Ferrari Matteo
«So che è Pasqua, perché ho avuto la gioia di vederti!»
2024/5, p. 24
Lettera del Priore generale della Congregazione Camaldolese dell’Ordine di San Benedetto ai fratelli monaci, alle sorelle monache, agli oblati, amici e ospiti dell’Eremo di Camaldoli.

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Testimoni
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TEMPO PASQUALE
«So che è Pasqua,
perché ho avuto la gioia di vederti!»
Lettera del Priore generale della Congregazione Camaldolese dell’Ordine di San Benedetto ai fratelli monaci, alle sorelle monache, agli oblati, amici e ospiti dell’Eremo di Camaldoli.
Nei primi passi di questo tempo pasquale, al termine dell’Ottava di Pasqua, ritornano alle mente le parole della Regola di Benedetto che ci hanno accompagnato fin dall’inizio del cammino quaresimale: «attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio» (RB XLIX,7). Già all’inizio della Quaresima Benedetto proietta la tensione spirituale del monaco alla gioia pasquale. Se tutta la vita del monaco «deve avere sempre un carattere quaresimale» (RB XLIX,1), tutta la sua esistenza dovrebbe anche essere caratterizzata dal «gioioso desiderio» della Pasqua. Sul volto di ogni monaco e monaca, così come su quello di ogni discepolo di Gesù, dovrebbe trasparire questo gioioso desiderio. Una vita triste non è cristiana! Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium afferma: «Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua» (EG 6). A volte anche noi monaci e monache corriamo il rischio che sul nostro volto, nei nostri gesti, nelle nostre parole… si riveli questo stile «da Quaresima senza Pasqua». Tuttavia chi ha la «certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto» (EG 6) non può vivere nella tristezza, chi crede nel Signore Risorto non può che vivere nella pace e nella gioia. Forse è questa la prima testimonianza che, come monaci e monache, possiamo portare: un volto sorridente.
So che è Pasqua!
Anche nella vita di Benedetto di San Gregorio Magno troviamo un episodio significativo da questo punto di vista (cf. Vita di San Benedetto, 2). Benedetto si trova al Sacro Speco e vive la sua esperienza di solitudine da tre anni finché, proprio il giorno di Pasqua, egli riceve una visita. È un prete che vive nelle vicinanze. È Pasqua e il prete si è preparato un lauto pranzo, ma il Signore gli appare dicendo: «Tu ti sei preparato cibi deliziosi, e va bene: ma guarda là; vedi quei luoghi? Lì c'è un mio servo che soffre la fame». Allora egli si mette in cammino e quando trova Benedetto nella solitudine della sua grotta gli annuncia che è il giorno di Pasqua. Allora Benedetto gli risponde: «So che è Pasqua, perché ho avuto la grazia di vedere te».
Non può essere Pasqua se non c’è gioia, e non c’è gioia senza l’incontro con un volto. Non si può fare festa da soli. Dobbiamo avere la consapevolezza che nelle nostre comunità possiamo fare Pasqua solamente nell’incontro sincero con l’altro, se viviamo nella gioia la nostra vita comunitaria, sapendo che l’altro è il segno per eccellenza della Risurrezione del Signore. Non ci può essere gaudio pasquale se non nell’incontro con il volto del fratello, della sorella. Certo non sempre a facile. A volte facciamo prevalere la divisione, la fatica del vivere e camminare insieme. Tuttavia, dobbiamo ricordare le parole di Benedetto: «so che è Pasqua, perché ho avuto la gioia di vederti».
