FUSARELLI MASSIMO, GENUIN ROBERTO, TROVARELLI CARLOS ALBERTO, CANO TRUJILLO AMANDO
San Bonaventura una voce ancora attuale
2024/4, p. 15
Lettera dei Ministri generali del Primo Ordine e del Terz’Ordine regolare nel 750° anniversario della morte di San Bonaventura.

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Testimoni
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1274-2024
San Bonaventura
una voce ancora attuale
Lettera dei Ministri generalidel Primo Ordine e del Terz’Ordine regolarenel 750° anniversario della morte di San Bonaventura
L’anniversario dei settecentocinquanta anni della morte del Dottore Serafico, avvenuta il 15 luglio del 1274, ci offre l’occasione non solo di ricordare e celebrare il servizio da lui dato all’Ordine e all’intera Chiesa, ma anche di riproporlo come un dono ancora valido per la nostra epoca. È quanto ci diceva già papa Paolo VI in visita al grande Convegno Internazionale del 1974, organizzato per celebrare il 700° anniversario, quando raccomandò san Bonaventura «a tutti i figli della Chiesa, affinché, attraverso la meditazione attenta del suo messaggio, potessero divenire testimoni efficaci nella Chiesa e nel mondo intero».
Consapevoli dell’importanza della sua figura, non sempre conosciuta e apprezzata in modo adeguato nemmeno nel nostro ambiente, vogliamo accogliere di nuovo l’invito di papa Paolo VI per condividere alcune riflessioni sulla sua vita e sul messaggio che da egli ci arriva, nella certezza di offrire una memoria preziosa e a noi utile per vivere meglio la nostra appartenenza all’Ordine francescano e il nostro impegno a favore della Chiesa e del mondo.
Non è facile riproporre in poche righe la ricchezza teologica e francescana contenuta nei nove volumi dell’Opera omnia di san Bonaventura. Abbiamo scelto, allora, di sottolineare alcuni aspetti dei tre principali ambiti della sua attività seguendo l’ordine cronologico del loro sviluppo. Innanzitutto, Bonaventura è stato maestro di teologia all’università di Parigi fino al 1257, quando lasciò l’incarico perché eletto ministro generale dell’Ordine, carica che gli venne ininterrottamente confermata fino al termine della sua vita; nello svolgere i due impegni egli si rivelò anche un mistico, terzo ambito della sua attività a vantaggio dell’Ordine e della Chiesa, quando pose al servizio degli altri la sua esperienza di Dio, proponendone possibili itinerari. La presente lettera diventa anche un’importante occasione per esprimere la nostra gratitudine ai tanti studiosi, frati e laici, che si sono occupati con passione e tenacia negli ultimi cinquant’anni di questa grande e complessa figura di teologo, di frate e di mistico, mantenendo viva la sua memoria e mostrando la ricchezza e l’attualità del suo pensiero.
Maestro di teologia:
con la mente in cammino verso Dio
Bonaventura nacque nel 1217 a Bagnoregio, una piccola e molto caratteristica città del centro Italia, non distante da Viterbo. Nell’anno 1235, grazie alle possibilità economiche del padre, fu inviato a Parigi per lo studio delle arti liberali. Là conobbe l’Ordine dei Frati Minori, al quale decise di aderire nel 1243. Gli venne chiesto di proseguire l’intero percorso accademico di studi in teologia, sempre a Parigi, dove nell’anno 1252/1253 ottenne il grado di magister theologiae nello studio dei frati di Francesco.
