Pasolini Roberto
Sogni e visioni
2024/3, p. 3
Le diverse direzioni in cui potrebbero dirigersi i nostri sogni li possiamo descrivere come due movimenti «cardiaci» – sistole e diastole – che possiamo imparare a compiere per offrire forza e ritmo al corpo di Cristo di cui siamo parte.

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Sogni e visioni
Le diverse direzioni in cui potrebbero dirigersi i nostri sogni li possiamo descrivere come due movimenti “cardiaci” – sistole e diastole - che possiamo imparare a compiere per offrire forza e ritmo al corpo di Cristo di cui siamo parte.
Il primo sogno (sistole) che potremmo provare a recuperare è quello della “piccolezza” come dimensione fondamentale di una vita plasmata dalla logica del Vangelo. Offro tre spunti facendo un riferimento al Vangelo e due alla tradizione francescana.
Il testo di Mt 25,31-46, comunemente conosciuto come la parabola del «giudizio finale», contiene una rivelazione ulteriore rispetto al suo senso più immediato. Se leggiamo con attenzione l’insegnamento di Gesù, scopriamo che, più che un giudizio, quello che il Re della storia dovrà compiere nell’ultimo giorno ha la forma di una solenne dichiarazione, con la quale non si introduce nulla di nuovo nella realtà, ma si prende semplicemente atto di quello che è stato. Se poi analizziamo con cura i personaggi di questo racconto parabolico, scopriamo che Gesù intende spiegare non tanto come verranno valutati alla fine dei tempi i cristiani, ma come lo saranno i «popoli» (pagani). Lo scopo ultimo della parabola è chiarire ai cristiani come potranno salvarsi anche coloro che non hanno ascoltato la parola del Vangelo: facendo attenzione e amando i loro fratelli «più piccoli».
Proprio questi «fratelli più piccoli» sono il personaggio della parabola con cui i cristiani dovrebbero, invece, riuscire a identificarsi, dal momento che nel vangelo di Matteo con questa espressione si allude quasi sempre ai discepoli di Cristo che, abbracciando la logica del Maestro, hanno scoperto l’arte di mettersi in secondo piano per far emergere il loro prossimo.
In che modo la comunità dei figli di Dio può assolvere intelligentemente questo compito? Innanzitutto, facendo della piccolezza il vero criterio di conformità e di fedeltà al suo Maestro, il quale «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Filippesi 2,6-7). Ecco il primo significato della parabola che non andrebbe mai dimenticato né mistificato: prima di fare del bene, è bello e necessario ricordarsi di farsi (più) piccoli.
Il senso comune della parabola risulta, a questo punto, quasi rovesciato. I discepoli di Cristo non sono invitati ad avere paura dell’ultimo giorno, ma ad approfittare del tempo presente per farsi così piccoli da poter essere curati e amati dal loro prossimo.
Nella sua semplice e profonda comprensione esistenziale del Vangelo, san Francesco aveva colto benissimo questo punto e aveva cercato di trasmetterlo con passione e intelligenza ai suoi frati: «E quando sarà necessario, (i frati) vadano per l’elemosina. E non si vergognino E l’elemosina è l’eredità e la giustizia dovuta ai poveri; l’ha acquistata per noi il Signore Gesù Cristo. E i frati che lavorano per acquistarla avranno grande ricompensa e la fanno guadagnare e acquistare a quelli che la donano; poiché tutte le cose che gli uomini lasceranno nel mondo, periranno, ma della carità e delle elemosine che hanno fatto riceveranno il premio dal Signore» (Regola non Bollata, cap. IX).
Siamo soliti pensare che nel Vangelo, Gesù ci abbia chiesto di essere buoni e generosi nei confronti degli altri. L’intuizione evangelica di Francesco d’Assisi si spinge oltre, ricordandoci che esiste una cosa ancora più importante da fare, legata al nostro modo di essere: offrire agli altri l’occasione di essere buoni e generosi nei nostri confronti.
La povertà, dunque, non è il fine, ma il mezzo per riconciliarci con il nostro essere bisognosi e per stabilire relazioni di fraterna interdipendenza con gli altri. Qui finisce ogni facile entusiasmo per una vita spirituale ancora centrata su noi stessi e inizia lo stupore per un modo, davvero sorprendente, di poter intendere e vivere la libertà del Vangelo.
Uno sguardo dilatato
Accanto al sogno di una ritrovata piccolezza, potremmo provare a maturare una visione più ampia e inclusiva della salvezza del Vangelo (diastole). Un episodio, tratto dal libro degli Atti, ci può essere di aiuto. Si tratta dell’incontro tra Pietro e il centurione Cornelio (Atti 10,1-48).
