Centolanza Chiara Grazia
Il mistero della preghiera
2024/4, p. 30
Realtà divina a noi rivelata e partecipata nel Figlio, la preghiera è relazione d’amore, evento che ci sorprende, l’accadere gratuito di un incontro.

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VITA CON DIO
Il mistero della preghiera
Realtà divina a noi rivelata e partecipata nel Figlio, la preghiera è relazione d’amore, evento che ci sorprende, l’accadere gratuito di un incontro.
La preghiera è nella sua essenza più profonda Mistero, una realtà divina a noi rivelata per compiacenza del Padre nel Figlio incarnato, realtà a cui per sola grazia ci è dato di partecipare. Prima della mia preghiera, della mia volontà di pregare, c’è «l’intimità di Dio offertami in Gesù Cristo». C’è qualcosa che mi precede. Parafrasando Benedetto XVI, potremmo dire che all’inizio della preghiera non c’è una decisione e neppure un compito affidatoci, «bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona».
E se non vogliamo dare definizioni della preghiera, quanto piuttosto sorprenderne l’accadere, pure possiamo affermare che essa è una relazione d’amore e l’amore è il suo orizzonte.
In principio la preghiera
«In principio il Verbo era presso Dio» (Gv 1,2) e «Vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi» (1Gv 1,2): presso, in greco pròs. Il Verbo della vita, che si è reso visibile prendendo una carne umana, tale per cui l'abbiamo udito, veduto, contemplato, toccato, questo Verbo della vita – che è in principio, che è Dio – è rivolto verso Dio Padre: la sua vita è il suo stesso esser proteso amorosamente verso il Padre.
In principio è la relazione. E dalla relazione, nello «spazio» aperto dalla relazione, ha origine il tutto. La relazione presuppone l'alterità e una reciprocità di sguardi, un volto a cui continuamente rivolgere lo sguardo, a cui donarsi con devozione. Il Figlio è eternamente vòlto al Padre; e questo sguardo posato sul Padre ha i tratti di ciò che chiamiamo preghiera, e che in verità è questione di Vita eterna: il Figlio prega eternamente il Padre, è generato, si riceve e a Lui si restituisce. La sua vita è preghiera. In principio è la preghiera.
La preghiera non è cosa umana, è il Mistero divino che si apre davanti a noi e ci invita ad entrare; è la stanza nuziale, ove ci scopriamo come la sposa del cantico, ancora acerba e inesperta nell’arte dell’amore, desiderosa che il Diletto la inizi infine all’amore (cf. Ct 8,7-8).
Pregare è relazione, è un evento che accade, e quindi è dono, è l’accadere gratuito e inaspettato di un incontro: Dio alla ricerca dell’uomo per offrirgli la sua amicizia! La voce del Signore risuona senza sosta: «Adamo dove sei?» e «Alzati, amica mia, mia bella e vieni, presto! Aprimi, sorella mia», il suo desiderio, la sua chiamata che sollecita la nostra risposta. Non possiamo allora pensare al gesto della preghiera in termini di efficienza, di un ottenere o produrre qualcosa, fosse pure la santità e la salvezza. Occorre passare dalla concezione dell’homo faber a quella dell’homo liturgicus, che vive la dimensione della gratuità, del perdere tempo, della lode. Il ringraziamento è la forma e l’espressione dell’accettazione del primato dell’amore di Dio: il suo amore è prima di ogni mio tentativo di pregare. Quanto non è ovvio pregare nella consapevolezza di una Presenza, di essere davanti al Signore! Anzi, alle volte quello della preghiera diventa il tempo di una profonda solitudine e di uno sterile ripiegamento su di sé, che alla lunga sfianca e lascia aridi. Ci accorgiamo quanto non sia semplice dire «Tu» al Signore. Forse perché pregando non mettiamo in gioco il nostro autentico «io»? Forse perché, distratti, senza voglia, spesso non presenti a noi stessi, fatichiamo a rimanere perseveranti in quella sensazione di star perdendo tempo. Ma pregare è perdere tempo per ritrovare un senso: il senso di Dio e dell’uomo, il senso della vita e del mondo secondo Gesù Cristo. Pregare è perdere tempo per avere un criterio di lettura, che è quello della sapienza di Dio, nei confronti della realtà, della storia. Per questo, la perdita di tempo, che è la preghiera, si avvicina all’ascoltare e al verificare la vita. È un momento di verifica della vita.