Grande è stata la sua produzione teologica. Ricordiamo solo alcuni titoli: i quattro grandi volumi del Commento alle sentenze, le Questioni teologiche insieme ai Sermoni teologici, il famoso opuscolo del 1259 dell’Itinerario della mente a Dio, per finire con le tre serie di Conferenze (Collationes) universitarie tenute a Parigi negli ultimi anni di vita, delle quali la più famosa è sicuramente l’Hexaemeron. L’opera più interessante per ripercorrere la sua teologia è, però, sicuramente il Breviloquium, composto verso il 1257 come sintesi teologica offerta ai suoi studenti e a tutti i frati. In esso, infatti, Bonaventura tenta di «abbreviare» e rendere più facilmente accessibile la descrizione del piano di salvezza presente nelle Scritture, il quale, «trasmesso sia negli scritti dei santi che in quelli dei dottori in modo a volte diffuso», rischia di essere percepito da principianti «confuso, disordinato, inesplorato come una foresta impenetrabile» (Breviloquium, Prol. 6,5). Di questa opera ricordiamo alcuni elementi significativi della sua teologia.
Il primo aspetto è relativo alla passione nel fare teologia, che richiede la fatica del metodo: chi studia teologia deve possedere la disciplina della mente, mossa dall’amore devoto, appassionato e ardente. Dunque, tra i lavori a cui è chiamato il frate vi è anche quello intellettuale, altrettanto o forse più faticoso e impegnativo di quello manuale. Si tratta, infatti, di far passare il credibile (ciò che è creduto per fede) all’intellegibile, dandone le motivazioni: perché solo così l’amore di quanto creduto raggiungerà il suo culmine, offrendo alla ragione la definitiva argomentazione per aderire alla fede. L’impegno è arduo e faticoso, perché il maestro è chiamato «a portare alla luce le cose nascoste». E allora, come Bonaventura nota in anticipo, sempre nel prologo del Breviloquium, «nessuno troverà questo compito facile se non con una lunga pratica nella lettura del testo, affidandone il senso letterale alla memoria» (Prol. 6,1). Tutto ciò sarà possibile solamente se si hanno chiari lo «scopo e gli obiettivi», a ragione dei quali assumere con serietà e impegno la fatica dell’intelligenza della fede: «Allora conosceremo veramente quell’amore che supera ogni conoscenza, e così saremo ricolmi della pienezza di Dio» (Prol. 4). Perché la teologia ci permette di crescere nel bene e di abbracciare la salvezza: ut boni fiamus et salvemur (Prol. 5,2).
Il Breviloquium mette in luce un ulteriore elemento della teologia bonaventuriana: il cristocentrismo. Nella divisione settenaria del testo, che inizia con il trattato su Dio «Uno e Trino” e culmina nel ritorno escatologico dell’uomo a Dio, il centro testuale è occupato dal Verbo incarnato. In questa prospettiva Cristo emerge come la chiave della storia della salvezza, la «perfezione dell’universo», la fonte della nostra ri-creazione. La vita cristiana si dispiega, dunque, entrando con l’intelligenza e l’amore nel mistero della storia di salvezza, che in Cristo ha la sua logica definitiva.
Perché soltanto attraverso la via di Cristo si giunge allo stupore intelligente di Dio! Nella teologia di Bonaventura si riascoltano, in fondo, i sentimenti di Francesco d’Assisi che esclamò: «Nient’altro dunque dobbiamo desiderare se non il solo vero Dio, il quale è il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene, che solo è buono!» (Rnb 23,9: FF 70).
Da vero figlio del poverello, Bonaventura contemplava l’Altissimo come mistero infinito di bontà, il quale si dona attraverso Cristo in tutte le realtà. Il Padre, fonte ingenerata di bontà, comunica totalmente e infinitamente la propria natura divina al suo Figlio prediletto, la «persona mediana» della Trinità. Nel loro reciproco soffio d’Amore sono uniti nel vincolo dello Spirito, il «dono in cui sono stati dati tutti gli altri doni». Esso si espande poi a tutta la creazione e ad ogni creatura, riportando ogni cosa alla pienezza dell’amore divino, che è il sommo Bene e tutto il Bene.