Vincendo le sue iniziali resistenze (emblematiche di quelle di una Chiesa ancora ancorata alla mentalità etico-rituale ebraica), Pietro si reca a casa di persone ancora distanti dalla fede in Cristo eppure segnate da un sincero desiderio di conoscere la salvezza di Dio. Il primo degli apostoli non ha tutto chiaro ma sta prendendo coscienza di una cosa importante: nello sguardo di Dio che si è rivelato in Gesù Cristo non può esserci alcuna parzialità. Egli, infatti, si è accreditato come un Dio che accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga (cf. Atti 10,34-43).
Il forte desiderio di Cornelio e degli altri pagani libera la potenza del kerygma dalle labbra di Pietro, che non ha alcun timore di annunciare loro il mistero di Cristo, «con franchezza e senza impedimento». Forse è lo Spirito che aiuta Pietro a chiarirsi fino in fondo su alcuni aspetti, come si evince dalle ultime parole del suo discorso: «chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome». Proprio queste parole, talvolta, diventano le più difficili da pronunciare, quando le persone a cui la salvezza è rivolta appaiono a noi come categorie più o meno meritevoli di poter accedere alla vita sacramentale di cui la Chiesa si nutre. Nessuna categoria, invece, ostacola o impedisce a Pietro di annunciare il Vangelo in piena libertà, nel momento in cui si trova di fronte a persone che hanno solo il desiderio di ascoltare una parola di salvezza proveniente da Dio. Quando sono annunciati il nome e la Pasqua di Gesù accade una cosa sorprendente: lo Spirito di Dio discende, anzi letteralmente «cade» su coloro che si sono messi in ascolto. Come se il cielo si aprisse improvvisamente a causa di una pressione irresistibile verso il basso (cf. Atti 10,44-48).
È una cosa ovvia, eppure un grande stupore pervade tutti i presenti, nel vedere che al solo nome di Gesù e del suo mistero pasquale avviene una tangibile manifestazione dello Spirito, del tutto simile a quella che si è verificata il giorno di Pentecoste a Gerusalemme. E i circoncisi venuti con Pietro vanno «in estasi» nel vedere che il dono dello Spirito Santo «si versava» sui pagani. C’è il dono delle lingue e la glorificazione di Dio. Una vera e propria Pentecoste rinnovata. A questo punto, quasi incredulo, Pietro si interroga su una possibilità che, ormai, si impone all’evidenza di tutti: battezzare, senza inventarsi alcun tipo di impedimento, coloro che hanno già ricevuto il dono d’amore di Dio nei loro cuori.
Per poter giungere a questa dilatazione abbiamo bisogno di ritrovare una capacità di saper rinunciare a qualcosa, secondo la logica del battesimo. Se non siamo disposti a rinunciare a niente, come faremo a offrire al mondo il segno di speranza della risurrezione? È sotto gli occhi di tutti la grande fatica con cui stiamo facendo il lutto delle nostre presenze nei territori in cui si è sviluppata la nostra esperienza carismatica. Eppure, secondo il Vangelo, ogni volta che si rinuncia a qualcosa si sta solo decidendo di avanzare verso una forma di condivisione più ampia.
Davanti a Cornelio la primitiva Chiesa ci lascia una lezione di libertà e di audacia tutta da considerare e imitare. Per sua natura il Vangelo va sempre più lontano sia in senso geografico che antropologico, raggiungendo il limite estremo del mondo per raggiungere le lontananze dei vissuti concreti degli uomini e delle donne di ogni tempo e luogo. Una Chiesa che ha compassione delle ferite non può restare arroccata dietro i propri bastioni. Finché ci sono dei “confini di umanità” ancora inesplorati, là bisogna avere il coraggio di portare la vita secondo il Vangelo. I confini da raggiungere non sono più geografici, ma antropologici. Bisogna avventurarsi sempre più profondamente nel mistero dell’uomo.
Trasparenza discreta di Vangelo
In questo “cambiamento d’epoca” in cui siamo chiamati a vivere, il Signore ci chiama a decifrare un tempo di rinuncia a noi stessi per imparare ad accogliere senza paura la logica povera e inclusiva del Vangelo. Se avremo la pazienza e il coraggio di farlo, respingendo ogni istinto di conservazione ormai anacronistico, potremo forse riscoprire l’autenticità dei nostri carismi e sperimentare la forza irriducibile dello Spirito. Sapremo così maturare uno sguardo grato e ammirato verso tutti quei semi di Vangelo presenti e sparsi nel mondo che Dio ama. È forse l’unica via per tornare a essere quel segno umile e discreto che dice al mondo come la vita di Dio sia già venuta a dimorare in mezzo a noi per potersi compiere, con grazia e naturalezza, in ogni storia e in ogni carne umana.
fr. ROBERTO PASOLINI, ofmcap