Savagnone Giuseppe
Ridare un'anima all'Europa
2024/5, p. 43
L’importanza di un appuntamento elettorale sottovalutato.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
ELEZIONI EUROPEE
Ridare un’anima all’Europa
L’importanza di un appuntamento elettorale sottovalutato
Dal 6 al 9 giugno prossimo (in Italia l’8 e il 9) si svolgeranno, in base al sistema proporzionale, le elezioni con cui i cittadini dell'UE sceglieranno i propri rappresentanti nel Parlamento europeo, l'unica assemblea transnazionale al mondo eletta direttamente. Un appuntamento che si ripropone ogni cinque anni, anche se quasi metà degli elettori lo diserta. È vero che nell’ultima tornata elettorale del 2019 si è registrato un aumento dell’8,34% rispetto al 2014, ma anche con questo la media europea dei votanti è stata, allora, solo del 50,95%. L’Italia non ha brillato e si è piazzata al nono posto con il 56, 10% (in calo di oltre due punti rispetto al 58,69 di cinque anni prima), preceduta da Germania (62%) e Spagna (64%), anche se davanti alla Francia (51%).
Si stenta a percepire l’Europa come una «casa comune» e nella maggior parte dei casi – almeno nel nostro paese – le elezioni del Parlamento europeo sono state viste in funzione dei loro effetti sul quadro politico nazionale. E così sembra essere anche questa volta. Se ne parla, sì, ma soprattutto come di una cartina di tornasole per valutare la tenuta dei diversi partiti nello scenario italiano e per fare previsioni sui loro rapporti di forza. Al futuro dell’Europa pochi sembrano essere davvero interessati.
Eppure, oggi, forse come mai, esso appare problematico e chiede ai cittadini un particolare discernimento e una consapevole assunzione di responsabilità. Il nuovo Parlamento che eleggeremo – e la Commissione (l’organo esecutivo) che esso esprimerà – dovranno affrontare, infatti, una situazione che si profila ben più grave e complessa di cinque anni fa. Effetto della crisi ucraina, che, oltre ad evidenziare ed acutizzare antichi problemi, ne ha fatti nascere di nuovi, modificando profondamente il quadro internazionale in cui l’Europa si trova ad esistere ed operare. Cominciamo da questi ultimi.
Il «nuovo ordine» creato dalla guerra in Ucraina
La guerra scatenata da Putin è stata, per il nostro continente (inclusa la Russia), una catastrofe. Non solo essa ha alterato l'equilibrio geopolitico mondiale, segnando la fine dell'era di globalizzazione instaurata dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, ma in particolare ha troncato, o almeno fortemente ridimensionato, gli strettissimi legami economici che si erano creati tra la Russia e i paesi europei, soprattutto la Germania. Coinvolti nell’ondata di sanzioni economiche decise dalla Nato per colpire e isolare l’aggressore, questi paesi hanno dovuto prendere coscienza, in questa occasione, della loro fortissima dipendenza dalle fonti energetiche e dall’economia russe, pagando a caro prezzo l’effetto boomerang delle loro stesse misure.
Anche le spese militari – sotto la pressione del nuovo stato di allarme che si è creato - sono enormemente aumentate. Ed è aumentata la dipendenza politica dell’Europa dalla Nato - un’alleanza militare che ha il suo centro non nel nostro continente, ma nell’Atlantico, sotto la guida americana - che, con questa guerra, ha acquistato un ruolo di primo piano. Il pianeta si è spaccato, come ai tempi della vecchia «guerra fredda», dando luogo a quello che è stato definito un «nuovo ordine», rigorosamente bipolare – Alleanza atlantica da una parte, Russia e Cina dall’altra –, vanificando ogni possibile prospettiva, per l’Europa, di diventare un soggetto politicamente autonomo e rilevante sullo scenario internazionale.
Tanto che qualcuno ha accusato proprio l’America di avere favorito la crisi dei rapporti tra Europa e Russia, visti come una minaccia per l’egemonia degli Stati Uniti, enfatizzando ed esasperando fin dall’inizio lo scontro provocato dall’aggressione di Putin all’Ucraina.
La cronica difficoltà di passare dall’unione economica a quella politica
Ma, al di là della fondatezza o meno di questi sospetti, appare evidente, anche alla luce delle reazioni alla crisi attuale, che ad impedire la nascita degli Stati Uniti d’Europa è stata finora e continua ad essere, in realtà, la difficoltà degli Stati europei di uscire da una miope logica nazionalista e di rinunciare alle rispettive sovranità per dar vita, gradualmente, a una entità politica nuova.
Una difficoltà che queste elezioni sembrano destinate ad accrescere, date le previsioni di una notevole avanzata della destra sovranista (in vantaggio nei sondaggi in quasi tutti i paesi membri) che, anche se forse non arriverà a sovvertire l’attuale maggioranza – il cui asse portante è il centrista Partito Popolare Europeo (Ppe) -, quasi certamente ne influenzerà la linea politica, spostandola verso posizioni di sempre maggiore impegno nella «difesa delle frontiere».