Momento espressivo e produttivo del Bene è l’atto creativo del cosmo che resta in continua espansione, non solo in termini di natura ma anche di conoscenza. Sia l’essere sia il conoscere rivelano la stessa origine e lo stesso scopo: la pienezza e l’espandersi del Bene. Entrambi sono scritti nel «Libro della Creazione» e possono essere letti dall’intelligenza e dall’amore dell’uomo, chiamato a riconoscere e ad amare in ogni cosa il Dio Uno e Trino. È precisamente quanto ci ricorda Papa Francesco nella Laudato si’, riproponendo esplicitamente Bonaventura: «Tutta la realtà contiene in sé una struttura propriamente trinitaria [...] ogni creatura porta in sé una struttura propriamente trinitaria» (n. 239); da ciò – sempre appellandosi al Santo di Bagnoregio – dovrebbe conseguire una «riconciliazione universale con tutte le creature» (n. 66). E ciò è possibile perché – come dice Bonaventura – «Il Verbo divino è in ogni creatura e perciò ogni creatura parla di Dio» (Commento all’Ecclesiaste, c. 1 ad resp.).
Rispecchiamento privilegiato delle relazioni trinitarie è la persona umana, la quale, con il dono infuso dello Spirito Santo, porta a perfezione il mistero contenuto nell’intero universo. È in questo contesto antropologico che Bonaventura qualifica la persona umana come «microcosmo», non solo perché paragonabile al «macrocosmo» ma anche perché ne è il suo compimento o, viceversa, la sua distruzione: la qualità della vita umana condiziona la qualità dell’ambiente in cui vive. Lo ricorda continuamente papa Francesco, richiamando tutti al grido che sorge dalla terra e dai poveri. Ogni volta che favoriamo «la fraternità e l’amicizia sociale» tra i popoli, favoriamo anche la qualità ambientale sulla terra, difendendola dalla nostra rivalità e ingordigia.
Insomma, secondo Bonaventura, l’intelligenza teologica deve diventare esperienza di Dio e passione per questo mondo, permettendoci di scoprire in esso un segno chiaro dell’amore divino. Il maestro di Bagnoregio ci interroga con forza su quanto l’ascolto, non solo delle Scritture ma anche del grido congiunto della terra e dei poveri, illumini la nostra intelligenza e il nostro affetto, rendendoci capaci di «portare alla luce le cose nascoste (di Dio)» e di essere un dono per «tutti i figli della Chiesa» e del mondo.
Ministro dell’Ordine: una guida appassionata
Il 2 febbraio 1257, all’età di circa 40 anni, la vita di san Bonaventura cambiò radicalmente. Durante il capitolo celebrato a Roma, nella chiesa dell’Ara Coeli, dove convennero un centinaio di frati in rappresentanza delle trentatré province dell’Ordine, i frati, su suggerimento anche del generale uscente, Giovanni da Parma, elessero un frate che non partecipava al capitolo ed era a Parigi: Bonaventura da Bagnoregio.
Fin da subito egli ebbe coscienza di quale fardello avrebbe dovuto farsi carico: il governo di 30.000/35.000 frati sparsi in tutta l’Europa, dall’Inghilterra fino alla Mongolia/Cina e al Nord Africa. La crescita così rapida, insieme alla complicata presenza nell’Ordine di profonde diversità culturali, costituivano motivi di grave preoccupazione, da affrontare con grande attenzione e passione. È quanto emerge nella sua prima lettera circolare, scritta subito dopo l’elezione, nell’aprile del 1257. Oltre a richiamare i frati alla conversione della mente e del cuore su diversi punti della vita minoritica, Bonaventura volle ricordare quale fosse la loro vocazione all’interno della Chiesa: «essere specchio di piena santità» (Lettera I, 1, in Opere di san Bonaventura, Opuscoli francescani/1, vol. XIV/1, Roma 1993, 113). Tra le diverse mancanze richiamate dal ministro generale in quella lettera, una sembrerebbe talvolta ancora valida: «fate lavorare i fratelli pigri».
