Morgante Patrizia
Il potere delle parole e la vita in comunità
2024/5, p. 16
Parole che generano vita e parole che la feriscono.

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EDUCARCI AL DIALOGO
Il potere delle parole e la vita in comunità
Parole che generano vita e parole che la feriscono
Premessa
Vivere insieme è difficile. Vivere insieme affinché ogni persona possa fiorire e, quindi, far fiorire anche la comunità, è complesso.
In questa riflessione vorrei accompagnarvi ad approfondire il potere delle parole. Parole rivolte a noi stesse, alle persone e alla vita.
Abbiamo mai fatto esperienza nella nostra vita di parole ricevute che ci hanno ferito? Che ci hanno tolto il respiro e la terra sotto i piedi? Che ci hanno fatto sentire sbagliate/i e inadeguate/i?
A queste parole ricevute, siamo molto sensibili; lo siamo meno quando queste parole che tagliano, separano e umiliano, siamo noi a dirle.
Nell’uso delle parole l’invito a «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», può essere un buon esercizio quotidiano, domandandosi prima di parlare: cosa proverei io nell’ascoltare queste parole che sto per pronunciare? Come mi farebbero sentire? Cosa provocherebbero in me: apertura o chiusura?
Sono certa che facciamo esperienza anche di parole generative, che fanno sentire bene perché ci aprono (proprio al livello dello sterno e dei polmoni), ci fanno respirare e ci danno coraggio, ci animano (nel senso che nutrono l’anima, la parte più profonda di noi). Queste sono le parole che chiamo «morbide», senza spigoli, ma non per questo meno efficaci e assertive; parole gentili, empatiche, che dicono compassione e che non mettono mai in pericolo la relazione o il vincolo umano.
È come se stessi in un negozio di cristalli e le parole fossero come frecce: se sono gentili, accarezzano gli oggetti e continuano il loro volo; se sono troppo forti, rompono in modo irreversibile ciò che mi circonda.
Chissà? Magari anche il mio tono può risultare graffiante a chi legge. Di questo mi scuso e, da ora in avanti, avrò più cura delle parole. Avere cura delle parole… un gesto prezioso che ricorda alcuni dialoghi bellissimi di Gesù con le donne.
Le relazioni sono come una danza flessibile
Nella nostra società fatta di dati, informazioni, rumori e virtualità, le parole hanno un grande potere. Le parole sono performative: perché creano la realtà in base a come la raccontiamo.
Questa consapevolezza mi stordisce al punto che sento un invito forte perché le parole si generino dal silenzio e non dal rumore. Un giorno una monaca mi disse: «mi sento invitata a parlare solo quando le mie parole sono preferibili al silenzio». Questa frase mi ha segnata. Perché sì, le parole segnano la nostra epidermide, il cuore, la mente e l’anima; creando come una memoria che rimane impressa dento di noi e di cui non sempre ne siamo consapevoli. Questa memoria, fatta di parole ricevute e dette, può emergere nelle situazioni di conflitto e nelle quotidiane interazioni umane. Sono i bias che muovono il nostro sentire e agire, e determinano il modo in cui interpretiamo una situazione. I bias sono come abitudini e categorie che, attraverso il vissuto e l’esperienza, siamo andate costruendo, e che ci danno le chiavi di lettura per il vivere sociale. Quando, però, non mettiamo in discussione i nostri bias e li prendiamo come l’unica verità e l’unica interpretazione della storia, si crea come una inflessibilità cognitiva e affettiva che fa male a noi e a chi ci circonda; impedendo la costruzione di quello spazio «terzo» dove tutte le parti si riconoscono, frutto del dialogo e del pensiero periferico.
Per questo è bene che pensiamo le relazioni come una danza: un passo avanti e due indietro; tre passi avanti e uno indietro. Il ritmo della danza dipende dal contesto. Il contesto è fatto dagli attori umani, dal luogo fisico o virtuale dove l’interazione accade, e da una serie di fattori che influenzano la relazione: tutti questi elementi interagiscono insieme allo stesso tempo. Per questo diciamo che le relazioni sono complesse.
Attacco o scappo? Dialogo e domando
La comunicazione interpersonale è fatta di tre componenti: la comunicazione verbale (ciò che dico o scrivo), la comunicazione para verbale (il tono, il ritmo del mio parlare) e la comunicazione non verbale (la postura, i gesti, le emozioni dietro alle parole). Nelle interazioni non virtuali l’80% del contenuto della comunicazione è rappresentato dalle ultime due. Quando le parole sono contraddette dal non verbale, al nostro interlocutore arriva, in modo non sempre consapevole, il secondo contenuto, quello non verbale. Le parti del cervello addette a questi tre tipi di comunicazione sono diverse: il cervello emotivo è il più antico ed è quello che ci fa scegliere se, davanti a un pericolo, scappare o combattere. È la parte prefrontale del nostro cervello, la più recente, a mediare quest’attitudine primitiva, e ci predispone al dialogo con l’altra persona. Quando il nostro cervello rettilario ci spinge ad aggredire o scappare, la corteccia cerebrale, invece, ci fa porre domande all’altra/o per accertarci di aver compreso bene o ci fa esprimere cosa sentiamo nell’ascoltare le sue parole.
