Chiaro Mario
Io capitano
2024/4, p. 38
«L’orizzonte, di notte, non esiste, il confne tra il pianeta e il frmamento, semplicemente sparisce. È così che viaggiano i sogni. È così che cominciano gli incubi». Sono parole del reporter Nello Scavo che ha messo in scena una rifessione sui migranti. Ricordano l’assurdità del concetto di «confine», soprattutto se quando dall’altra parte c’è un essere umano che ha bisogno di valicarlo. Possono fare da sfondo alla trama del flm Io Capitano, testo del 2023 nato da un’idea di Matteo Garrone.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
CINEMA
Io Capitano
un film romanzo di formazione
«L’orizzonte, di notte, non esiste, il confine tra il pianeta e il firmamento, semplicemente sparisce. È così che viaggiano i sogni, È così che cominciano gli incubi». Sono parole del reporter Nello Scavo che ha messo in scena una riflessione sui migranti. Ricordano l’assurdità del concetto di «confine», soprattutto se quando dall’altra parte c’è un essere umano che ha bisogno di valicarlo. Possono fare da sfondo alla trama del film Io Capitano, testo del 2023 nato da un’idea di Matteo Garrone.
Il calvario migrante
Seydou e Moussa sono due cugini adolescenti che vivono in Senegal. Non si tratta di persone provenienti da famiglie che versano in condizioni disagiate o pericolose. La casa di famiglia è rappresentata come un luogo luminoso, pieno di colori e di affetti. I colori all’inizio sono accesi e i protagonisti lasciano un ambiente in cui i legami tra le persone sono molto forti. Potrebbero rimanere dove sono, ma cercano di lasciare il paese alla ricerca del nuovo. La loro vicenda mette in luce l’avventura di tanti migranti: un falso passaporto, l’emorragia di denaro per evitare la prigione, il viaggio nel deserto per entrate in Libia, l’arresto, l’esperienza dei centri di detenzione, le torture, le estorsioni di denaro, la lacerazione degli affetti. Seydour riesce a uscire dalla prigione arrivando, dopo allucinanti esperienze pagate sulla propria pelle, a Tripoli. Qui ritrova Moussa, con cui riprende il cammino verso l’Europa. Quando si rivolgono a un trafficante, che organizza le traversate nel mare, non avendo abbastanza denaro si vedono offrire un’unica possibilità: Seydou dovrà guidare la barca. Con poche informazioni di navigazione, il ragazzo riesce a condurre tutti i passeggeri sani e salvi in Sicilia. Il racconto si basa su una vicenda vera, quella del minorenne Fofana Amara, che governò il timone di una barca con 250 migranti, senza averne mai condotta nessuna e che – teniamolo sempre a mente – una volta arrivato a terra fu ritenuto un trafficante di uomini e detenuto in carcere per molti mesi!
La favola della speranza
Per illustrare la sua prospettiva, il regista ricorda che «la globalizzazione è arrivata forte lì come lo è qua, hanno una finestra costante sull’Europa. Il 70% della popolazione africana è composta da giovani e tra di loro c’è chi decide di cercare di avere occasioni per una vita migliore». Dal momento che ci sono diversi tipi di immigrazione, la pellicola non sposa una tesi, ma cerca di spiegare tutti i motivi che spingono a cambiare paese. Appaiono poco generose e ideologiche alcune letture critiche: «un film ambiguo che oscilla pericolosamente tra un registro realista e uno più favolistico. Due anni di ricerca, un budget importante (8mln di euro) non sono sufficienti, forse, a raccontare un tema così drammaticamente attuale e complesso. E il fatto che Garrone abbia lavorato con una troupe completamente italiana è un limite evidente… la storia risente dei soliti luoghi comuni nei quali i registi italiani si ritrovano invischiati tutte le volte che provano a raccontare una storia africana» (cfr. Garrone inciampa nei luoghi comuni sull’Africa, articolo di Simona Cella, Nigrizia 8/2023). Proprio sul tema dei luoghi comuni è importante conoscere l’esperienza del regista sul set: «Ho vissuto un periodo lungo con tutti loro, siamo stati insieme per tre mesi e tutti quei ragazzi avevano un punto in comune: non sanno darsi risposte sul fatto che vedono altri coetanei, che spesso parlano la loro stessa lingua e che possono venire liberamente in vacanza nel loro paese, mentre non possono andare in Europa».