Per favorire questo rinnovamento della qualità della vita, Bonaventura, sempre su richiesta dei capitoli generali, scriverà due importanti testi. Il primo è quello presentato nel 1260, al Capitolo di Narbona, quando l’assemblea approverà le Costituzioni generali, nelle quali il compilatore aveva riordinato e completato le tante e confuse costituzioni che l’Ordine, a partire dal 1239, si era dato negli anni. Nel Capitolo successivo, celebrato a Pisa nel 1263, l’assemblea dei frati accolse e rese ufficiale la seconda opera prodotta da Bonaventura: la Leggenda Maggiore e La leggenda minore di san Francesco, testi con i quali si fissava per tutti e per sempre la definitiva narrazione sulla santità di Francesco. Con le due opere, quella giuridica e quella narrativa, Bonaventura offriva ai frati una duplice e complementare serie di indicazioni: le norme giuridiche da seguire e il modello di vita da imitare.
La qualifica di Bonaventura di «secondo fondatore dell’Ordine», sebbene sia esagerata, ha tuttavia in sé una parte di verità. Con la sua lunga azione di governo egli dette una definitiva identità ai frati minori, ribadendo e chiarificando un duplice mandato: un impegno forte per l’evangelizzazione e una fedeltà attenta alla propria vocazione minoritica. In ambedue gli aspetti la figura di san Francesco costituiva il riferimento decisivo: la sua santità ne era la garanzia. È quanto Bonaventura anticipa con grande solennità nel prologo della sua Leggenda, dove Francesco è qualificato in quanto «messaggero di Dio, degno dell’amore di Cristo e posto come esempio per la perfetta sequela di Cristo» (LegM prol. 2: FF 1022). Insomma, come generale dell’Ordine egli si assunse con coraggio e intelligenza un compito delicato: custodire gli elementi dell’ideale dei primi frati, integrandolo con gli sviluppi identitari dell’Ordine fortemente e ampiamente impegnato nell’attività pastorale e culturale per la promozione della fede e della vita cristiana.
Due altre opere «francescane» del Santo di Bagnoregio vanno menzionate. Per la formazione dei novizi, nel 1260 compose una Regola per i novizi in cui, tra gli altri aspetti, ricordava a coloro che volevano abbracciare quella vita che «la povertà volontaria è il fondamento dell’intero edificio spirituale». L’altro testo è l’ampia e ricca raccolta dei Sermoni domenicali e dei santi (1267-1268): cosciente dell’inadeguata preparazione dei fratelli per l’ufficio di predicazione, Bonaventura, con le sue prediche, voleva non solo richiamare loro all’importanza di questo compito, ma anche offrire uno strumento per aiutarli ad assolvere meglio il loro servizio.
Si calcola che Bonaventura, durante il suo mandato di ministro generale, abbia speso un quarto del suo tempo in cammino per le strade dell’Europa. I suoi viaggi come animatore e guida dell’Ordine di fatto terminarono il 23 maggio 1273, quando Gregorio X lo nominò cardinale vescovo di Albano, chiedendogli di impegnarsi per la preparazione del secondo Concilio di Lione, che sarebbe stato celebrato nel maggio dell’anno successivo. In quell’occasione fu convocato proprio a Lione anche un Capitolo generale straordinario per procedere alla nomina del successore di Bonaventura alla guida dell’Ordine. Fu eletto Girolamo da Ascoli, il futuro papa Nicolò IV. Due mesi più tardi, durante lo svolgimento del concilio, Bonaventura, la domenica mattina del 15 luglio, lasciava questo mondo per congiungersi a Colui che aveva cercato con tutto il cuore e la mente. Le sue esequie furono celebrate il giorno successivo. Negli Atti conciliari si ricorda quell’evento con queste parole: «Bonaventura fu amato da Dio e dal popolo dei fedeli» e «tutti coloro che lo incontrarono in vita erano pieni di profondo affetto verso di lui».
