Cozza Rino
In cammino con la storia
2024/5, p. 34
Quali aspetti della vita consacrata rispondono oggi alle attese delle nuove generazioni? A quali passaggi è chiamata?

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Testimoni
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SGUARDO SULLA VITA CONSACRATA
in cammino con la storia
Quali aspetti della vita consacrata rispondono oggi
alle attese delle nuove generazioni? A quali passaggi è chiamata?
Il momento che viviamo sta segnando per la vita religiosa un tempo di grande difficoltà da far sembrare che in essa l’evangelismo non vibri più in forma seduttiva.
Il sintomo patologico più evidente di cui è vittima, è l’emergere di una generale incapacità di attrarre nuove persone generative e di qualità, che per non poche istituzioni è preludio di una conclusione per sterilità. Allora l’eredità del passato non va conservata, ma riscoperta e rigiocata con coraggio per ospitare la ricchezza plurale della vita che viene. A tal fine le servono nuovi elementi per rendere evidente la sua funzione di «segno» per l’oggi. Da qui le domande: Quali nuove tracce di senso per non essere esclusi dai circuiti della vita?
… dalla «rinuncia» alla gioia di vivere e donarsi
Il termine «rinuncia» in riferimento ai religiosi, rimanda a uno stile di vita austero, mortificato, penitente, distaccato dal mondo, per il fatto che nei primi secoli, a partire dal tempo delle persecuzioni, il martirio era la forma più alta del cristianesimo, idea che, dopo le persecuzioni, rimase quale immagine classica del discepolo. Da qui il ritenere che l’umano, la terra, la passione per la vita fossero in qualche modo un intralcio, è arrivato in qualche misura fino a oggi. Ma Gesù non ha mai pensato di circondarsi di una élite di asceti e moralisti non avendo mai fatto suo il pensiero ascetico-rigorista del suo tempo, disconoscendo anche per i suoi discepoli ogni durezza. Ne fa fede, ad esempio, il fatto che nelle prime comunità, la ricerca della povertà, elemento determinante per l’evangelismo, non era vissuta come ideale ascetico sul tipo degli stoici, ma perché non ci fosse chi soffrisse per la povertà. L’apostolo Paolo inoltre, con il dire «non di tali sacrifici il Signore si compiace ma di far parte dei vostri beni agli altri», vuole ricondurre i beni in quell’ottica nella quale Dio li ha creati: dono che unisce gli uomini tra di loro e con Dio, per cui, in ordine alla povertà, l’eccedenza dev’essere riscontrabile nella misura alta di trasparenza del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»; quella gratuità che dice uno slancio di aiuto sottratto al dominio dell’interesse; che incrocia la sofferenza altrui perché qualcosa scatta nel cuore e spinge a una data azione.
… «da virtù vissute «angelicamente», a una più espressiva umanità»
Paolo VI parlando all’ONU presentò la Chiesa come «esperta di umanità», intendendo così dire che spiritualità e umanità vera debbono convergere, poiché la gloria di Dio non può consistere nella negazione della sua creatura, quanto piuttosto nella sua realizzazione più vera. Allora non si può più parlare di salvezza in termini cristiani senza avere davanti agli occhi la salvezza non solo per la vita eterna ma anche per l’oggi quaggiù, in coerenza con la sua vocazione terrena, liberandosi da mappe di spiritualità destoricizzate, ripetute acriticamente che hanno fatto passare l’idea che le virtù vitali siano il mettersi da parte, la sottomissione, l’ascetica dolorifica, il disprezzo dei beni, la rigidità legalista.
È tempo, perciò, di liberarsi da una forma discepolare che ha veicolato talvolta una fede distante dalle domande profonde dell'uomo, offrendo talora un'immagine di Dio che sembra non avere niente da dire ai nostri sensi, dolori, sete di gioia e di vita. Dunque, oggi è ricercata quella spiritualità, la cui bellezza non sia inferiore all’ideale umano della gioia. Ne consegue che la qualità della vita consacrata e la sua credibilità, si giocano piuttosto sulla sua capacità di aprirsi a quel Dio manifestatosi nell’umanità di Gesù, espressa nei gesti di ascolto, di compassione, di giustizia, e infine nella sua dedizione totale (EG 265): in questo c’è il tratto identitario del cristianesimo.
… da una spiritualità per se stessi, a una per tutti i battezzati
La vita spirituale, specie nella VC, era presentata come il perfezionamento interiore di sé, dato, in particolare, dall’alimentare quel sentimento religioso, che nutrito di prassi devozionali, alimenta la certezza psicologica della salvezza individuale, legata alla fedeltà delle prescrizioni religiose o alla percezione di un sentimento autoindotto, piuttosto che portare a quanto fa lievitare, attraverso noi, l’agire di Cristo nei confronti dell’umanità.
In questo c’è il rischio - evidenziato anche dall’esortazione apostolica Gaudium et Spes (n.78) - di confondere la vita spirituale con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Si tratta allora di prendere maggiormente in considerazione il fatto che il cristianesimo non è una istituzione che vive in sé e per sé, in funzione dei propri interessi - dunque nemmeno di quelli spirituali, (perfezione e salvezza) - ma è nato da una relazione con Cristo che riempie la vita, creando a sua volta capacità relazionali per dire a ogni creatura un desiderio di amore che solo Dio potrà soddisfare.