La preghiera non è in primo luogo un compito affidato all’uomo (ciò che immagina la religiosità naturale e pagana), e quindi da lui manipolabile, ma un «modo» di essere di Dio.
È nella relazione d’amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito, è in questa preghiera che siamo desiderati, amati, creati, e quindi non possiamo comprenderci e conoscerci in verità se non a partire da questo «luogo» ove c’è un posto preparato per ognuno (cf. Gv 14,2-3). C’è un «luogo» ove sempre siamo attesi e possiamo incontrare Dio, ed è il suo Figlio, il suo Verbo, vero e definitivo tempio, vera e celeste Gerusalemme, il cui accesso è ormai reso disponibile attraverso il velo della sua carne (cf. Eb 10,20). Questo «luogo» sono le sue piaghe (cf. Gv 20, 7. 25b). E questo «luogo» siamo anche noi, creati nel Figlio a sua immagine e divenuti tempio dello Spirito Santo, chiamati a divenire Chiesa, Gerusalemme.
Alzati gli occhi al cielo, disse (Gv 17,1)
Alzare gli occhi, sollevare tutta la persona al Padre: tutto orientato e proteso a Lui. Alzare gli occhi come un voler penetrare il senso di ciò che accade: è uno sguardo contemplativo, che guarda il mondo con gli occhi del Padre.
Alzare gli occhi è la posizione del Figlio e dei figli, è il gesto della confidenza, della speranza, dell’attesa, di chi è sicuro della presenza di un Padre che ascolta e soccorre: c’è un Padre che ha cura della mia vita! È il gesto di chi è pellegrino e forestiero in questo mondo e attende la patria nei cieli. È il gesto di un cuore tutto orientato, interamente preso. Si racconta di un monaco che nel deserto vegliava tutta la notte rivolto ad oriente con le mani alzate al cielo in attesa che all’alba il sole che sorgeva lo illuminasse totalmente.
Quanta resistenza in noi a sollevare gli occhi: «Chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). Solleva lo sguardo al cielo chi non confida in sé e nelle proprie forze, ma nel braccio del Signore. Alzare lo sguardo dalla condizione umile in cui ci troviamo, che siamo, l’humus da cui siamo tratti. E allora – o mirabile umiltà, o povertà che dà stupore – vedremo chinarsi, scendere e posarsi su di noi lo Sguardo creatore, amante, che vuole risollevarci e riportarci a Sé!
La preghiera è evento…
Se la preghiera è evento e accade, è allora qualcosa che ci sorprende, ci stupisce, ci raggiunge gratuitamente. Non è opera nostra, di cui si abbia il controllo. Accettare di perdere il controllo al contrario potrebbe essere un preambolo importante alla vita di preghiera, un portale che ci introdurrebbe nella preghiera autentica: disporsi ad un abbandono confidente, ad una resa non nel senso militaresco del termine, piuttosto nel suo senso sponsale e mariano. E in questa resa accade di ricevere l’Altro e di riceversi, di essere restituiti a noi stessi nella nostra verità, di trovare nel povero campo del nostro cuore il Tesoro nascosto, che va continuamente disinsabbiato, quella sorgente di Acqua viva, che può zampillare in eterno, nascosta nell’alabastro del nostro corpo, nel pozzo del nostro abisso.