Come ministro generale, egli ci affida in eredità una testimonianza chiara e forte: la sua passione per l’Ordine, al quale aveva consegnato la memoria santa di Francesco, quale misura definitiva della fedeltà alla sua vocazione minoritica e all’impegno pastorale.
In tal senso, Bonaventura, come «ministro», ci invita a porre la domanda sul nostro senso di appartenenza all’Ordine, stimolandoci a viverlo sia come dono ricevuto da Dio sia come impegno da realizzare insieme, a favore della Chiesa e del mondo.
Mistico dell’amore:
l’affetto, apice della conoscenza
Nella storia, Bonaventura, più che come ministro e maestro, è stato forse ricordato più in quanto mistico fino ad essere definito da Leone XIII «il principe della teologia mistica». Ed è vero: per Bonaventura nella mistica si compie il cammino sia dell’intelligenza applicata alla fede sia il senso dell’appartenenza all’Ordine minoritico, perché nell’uno e nell’altro caso il fine è sempre lo stesso: il «gusto» di Dio.
In questo cammino il punto di riferimento posto da Bonaventura è sicuramente l’evento mistico delle stimmate di san Francesco: «L’ardore serafico del desiderio, dunque, lo sopraelevava in Dio e un dolce sentimento di compassione lo trasformava in Colui che volle, per eccesso di carità, essere crocifisso» (LegM XIII, 3). Di fronte alla domanda su quali siano i processi che rendono possibile «l’esperienza di Dio», Bonaventura, attingendo anche dal proprio vissuto, offre una risposta folgorante, proposta in chiusura del famoso opuscolo, Itinerarium mentis in Deum: «Se chiedete come avvengono queste cose, chiedete la grazia, non l’istruzione, non la comprensione [...] non la luce, ma il fuoco che ci infiamma completamente e ci porta in Dio» (Itinerarium VII 6).
Il processo nasce però da un presupposto antropologico: l’uomo è l’«essere dei desideri» (vir desideriorum) teso per natura verso l’oggetto unico e ultimo che solo può quietare la sua ricerca: Dio. Lo stesso Bonaventura fu un uomo del desiderio: sia nel servizio all’Ordine, sia nell’in-segnamento accademico, sia nella predicazione del Vangelo egli fu mosso dal desiderio di contemplare il Cristo crocifisso, riferimento definitivo per pensare e amare Dio. Solo in Lui, infatti, si trova la radice dello stupore che dovrebbe infiammare il cuore e la mente di ogni uomo: l’eccesso di amore con cui Egli ha scelto di essere crocifisso. Avvolti e trasportati da quell’amore si è «condotti in Dio»: «Passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre» (Itinerarium VII 6). In questo cammino di ritorno affettivo, Pasqua mistica, Cristo è dunque il medium, il centro non solo del mistero trinitario, ma anche della dinamica del cuore dell’uomo nel suo desiderio di Dio: Egli è l’unico Mediatore «per ricondurre gli uomini a Dio» (De re-ductione 23).
Si comprende da questi accenni che la mistica di Bonaventura è essenzialmente relazionale, ordinata verso l’Altro, cioè in cammino verso Dio, mediante la carne umana di Colui che, per eccesso d’amore, si è fatto uno di noi per renderci uno con Dio. Il misticismo bonaventuriano può essere dunque paragonato ad un camminare dell’uomo accompagnato dall’umanità di Cristo quale unica via al Padre. Di conseguenza, nella sua proposta cristologica della via mistica si realizzano le parole con cui Francesco di Assisi apre la Regola non bollata: «La vita e regola dei frati è seguire l’insegnamento e le orme del Signore nostro Gesù Cristo» (Regola non bollata I 1), colui che si è fatto Verbo incarnato e crocifisso.