Serve allora una spiritualità che porti a una vita «in uscita» per passare dall’ideale della «separazione» alla mistica dell’incontro. A dirlo è stato Giovanni Paolo II, e vari decenni dopo, papa Francesco con il mettere al centro di varie riflessioni l’invito a «uscire dai propri recinti per essere inviati» ad interagire con il terreno in cui si pone il seme, attraverso vissuti relazionali intensi.
È allora il momento di passare «dall’incontrare la gente nei nostri spazi, a incontrarle nelle loro strade». C’è in questo dire l’invito di papa Francesco a sentirsi mandati per una presenza che non miri all’identificazione con un servizio, anche perché oggi nessuno lascia tutto per investire le forze unicamente nel tenere in piedi le strutture, non essendo un ideale quello di diventare servi di ciò che dovrebbe servire.
… da forme organizzative gerarchico-piramidali a forme partecipative
Per la vita religiosa, uno degli effetti della Controriforma è di avere oltre modo accentuato l’elemento gerarchico di una struttura che è finita per risultare poi tanto snaturata rispetto alle origini, da essere distorsiva della fraternità. Ma se un tempo bastava l’appartenenza a un impianto gerarchico a soddisfare il bisogno identitario della persona, oggi non più, anche perché le appartenenze per il riferimento istituzionale non sono sufficientemente coesive e in quanto a volersi bene apportano poco, anche perché, ad esempio, nel rapporto asimmetrico (superiore-suddito) manca la base evangelica della fraternità.
Infine, non tengono più quegli schemi di vita comunitaria di concezione collettivistica per i quali è il sistema di pensiero e di tradizioni a tenere insieme piuttosto che la concretezza dell’agire interpersonale.
Come anche non c’è sufficiente comunione fra coloro che si riconoscono per un riferimento lontano, com’è quello istituzionale, espresso nel prefisso «con» (con-fratelli; con-sorelle), ma c’è solo se si vivono nella quotidianità le stesse istanze, perché ciò che marca la persona nel suo intimo, può essere mediato solo nel quadro dei rapporti sociali empatici e dunque dialogici. Non sono partecipative, inoltre, le forme organizzative complesse ma lo sono quelle non pesanti, aperte per essere sempre riformabili. E infine non meno influente è l’odierna concezione di «identità individuale» che porta a scoprire l’ideale della fedeltà al proprio modo di essere come prioritario di fronte ad altri tipi di imperativi. Da qui il preferire forme comunitarie che permettano ai singoli di mantenere una certa responsabile autonomia per ciò che riguarda la propria vita, per cui, ad esempio, «deleghe in bianco nessuno è più disposto a sottoscriverle».
…da lontane prassi, ad ortodossie in sintonia con la storia
Lontane prassi sono i comportamenti omologati, massificati per accumulo e sacralizzati, che hanno portato la vita religiosa a essere un sistema un po’ autistico che le ha impedito, con il passare del tempo, di dare attualità e incidenza storica agli appelli del Vangelo in risposta alle attese dell’uomo dei tempi che sopravanzano. Ma in questa nuova stagione culturale, perché i carismi non si sclerotizzino in una fedeltà materiale, servono idee e conseguenti parole che esprimano la fantasia di Dio per l’oggi della storia, piuttosto che far intravedere l’andare curvo del bue sul solco del tempo.
Oggi non attraggono più quei modelli di vita comunitaria che faticano a muoversi in armonia con le aspirazioni profonde delle persone, perché improntati talvolta a conoscenze teorico-dottrinali di un mondo che non c’è più, tenute assieme da documenti, dichiarazioni, teorie, tendenzialmente omologanti di cui si è soltanto ricettori e silenziosi esecutori; e non ama i linguaggi percepiti come invasione di parole, luoghi comuni, teorie che V. Albanesi definirebbe con un paradosso: «teologicamente perfette e cristianamente inutili».
Da questa matrice potranno nascere nuovi modelli di «diaconia» maggiormente a misura di una società completamente diversa.
… da persone che restino per gli impegni presi ieri, a persone che vivano per i sogni di domani
Alle nuove generazioni – diversamente dalle precedenti - un certo tasso di provvisorietà sembra essere indispensabile nell’interpretazione della vita, essendo questa immersa in un presente ricco di possibilità, di variabili, di volta in volta utilizzabili per un risultato sempre più alto, consapevoli che «non si arriva alla maturità senza un continuo cambiamento».
Di fatto il domani ci sarà per quella vita religiosa che saprà assumere modi di operare aperti a sogni flessibili, ricchi di immaginazione e sapienza evangelica, attraverso persone che sappiano impastare la propria missione con quella di tutti i battezzati con i quali avere rapporti di eguaglianza, per osare percorsi sconosciuti, estranei alla cultura clericale e immobilista.
Perciò è il futuro e non il passato lo spazio delle «promesse» in grado di liberare davvero quelle persone che intendono coltivare le domande, perché capaci di amare la fatica di leggere dentro la storia.
Ne consegue allora che i «per sempre» che fanno vivere bene sono quelli che guardano avanti, perché quelli che guardano preferibilmente indietro sanno creare solo statue di sale.
RINO COZZA csj