Con il mio lavoro mi trovo ad accompagnare diverse congregazioni nella gestione della comunicazione, da quella interpersonale a quella digitale e sociale: è un osservatorio prezioso che mi richiede un grande rispetto e svuotamento delle mie pre-comprensioni. Mi colpisce come, al di là di tutte le sfide oggettive che la vita consacrata affronta, tutto si riduca alla qualità delle relazioni umane. Desta in me sempre un grande stupore questa consapevolezza. Alla fine, ciò di cui l’essere umano ha bisogno è di amare e essere amato.
L’arte della conversazione... non solo nello Spirito
Una delle caratteristiche della nostra società dell’Informazione e della Comunicazione è il passaggio dallo stile omiletico allo stile conversazionale. La rete, caratterizzata dall’orizzontalità dei nodi e delle connessioni, si nutre di conversazioni. Anche se non sempre nutrienti perché, spesso, degenerano in veri e propri hate speech (discorsi di odio), soprattutto nei social media o nei talk show televisivi.
Oggi, addirittura l’Intelligenza artificiale generativa si fonda sulla conversazione tra l’essere umano e la macchina.
La conversazione è diversa dalla disputa o dal dialogo per prendere una decisione; ha un fattore fortemente informale e, se ben gestita, può aiutare le persone ad aprirsi e creare quel clima necessario anche per futuri dialoghi più spinosi.
Conversare significare creare un clima sereno, in un luogo gradevole dove potersi ascoltare e parlare senza essere preoccupati dal tempo e dal fare. La conversazione si fonda sulla sincera curiosità del mondo dell’altra/o, pertanto si pongono domande con uno stile umile e sincero di voler veramente sapere cosa è importante, cosa rende felice o preoccupa chi ci sta davanti. Non si tratta di domande investigative o che contengano già la risposta, ma domande generative che provocano disponibilità e desiderio di aprirsi. Le domande in una conversazione sono fondamentali: dicono che non sappiamo tutto e che, soprattutto, non usiamo le nostre categorie (bias) per incastrare l’altra/o nel già conosciuto. Ci lasciamo stupire da ciò che emerge dalla conversazione, al punto da rivedere i nostri pre-giudizi. Con le domande lasciamo all’altra/o il potere di raccontarsi e condividere ciò che ha dentro.
I documenti del Sinodo sulla sinodalità stanno invitando le comunità a usare la conversazione spirituale come metodo di dialogo e per arrivare a una decisione condivisa.
Le comunità, oggi più che in passato, possono essere luoghi di ferite e conflitti: trasformiamole in spazi sicuri dove poter sperimentare circoli di conversazioni; formiamoci a essere facilitatrici e facilitatori di conversazioni generative.
Essere auto-compassionevoli (Self-compassion)
Nel nostro tempo impera il mito della felicità a tutti i costi. Basta aprire i social media e rimaniamo abbagliati dai volti felici, spensierati e leggeri. È come se essere tristi fosse una colpa o dipendesse totalmente dalla volontà personale.
È più sovente essere abitate/i da un umore di serenità costante, ma ci sono giorni dove ci sentiamo tristi, con poche forze, anche senza apparente motivo. Ci sentiamo fragili (come cristalli che potrebbero rompersi) e vulnerabili ai gesti e alle parole di chi incontriamo.
Siamo continuamente spinti a performare, a stare sul pezzo, a reagire con prontezza. Un po’ come se fossimo delle macchine.
Tendiamo a nascondere chi è meno abile (non solo fisicamente); chi mostra la sua fragilità e diversità; chi sa camminare a un ritmo differente. Lo facciamo anche nelle nostre comunità? Non rispondiamo subito. Fermiamoci e andiamo più in profondità.
È importante essere consapevoli da che livello rispondiamo a domande così complesse.
La self-compassion ci aiuta a prenderci cura delle nostre fragilità e disabilità. Essere compassionevoli con noi stesse/i fa aumentare l’ormone del benessere, la dopamina, riducendo, invece, quello dello stress, il cortisolo.
La dopamina in circolazione nel nostro corpo agisce sul cuore come sui muscoli, dandoci un senso di pace e tranquillità; predisponendoci a quella danza complessa che è la relazione con le altre e gli altri. Per produrre dopamina il nostro corpo deve essere sollecitato con carezze, massaggi, abbracci rassicuranti, parole gentili.
Avete mai provato ad abbracciarvi quando avete paura? O a guardarvi allo specchio, dicendo «ti voglio bene»? Non si può spiegare, dovete solo provarlo.
La self-compassion non è un atto di egoismo o autoerotismo: è un atto di cura e rispetto verso di noi, ci fa persone più serene e morbide, aperte a una relazione morbida, flessibile e fluida con le altre persone.
«Chi ha dimestichezza con gli animali sa bene che tutti, quando smettono di avere paura di noi perché comprendono che li amiamo, desiderano carezze. La carezza è il segno morbido che comunica in tutti i linguaggi esistenti, la frase compresa da tutti…
La carezza è l’esperanto dell’amore. Dice: non sei sola/o, io sono con te. Tu mi stai a cuore e puoi fidarti. Non sarò duro con te, non manifesterò la mia forza come durezza ma come cura e tenerezza.
Di carezze tutte/i ci nutriamo e di mancanza di carezze, date e ricevute, ci si può ammalare.
Abbiamo bisogno anche di accarezzare noi stesse/i. Una mano posata dolcemente sulla propria guancia rasserena, pacifica. Dice: io faccio pace con me stessa, smetto di essere in lotta, sento che ho bisogno di dolcezza e me la dono». (Morbidezza, Ermes Ronchi-Marina Marcolini-Alessandro Vetuli, Ed. Romena)
PATRIZIA MORGANTE