Cozza Rino
Segni dei tempi e creatività profetica
2024/6, p. 16
Oggi occorre svestire la vita consacrata dell’immagine di una cultura non evolutiva.

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VITA CONSACRATA OGGI
Segni dei tempi
e creatività profetica
Oggi occorre svestire la vita consacrata dell’immagine di una cultura non evolutiva.
Un tempo non si pensava che la pura conservazione dell’esistente portasse all’estinzione, perché si riteneva che nella vita consacrata (VC), come nella Chiesa, tutto fosse perenne, pensandosi «senza macchia e senza ruga», e non una realtà «semper reformanda» come disse Giovanni XXIII nell’indire il Concilio.
Ad oltre mezzo secolo da quando queste parole furono pronunciate, ci ritroviamo, più fiaccati di allora, a chiederci come leggere l’oggi della VC e come rispondervi con creatività, difendendoci – come disse papa Francesco – «da quel male che ci proietta indietro verso le gesta gloriose ma passate che invece di suscitare la creatività profetica nata dai sogni dei fondatori cerca scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte».
Vittima del credere di possedere la verità
La vita religiosa, cedendo alla presunzione di possedere tutta la verità, è andata avanti nel tempo preferendo proclamare i motivi di ostentazione della sua immutabilità, senza accorgersi che strada facendo, ha fatto proprio un tipo di pensiero che fatica ad imparare qualcosa di nuovo, per cui ora si trova a rispondere alle nuove domande con il già saputo, non essendosi accorta di essere entrata in un periodo in cui le immagini di sé non tengono più. Ed è così che, chiusa nella sua gloria passata, oggi non si sente sfidata ad essere parte viva delle grandi trasformazioni della storia, continuando nel ritrovarsi bene nel pensare il mondo costruito su codici immutabili, e nell’ostentare i motivi della propria fissità piuttosto che la propria crescente precarietà.
Tutto ciò è dovuto al fatto che il futuro lo si riceveva totalmente in eredità da quel passato in cui tutto era in funzione della «conservazione» anziché dell’immaginazione. Ora invece siamo in un tempo in cui i processi vitali di significazione sono all’interno della storia corrente», da qui il ripetuto mandato del Papa ad «uscire», vale a dire ad «andare oltre», con occhi aperti sugli appelli della storia, diversi da quelli di ieri, con uno sguardo sul mondo che sappia soprattutto incrociarne le suppliche inespresse.
Dal paradigma statico a quello evolutivo
«Tutte le culture hanno il mito della perfezione iniziale di uno stato originario».
Veniamo dal tempo in cui si pensava che il paradigma d’interpretazione della realtà fosse quello «statico», per il quale la perfezione sarebbe agli inizi, e che il cambiamento non potesse essere che una degradazione.
Oggi però è intervenuto un profondo cambiamento nell’interpretazione dello sviluppo della realtà sia cosmica, sia biologica, psichica, e religiosa, per cui, dal «paradigma statico» della definizione della realtà si è passati al «paradigma evolutivo», secondo cui ogni inizio è imperfetto.
Nel nostro tempo, l’indicazione più interessante, ai fini di questa riflessione è l’affermazione molto chiara della Gaudium et spes, in cui si dice che «il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva». È ciò che si riscontra nella persona stessa, la quale per sua natura sta continuamente trasformandosi, ossia va acquisendo pian piano la sua identità, attraverso scambi continui e i rapporti che sta vivendo.
Nella prospettiva evolutiva, l’imperfezione fa parte della realtà dei dolori del parto, come scrive papa Francesco in «Laudato si’» (n. 80); fa parte del processo della realtà che da imperfetta sta andando verso la perfezione, ma questo richiede tempo. C’è dunque imperfezione perché la creatura umana non può cogliere compiutamente l’azione creativa nella sua perfezione, tutta in un solo istante, perché la creatura è tempo.
In conformità a questa interpretazione, la perfezione anche della VC, non sta all’inizio, ma va emergendo lungo la storia. È da acquisire, per cui, a livello umano, siamo chiamati a renderci conto di quali perfezioni oggi la forza creatrice – o possiamo dire la natura, la vita, la storia – ci vuole consegnare. Perciò è il processo evolutivo, il paradigma che dobbiamo utilizzare, comprendere e ampliare, perché il genere umano è passato da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva. Ne deriva quindi la necessità di imparare a discernere i «segni dei tempi» (Mt 162-3), essendo questi che suggeriscono indicazioni nuove per il cammino.
Consapevolezza necessaria che la «creazione» continua
La storia sta continuando il suo processo, per cui dobbiamo attenderci anche nella VC nuove forme di fraternità e di organizzazione sociale, a cui corrispondano delle qualità spirituali che ancora non sono sorte, ma che stanno sempre più sviluppandosi, con una diversa sensibilità verso le inquietudini dell’uomo post-moderno che è già tra noi, senza continuare testardamente – disse papa Francesco – a «cercare scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte».