Un dono pasquale
Nella Scrittura la gioia è un dono del Signore Risorto, il segno che la salvezza di Dio ha toccato la nostra esistenza. In Lc 24,41 si dice che i discepoli vedendo il Signore non credevano «per la gioia». Più avanti in Lc 24,52 si afferma che i discepoli dopo l’ascensione del Signore ritornarono «pieni di gioia» a Gerusalemme. Il racconto dell’apparizione del Risorto ai discepoli è quindi come incorniciato dal riferimento alla gioia: all’inizio una gioia che addirittura impedisce di credere; alla fine si tratta della gioia che accompagna i discepoli nel loro ritorno a Gerusalemme, dopo che il Signore è asceso al cielo. Il tema della gioia si staglia anche dal confronto con il suo contrario, cioè la tristezza e la paura che attanagliava la vita dei discepoli prima dell’incontro con il Risorto. Basta pensare ai due di Emmaus che con il volto triste camminano verso casa. Invece dopo l’incontro con il Risorto il ritorno a Gerusalemme non avviene più nella tristezza, ma nella gioia.
Il termine «gioia» (ebr.: shimhah; gr.: chara) nelle Scritture indica «un modo primario di appropriarsi, da parte degli uomini, dell’evento escatologico della salvezza» (DENT, 1870). Anche Dio è nella gioia quando gli uomini e le donne accolgono la salvezza che egli propone nella loro vita. Basta pensare alle parabole della misericordia in Luca (Lc 15,7.10). La gioia è un frutto dello Spirito (Gal 5,22), testimonia nella vita delle persone la presenza dell’azione efficace di Dio. La gioia come «appropriazione» della salvezza nella nostra vita non è di per sé «incompatibile» con la sofferenza e il dolore. Anzi sembra che nel Nuovo Testamento sia proprio il contrario. A volte infatti si parla di «gioia nella sofferenze». La «gioia» è quindi qualcosa che appartiene ai discepoli di Gesù come un dono ricevuto e che nulla potrà loro strappare, se rimarranno testimoni della salvezza che Dio ha operato nella loro esistenza e della quale essi hanno fatto esperienza. Il discepolo di Gesù in ogni situazione della sua vita in quanto testimone di gioia è anche testimone e annunciatore della risurrezione del Signore. Potremmo dire che la gioia è annuncio e tale annuncio si fa sempre più forte e significativo quando essa permane nonostante le prove e le avversità che si possono incontrare. La gioia è «un bene» che nessuno dovrebbe poter «rubare» ai discepoli di Gesù. Se la pace indica la pienezza di vita dei tempi ultimi che si manifesta nella persona del Risorto, la gioia è il modo di appropriarsi da parte dei discepoli di tale pace. Essere nella gioia rivela l’aver accolto nella propria vita i doni della salvezza.
La gioia quindi è un dono del Risorto che i discepoli di Gesù dovrebbero custodire e testimoniare con la loro vita. Spesso dimentichiamo questo aspetto che non consiste nello spiritualizzare ogni elemento della vita, ma nel prendere sul serio l’evento pasquale. Coloro che prendono sul serio la Pasqua di Gesù sono uomini-donne di gioia. Dovremmo imparare a misurarci molto più ordinariamente con questo dono pasquale nel vivere tutto ciò che di positivo e di negativo incontriamo nel cammino della nostra esistenza. Il nostro modo di vivere nella gioia potrebbe essere realmente un criterio di discernimento della nostra sequela del Risorto-Crocifisso, della fedeltà alla nostra vocazione.
Custodire i doni
Nella preghiera Sulle offerte del martedì dell’Ottava di Pasqua la Chiesa si rivolge al Padre affinché frutto dell’eucaristia che si celebra sia il «custodire i doni ricevuti»:
Accogli, Padre misericordioso,
le offerte di questa famiglia,
perché con l’aiuto della tua protezione
custodisca i doni ricevuti e raggiunga quelli eterni.
Si tratta in realtà di una richiesta molto bella che tocca il cuore dell’esperienza cristiana in quanto tale. Infatti, che cosa sono i cristiani se non coloro che custodiscono nella loro esistenza i doni pasquali, che hanno ricevuto dal loro Signore risorto? Forse ci si pensa troppo poco, ma la vita cristiana dovrebbe avere il suo criterio di verifica nella custodia dei doni pasquali. I discepoli di Gesù, i cristiani non sono principalmente coloro che obbediscono a particolari leggi morali, ma essi sono chiamati ad essere «custodi» dei doni che hanno ricevuto nel giorno di Pasqua.
