida con la posizione di Zelensky, per cui di pace si potrà parlare solo dopo la schiacciante vittoria militare dell’Ucraina?
I margini di una trattativa
Da sempre i negoziati per fermare una guerra si avviano prima che essa sia stata vinta o persa da uno dei due. Di questa ovvia considerazione innanzi tutto la NATO dovrebbe prendere atto, invece di continuare ad appiattirsi sulla posizione del premier ucraino. Solo da qui si potrebbe partire per cercare di convincere sia quest’ultimo che Putin a sedersi a un tavolo per parlarsi. I margini per una trattativa non sono ampi, ma ci sono. È esplicita, da parte del premier russo, la pretesa – a cui non si può ovviamente cedere – di ricostituire l’impero dell’ex Unione sovietica. Ma non si può sottovalutare la sua preoccupazione per l’accerchiamento determinato dall’adesione alla NATO, in questi anni, di numerosi paesi ex comunisti, accerchiamento di cui l’Ucraina rischia di essere l’ultimo anello. Potrebbe essere oggetto di negoziato l’ipotesi di una neutralità che, almeno dal punto di vista militare, eviti alla Russia di trovarsi i missili della NATO ai propri confini anche su questo fronte. Quando, nel 1962, Kennedy si oppose con estrema durezza all’installazione di missili russi a Cuba, Kruscev comprese la necessità di fare un passo indietro. Poteva essere l’inizio della terza guerra mondiale, ma fu invece l’avvio di una progressiva distensione. Un altro problema su cui discutere potrebbe essere lo statuto del Donbass. Gli accordi di Minsk ne prevedevano una ampia autonomia, che in realtà il governo di Kiev non ha mai accordato. Dopo l’annessione russa tutto ora è più difficile. Ma uno statuto che, pur riconoscendo la sovranità ucraina, accordi loro i privilegi che, per esempio, spettano in Italia agli abitanti dell’Alto Adige, potrebbe interessare anche a loro. Si dirà che ogni tentativo di confronto con un despota cinico è follia. In questo c’è del vero. Ma non è follia anche andare incontro al rischio concreto di una catastrofe mondiale? Oggi si continua a ripetere che, se Putin non si ferma, di fronte a questa prospettiva, per amore della democrazia non possiamo farlo neppure noi. Ma davvero comportarci in modo opposto e simmetrico a un dittatore sanguinario è una linea degna delle nostre democrazie?
GIUSEPPE SAVAGNONE