Con la conseguente tendenza di ogni Stato membro a seguire una propria linea di politica interna, evidenziando sempre più l’eterogeneità fra i paesi dell’Europa occidentale, come la Francia, la Germania, l’Italia, la Spagna - più sensibili ai valori della democrazia e, in nome dei diritti, alle libertà individuali - , e quelli dell’Europa orientale, come l’Ungheria e la Polonia, che, al contrario, appaiono lontani dal rispettare le garanzie democratiche e la Carta europea dei diritti, ma insistono, invece, sul primato della patria e della famiglia.
Anche se in realtà si deve registrare, già adesso, la tendenza dei primi ad essere «contagiati» – e lo saranno ancora di più dopo le elezioni di giugno - dalla logica sovranista dei secondi e a condividere con essi un approccio sostanzialmente difensivo nei confronti del fenomeno migratorio, avvertito come una minaccia.
Anche in politica estera i vari Stati europei procedono quasi sempre in ordine sparso, senza riuscire a trovare una linea veramente comune. Proprio la guerra in Ucraina ha evidenziato una spaccatura fra la maggior parte dei membri dell’UE, che avevano destinato 50 miliardi di euro a sostegno del governo di Kiev e l’Ungheria, che era contraria. Opposizione superata dopo una lunga contrattazione, a costo però di una lacerazione all’interno dello stesso apparato istituzionale europeo. Proprio recentemente, infatti, il Parlamento europeo ha promosso una causa, nei confronti della Commissione presieduta da Ursula Von der Leyen, di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue, accusandola di avere illegalmente sbloccato 10 miliardi di fondi destinati all’Ungheria e in precedenza «congelati» per gravi violazioni dello Stato di diritto, in cambio del suo voto favorevole agli aiuti all’Ucraina.
L’anima perduta
Il risultato di questa cronica frammentazione dell’Europa è una evidente debolezza sia politica che militare, resa più allarmante dal drastico deterioramento dei rapporti con la Russia. Tanto più che la guerra va sempre peggio per l’Ucraina, al punto da far temere una vittoria di Putin che ne incoraggerebbe le mire imperialiste. Anche se appaiono molto pericolose le ipotesi di un diretto coinvolgimento degli eserciti europei, avanzate dal presidente francese Macron. In questo contesto, la protezione americana, pur contrastando con l’ideale europeistico, viene sentita sempre di più come una garanzia e fa paura la prospettiva che l’eventuale elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti la faccia venir meno o la indebolisca.
Ma alla radice della fragilità politica dell’Europa c’è la sua crisi culturale e spirituale. Il rifiuto di inserire nel Preambolo della Costituzione europea, elaborata nel 2003 (anche se poi non entrata in vigore), la menzione delle sue «radici cristiane» ha avuto, da questo punto di vista, il valore simbolico di un rigetto dell’anima cristiana che ne aveva ispirato la nascita.
Di quell’anima sono rimasti i frammenti, distorti a causa della loro reciproca contrapposizione: da un lato, l’enfasi unilaterale sui diritti individuali, dall’altro la difesa altrettanto unilaterale di valori tradizionali, scissi però dal quadro etico cristiano che li giustificava. Espressione della prima è il progetto di Macron di far inserire il diritto di aborto, dopo che nella Costituzione francese, anche nella Carta europea dei diritti. Significativa della seconda è l’impegno di Ungheria e Polonia nel difendere la vita dei non-nati, limitando il ricorso legale all’interruzione volontaria della gravidanza, ma nel contesto di una totale chiusura alla vita dei già-nati che chiedono di essere accolti.
In mancanza di una nuova visione, che sintetizzi quel che di vero c’è nelle rispettive posizioni, l’Unione Europea rischia di ridursi di fatto a un apparato meramente burocratico e tecnocratico. Per questo, nata da un coordinamento di natura economica, che doveva – nelle intenzioni dei «padri» ispiratori – essere solo il primo passo, essa non riesce a raggiungere un’unità politica che supporrebbe una comunità a un livello più profondo. L’anima di cui si parlava.
In questo modo, però, l’Europa resta davvero esposta a una colonizzazione spirituale e culturale da parte degli stranieri - soprattutto di quelli di religione islamica - che invece vi giungono con una fede e una coerente pratica religiosa. In questo hanno ragione le destre, alle quali però sfugge che non si risolve il problema «difendendo le frontiere» – l’esperienza dice che i muri, prima o poi, cadono -, ma ricostituendo una identità spirituale e culturale.
Questo il contesto in cui le prossime elezioni si svolgono. È chiaro che esse non possono fornire la soluzione a problemi così complessi. Ma possono essere un’occasione, già nel dibattitto che le precede, per metterli in luce nella loro reale portata, sottraendoli alla banalizzazione degli slogan elettorali. E possono servire per dare un segnale alle forze politiche dell’orientamento della base in un senso o nell’altro.
Perciò nel votare si dovrebbe tener conto che dietro i nomi dei candidati e le rispettive etichette partitiche ci sono delle visioni che incideranno in un senso o nell’altro sulla direzione in cui si andrà. Essere consapevoli di ciò è un buon motivo per votare e per farlo responsabilmente. Se vogliamo ancora sperare che si possa ridare un’anima all’Europa.
GIUSEPPE SAVAGNONE