Non interpella che le esperienze incuriosenti e appellanti di vita evangelica, da prima del Concilio in poi, sono quelle nate al di fuori di tutti i progetti e supposti strumenti di riforma (ad esempio i Capitoli) messi in atto dalla vita religiosa? Questo viene a dire che alla VC, oggi più che mai, servono interpreti dell’inventiva di Dio come lo furono al loro tempo i fondatori. Gli inizi di questi, ci raccontano di ricerca, di intuizioni, di audacie vissute da donne e da uomini che hanno avuto a cuore il sogno di Dio in un mondo nel quale i carismi istituzionalizzati andavano perdendo la freschezza del vangelo. Sulle orme di questi, gli istituti sono ora chiamati a «proteggere la propria libertà di nomadi», e non di stanziali.
Per essere «buona notizia»
«Il cristianesimo per essere buona notizia deve essere una religione uscita dalla religione». Questa espressione è del filosofo M. Gauchet, il quale parte dal ricordare che il cristianesimo è nato come presa di distanza dal sistema religioso giudaico, chiuso ideologicamente in se stesso, succube di rituali, di gerarchie, di organigrammi, che portavano a mettere in primo piano le esigenze istituzionali della Torà e del Tempio più che le aspirazioni delle persone.
Dunque il nodo di tutto il vangelo sta proprio nel fatto che Gesù ha spostato il «punto di incontro» con Dio, per metterlo nella «strada» cioè nel sacro della vita, nel centro dell’umano. È chiaro che con queste scelte Gesù intendeva aprire cammini di incontro con Dio che non coincidevano con l’abituale logica della religiosità, cercando di dare vita piena a coloro che ne erano privi. Per aver fatto questo è stato considerato come uno che dava scandalo, un pericolo e minaccia per il sistema, fino al punto che questo gli costò la persecuzione e la vita stessa.
Dunque, alla vita consacrata, per essere in qualche aspetto immagine di quella di Cristo, non basta la «religiosità» della vita, ma deve mostrare l’«evangelicità» di essa. La differenza è grande: è la stessa che passa tra forma e sostanza. Pertanto, per la VC oggi si tratta di imparare a distinguere tra la religiosità smascherata da Gesù, da quella che lui preferiva, che non significa sbarazzarsi della tradizionale religiosità nel quotidiano, ma anteporre alle stereotipate formule rutinarie, l’implorare della gente che tende a cogliere i sogni che aveva Cristo.
Potrebbe stupire che le storie scelte da Gesù per spiegare il «regno di Dio», cioè quello per cui si era incarnato, non siano episodi connessi con la religione e con le pratiche religiose ma con la vita nel quotidiano. Gesù, infatti, non è l’incarnazione di Dio in una religione, ma l’incarnazione di Dio nell’umano.
Questo è evidente in molti fatti del vangelo, a esempio in quello che narra dell’incontro di Gesù con un centurione dell’esercito di occupazione, occasione in cui il Maestro disse a coloro che lo seguivano: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande», vale a dire una fede come quella che aveva visto in quel soldato straniero. Espressione questa con cui Gesù afferma che per lui la fede non era data dalle credenze di una religione, ma dalla fiducia che una persona riponeva in Lui.
Gesù con queste sue prese di distanza, non ha inteso sopprimere il sacro, ma porre l’elemento centrale della religiosità, innanzitutto nella vita stessa delle persone, in particolare nell’etica della compassione e della misericordia, per lui erano veramente sacre. É questo ciò che in qualche misura può farci diventare quello che Lui è stato.
Per dare un respiro nuovo alla vita
Un padre provinciale, parlando ai suoi confratelli, fece questa domanda: «un giovane può essere attratto dalla nostra proposta vocazionale, quando sente e vede che vi sono persone, in altri spazi, ambienti, dove la vita è presente in modo più abbondante, già fin d’oggi?».
La mancanza di attrattiva di cui soffre la VC è dovuta al fatto che oggi non è vista in prima istanza come un pezzo di realtà evangelica trasparente, ma come un’agenzia sociale sempre più in affanno chiusa ideologicamente in se stessa, prigioniera di un presente angusto diffidente della storia corrente.
C’è rigetto della storia quando non si ha il coraggio di andare per le strade che la novità di Dio offre o quando ci si difende serrati in strutture mentali che hanno perso la capacità di accoglienza del nuovo, vale a dire la capacità di reinventare la vita con ciò che di attuale la vita oggettivamente mette a disposizione. Da qui la mancanza di fiducia di cui soffre, non essendo vista radicata nelle «sfide» odierne, forte unicamente del vangelo ritrovato.
Servono allora religiosi/e veglianti in libertà sulle strade attraverso cui il futuro s’inserisce nella storia, con forme comunitarie non orientate a essere una istituzione nell’istituzione, chiuse nel proprio saputo di cui i primi artefici sono stati coloro che erano orientati alla fuga dal mondo. E questo perché nel nostro tempo sono strade evangelicamente efficaci solo quelle che sono umanamente significative, fatto riscontrabile nelle scelte delle nuove generazioni che a una modalità di vita sopra le righe – com’è vista l’attuale forma di VC – preferiscono un modo di essere discepoli dentro la vita degli uomini.
Infine, una certa povertà della VC sta nel continuare a privilegiare l’attenzione a ciò che sta facendo, ma l’uomo non è soltanto ciò che sa fare, ma, specie in momenti di veloce evoluzione, è ciò che sa intravedere: nel primo caso continuerà a spendersi – senza esito - nel bisogno di avere nuove braccia, nel secondo, invece, nel ricercare nuove «visioni».
RINO COZZA csj