Come monaci, monache, come discepoli e discepole del Signore dovremmo sempre avere presente questo tratto della nostra identità: essere custodi dei doni pasquali, in primo luogo della gioia che dovrebbe sempre risplendere sul nostro volto anche quando le preoccupazioni e le difficoltà toccano la nostra vita personale e comunitaria. Il nostro volto non può essere triste… l’amarezza, infatti, è segno che siamo schiavi di quello zelo cattivo «che separa da Dio e porta all’inferno» (RB 72,1). Impariamo a leggere il nostro volto: il volto di un monaco non può essere segnato dall’amarezza, dalla tristezza, ma deve rendere testimonianza al Signore risorto nella gioia.
L’alleluia pasquale
Il tempo pasquale è una vera e propria terapia della gioia. La liturgia giorno dopo giorno ci aiuta a realizzare ciò che il Risorto ha operato e opera nella nostra esistenza e in quella delle nostre comunità. In modo particolare il canto dell’«alleluia» che rinasce nella Veglia pasquale è il canto della gioia. Di per sé, l’espressione in ebraico ha un senso – lodate il Signore – e tuttavia noi lo cantiamo quasi senza pensarci, come semplice giubilo, come espressione di festa e di gioia.
L’«alleluia» pasquale è la terapia del linguaggio che la liturgia ci dona e che ci salva dai discorsi tristi che facciamo tra noi lungo la via, come i due discepoli di Emmaus (Lc 24,17), e ci ridona il sorriso della speranza che risorge nei nostri cuori. Questo canto pasquale sulle nostre labbra è il modello delle parole che dovrebbero risuonare tra di noi, il contrario del pettegolezzo e della maldicenza che invece ci intristiscono e amareggiano. L’«alleluia» pasquale nasce dalla risurrezione, il pettegolezzo e la maldicenza, le parole vuote e inutili, invece dalla morte dell’anima e producono quell’amarezza che è sintomo dello zelo malvagio (RB 72,1). La maldicenza alberga su un volto triste, non illuminato dal sorriso, ma rattristato dal ghigno. L’«alleluia» pasquale ci insegna a usare parole buone, a coltivare dialoghi costruttivi, a non rattristarci reciprocamente con «racconti tristi» e rasseganti che non dovrebbero appartenere a chi è discepolo del Risorto.
Buona Pasqua!
E allora l’augurio di un tempo pasquale di gioia per tutti! Scacciamo quella visione negativa e rassegnata della vita monastica che a volte ci capita di avere e che non corrisponde ad uno sguardo di fede: è una tentazione «diabolica», che divide, che crea divisione in noi e intorno a noi. Il «demone della tristezza» secondo Evagrio Pontico deriva dallo sterile ricordo di un passato che non esiste più (cf. Trattato pratico, 10). Chi si intrattiene in questi pensieri nostalgici sul passato, viene afferrato dalla tristezza, dal momento che «le cose di una volta non sono più, né potranno più essere». Occorre guardare al passato non con nostalgia, ma con gratitudine, per vivere con fede e speranza il presente e il futuro. Le cose vecchie passano, ma Dio non cessa di crearne di sempre nuove e sorprendenti (cf. 2Cor 5,17).
Non possiamo essere discepoli e discepole del Risorto, monaci e monache, se abbiamo il volto triste: chi incontra le nostre comunità dovrebbe incontrare uomini e donne dal volto sorridente, perché capaci di cantare l’«alleluia» pasquale. Non si tratta di essere spensierati e di non pensare ai tanti problemi che stiamo affrontando, di non essere consapevoli dei grandi drammi che oggi toccano la storia dell’umanità, ma di essere testimoni della Risurrezione, uomini e donne di fede. La Chiesa oggi ci chiede di essere una «presenza sorridente» perché testimonianza del Signore risorto: siamo chiamati ad essere custodi del dono pasquale della gioia.
D. MATTEO FERRARI
Priore Generale