…di nascita
E se è evento, è essenzialmente l’evento della nascita, nascita dall’alto (cf. Gv 3), nascita dallo Spirito e nello Spirito, finché Cristo non sia formato in noi (cf. Gal 4,19). Tutte immagini che ci dicono una verità da non dimenticare: il Tesoro è dato, va solo scoperto, ri-scoperto, a tratti lo dimentichiamo ma ci abita; la sorgente esiste, va solo liberata; l’uomo nuovo è concepito, va solo partorito. La preghiera cioè è data, è lo Spirito infatti che prega in noi con gemiti che per lo più non percepiamo, di cui non siamo coscienti (cf. Rm 8,26), che ahimè spesso non assecondiamo. È il dialogo eterno d’amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito cui ci è dato di partecipare, nel tempo. E non come spettatori davanti ad una rappresentazione, ma figli nel Figlio.
Se è evento, noi non possiamo che attendere e fare silenzio, silenzio che è attesa di uno Sconosciuto che pure, quando irrompe, ri-conosciamo come più intimo a noi di noi stessi. Questa attesa e questo silenzio dicono la nostra radicale incapacità a pregare, la nostra assoluta alterità e infinita distanza da Dio, che solo Lui può e vuole colmare. È l’esperienza più autentica che ci sia data di vivere: la preghiera è impossibile all’uomo. Quando finalmente e provvidenzialmente giungiamo a questo punto, è importante perseverare, rimanere, non fuggire col trasformare il tempo della preghiera in altro (cf. Regola non bollata 22, 19ss).
Perseverare e rimanere, però, non impegnandoci come nella lotta con un nemico. È un perseverare con dolcezza, quello che ci è chiesto in questi momenti, un lasciarsi fare dall’attesa, che è desiderio, sopportando forse un certo senso di abbandono, di desolazione, di vuoto, di angoscia e alle volte anche di disperazione; sentimenti che potranno apparirci negativi e che invece possono divenire la porta di accesso alle nostre profondità, ove fatichiamo ad entrare e permanere, ma dove si radica la verità dell’origine (divina) e degli inizi (umani) della nostra persona. Solo lì può sgorgare la fonte dell’Acqua viva, solo lì si può rinascere dall’alto, solo lì si trova il tesoro. Mi piace credere che questo luogo, questo abisso, queste profondità siano quanto descritto dall’amica del Ct: «Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha concepito; tu mi inizieresti all’arte dell’amore» (cf. Ct 8,2; 3,4). Occorre portare il Signore in questa stanza, la più segreta ed interna della casa, in quel segreto, infatti, il Padre parla (cf. Mt 6,5ss). Forse è più esatto dire: occorre lasciarsi prendere per mano da Lui e farsi accompagnare in quella stanza, dalla quale ci siamo allontanati, perché è lì, che il Diletto viene a svegliarci dal sonno della morte (cf. Ct 8,5). In quella stanza la brezza divina ha soffiato all’aurora della nostra esistenza e ha lasciato la sua impronta indimenticabile. Quella stanza deve divenire un nuovo cenacolo, ove, irrompendo, lo Spirito della Pentecoste faccia di noi un’altera Maria, una «Vergine fatta Chiesa». È solo da lì che può innalzarsi al cielo il grido più autentico: «Dal profondo a Te grido, o Signore» (Sal 130,1), che dice la nostra povertà e miseria, il nostro bisogno radicale di una salvezza e di una vita che non possiamo darci da noi. Se ci sarà dato di arenarci sugli scogli della nostra incapacità, se solo lo vorremo si aprirà lo spazio per essere visitati, incontrati, raggiunti. Lì il Diletto ci inizierà all’arte dell’amore.
È necessario che la mia preghiera fallisca, perché Egli mi possa far dono della sua, gratuita, imprevedibile, indisponibile, pura grazia.
sr. CHIARA GRAZIA CENTOLANZA
Sorelle povere di S. Chiara, Monastero SS. Trinità, Gubbio