Il rito di passaggio
Indubbiamente il film ha il timbro del realismo magico, esplicitato anche con commoventi ed efficaci inserimenti dei sogni del protagonista (per un africano i sogni sono preziosi, aiutano a comprendere ciò che è successo davvero). Al fine di esplorare con sobrietà il dramma del «viaggio migrante», il regista non rinuncia alla modalità narrativa della favola e rivela di aver tratto ispirazione in particolare da quella di Pinocchio, confermando così la doppia anima del film che ambisce proprio al realismo cinematografico. La critica più pungente mossa al film è la seguente: «risente di problemi di drammaturgia e veridicità oltre che dei soliti luoghi comuni nei quali i registi italiani si ritrovano invischiati tutte le volte che provano a raccontare una storia africana». Garrone però precisa il suo punto di vista: «Mi sembrava che mancasse un racconto in forma visiva del viaggio, soprattutto della parte del viaggio che si svolge dall’altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare la prospettiva, guardare a cosa succede prima». In questo modo si coglie il nucleo centrale di un racconto che si propone come un vero e proprio rito di passaggio. La prospettiva è quella di chi taglia le proprie radici per inseguire un sogno. Si parte ragazzi e si arriva uomini, con ferite nel corpo e nell’anima. I protagonisti si perdono e si ritrovano, accettando di portare altri disperati nella corrente verso la salvezza. Sulla denuncia prevalgono la compassione, la fortezza e la speranza di un capitano adolescente. Anche lo spettatore salpa per vivere il viaggio epico compiuto dalle nuove generazioni provenienti da vari continenti, «per cercare di far rivivere l’esperienza che loro vivono, con tutti i momenti di sconforto e disperazione, ma anche tanti momenti di speranza in cui sembra che tutto sia a un passo dall’essere raggiunto. È un romanzo di formazione».
La parabola del viaggio
La critica al film arriva anche a denunciare i «problemi di drammaturgia e veridicità, oltre che dei soliti luoghi comuni nei quali i registi italiani si ritrovano invischiati tutte le volte che provano a raccontare una storia africana». Si può ribattere che Garrone vuole offrire una visione quasi sovvertitrice del fenomeno migratorio, un tema cruciale nell’attuale dibattito politico che sta scuotendo le democrazie occidentali. Andando oltre i luoghi comuni, il film restituisce alla migrazione la dimensione umana in cui si evidenzia lo spirito universale proprio delle giovani generazioni del nostro mondo. L’artista sceglie di interrompere il film al momento dell’avvistamento della terra e della salvezza, grazie all’intervento della Guardia costiera. In quel momento il capitano urla un Io orgoglioso, perché è stato capace di portare in salvo quelli che dipendevano da lui. In questo modo, viene lasciata alla nostra immaginazione il futuro del coraggioso capitano. Sicuramente scoprirà procedure burocratiche di accoglienza e di respingimento, davanti alle quali probabilmente usciranno mortificate le sue speranze. I film sull’immigrazione possono avere registri paternalistici, privi di autenticità o didascalici. Il rischio è di rimanere intrappolati nella retorica o di rappresentare le persone come macchiette o ancora di usarle come specchio. A mio avviso, Garrone non è caduto in queste tentazioni ed è riuscito a ideare un film quasi impossibile, per raccontare una storia presente e trasfigurarla in un paradigma. Un cameo finale mostra la cartina geografica in cui è tracciato il lungo e pericoloso percorso compiuto dai due protagonisti: è un omaggio alla grandiosità dell’impresa. Io capitano mette in scena insomma un viaggio epico, una favola sul passaggio all’età adulta, l’incontro traumatico con la separazione dalle origini e dagli affetti, il pericolo di perdersi e di morire. «Mi interessava fare un film che in parte fosse epico, ma allo stesso tempo… un romanzo di formazione. Pensavo all’Odissea, ma anche a Pinocchio, all’Isola del tesoro di Robert Stevenson e a Cuore di tenebra di Joseph Conrad».
Vale la pena ricordare che il primo lungometraggio di Matteo Garrone raccontava la quotidianità di alcune prostitute nigeriane nella campagna romana. «Allora non ne ero consapevole del tutto, ma mi interessava l’elemento di meta-realtà, di astrazione che i corpi di queste donne portavano nella nostra quotidianità… usavo queste storie per raccontare l’Italia che stava cambiando, i migranti erano specchi che aiutavano a capire come cambiava il paese».
MARIO CHIARO