In una predica sul Natale i due momenti della carne di Cristo sono posti in perfetta sintonia: «Per fare la pace perfetta, il Mediatore fedelissimo ha prima dato se stesso all’umanità nella Natività e poi si è offerto totalmente a Dio, a favore degli uomini nella Passione». Nel vedere, credere e aderire a questo mistero di amore incarnato e crocifisso si realizza il cammino dell’uomo, animato e sostenuto dallo Spirito Santo: «Non lo riceve se non chi lo desidera, né lo desidera se non chi è infiammato nell’intimo dal fuoco dello Spirito santo inviato da Cristo sulla terra» (Itinerarium VII 4).
Il dono dello Spirito, che permette di compiere la Pasqua mistica, non evita però all’uomo la fatica del cammino, cioè un’esperienza di Dio cercata e preparata mediante un procedimento fatto per gradi e con ordine. Le opere ascetico-mistiche di Bonaventura sono un’offerta di un metodo con cui esercitarsi nel desiderio e nella ricerca. Ricordiamo solo due testi: L’albero della Vita e La triplice via. Nel primo, al centro vi è la contemplazione affettiva del Cristo rivelato su quell’albero di vita che è stato la croce; nel secondo, è offerta invece la meditazione di tre momenti dell’esperienza umana, tre vie con le quali gustare innanzitutto la pace (attraverso la purificazione dei desideri), poi la verità (attraverso l’illuminazione dell’intelletto) e infine la carità (attraverso lo Spirito che infiamma l’anima per unirla all’amore crocifisso e sponsale con Cristo).
Bonaventura ci ricorda, dunque, che l’uomo è un «desiderante» chiamato ad incamminarsi verso l’Uno che dona ad ogni cosa la sua unicità, verità e bellezza.
Ma in questo cammino di incontro quotidiano con l’Uno che solamente basta, non si rischia spesso forse di essere «distratti», tirati via da Lui per essere sparpagliati nel molteplice?
Quante volte sperimentiamo questa «distrazione» in cui perdiamo il Tutto confondendolo con le parti?
Bonaventura ci ricorda, invece, che ogni cosa ha senso e valore se ci aiuta a raggiungere l’unica cosa necessaria: «essere condotti a Dio». La celebrazione centenaria delle Stimmate di san Francesco del 2024 non dovrebbe essere il tempo di una memoria dell’essenziale, grazie alla quale riottenere in modo nuovo e pieno ogni altra cosa?
Conclusione:
la triplice eredità lasciataci da Bonaventura
Nel luglio del 1274 Bonaventura terminava la sua vita spesa con generosità e passione in tre ambiti che rappresentano anche per noi aspetti costitutivi della nostra vocazione religiosa da «meditare», come ci invitava all’inizio Paolo VI, con «attenzione».
Come maestro di teologia, Bonaventura ci insegna la via dell’intelligenza sapienziale grazie alla quale passare dall’oscurità confusa della foresta ad una comprensione più profonda della nostra fede (illuminazione), portando «alla luce le cose nascoste». In quanto ministro dell’Ordine, ci ricorda l’impegno a rendere la nostra vita una testimonianza animata dalla disponibilità al rinnovamento (purificazione) in modo che, anche in circostanze temporali e culturali radicalmente diverse, la nostra vita minoritica rimanga uno «specchio luminoso di santità». In quanto mistico, ci mostra il centro da cui tutto ha origine e si compie, cioè il Cristo Crocifisso, il quale dalla croce dona «il fuoco dello Spirito Santo» per mezzo del quale raggiungiamo il nostro fine ultimo: «essere trasferiti» e «trasformati in Dio», l’Uno che riempie tutte le cose e che le rende buone e belle.
Fr. MASSIMO FUSARELLI, OFM
Fr. ROBERTO GENUIN, OFM Cap
Fr. CARLOS ALBERTO TROVARELLI, OFM Conv
Fr. AMANDO TRUJILLO CANO, TOR
Ministri generali