Pasolini Roberto
Sogno e profezia nella vita religiosa
2024/3, p. 1
«Noi religiosi chi siamo? Siamo i morenti di domani oppure i viventi, oggi, per Dio in Cristo Gesù? Siamo i morti di domani o quelli che stanno vivendo già una nuova esistenza? I giorni e il ritmo della nostra vita religiosa si stanno svolgendo dentro il sepolcro oppure fuori, nei pascoli della vita abbondante?». Sono le domande che il cappuccino Roberto Pasolini ha rivolto alla 63ma Assemblea nazionale della CISM. Dopo aver dato conto nei mesi precedenti di una sintesi del suo intervento, in queste pagine pubblichiamo la sua densa relazione che sollecita i religiosi a passare da una radicalità manifesta a una profezia nascosta.

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Sogno e profezianella vita religiosa
«Noi religiosi chi siamo? Siamo i morenti di domani oppure i viventi, oggi, per Dio in Cristo Gesù? Siamo i morti di domani o quelli che stanno vivendo già una nuova esistenza? I giorni e il ritmo della nostra vita religiosa si stanno svolgendo dentro il sepolcro oppure fuori, nei pascoli della vita abbondante?». Sono le domande che il cappuccino Roberto Pasolini ha rivolto alla 63ma Assemblea nazionale della CISM. Dopo aver dato conto nei mesi precedenti di una sintesi del suo intervento, in queste pagine pubblichiamo la sua densa relazione che sollecita i religiosi a passare da una radicalità manifesta a una profezia nascosta.
La profezia del battesimo
Siamo immersi in un cambiamento d’epoca senza precedenti. Noi religiosi abitiamo, insieme a tutti, un tempo meraviglioso e drammatico, nel quale c’è un grande bisogno di ritrovare sogni e profezie in grado di farci collocare la nostra storia umana ed ecclesiale in un orizzonte più ampio. Perché servono proprio sogni e profezie? Le parole dei profeti ci servono per non sentirci in colpa, o al massimo per riconoscere quali sono i nostri peccati e, con l’aiuto di Dio, allontanarci da essi. Inoltre, le profezie ci servono per accorgerci che la storia è storia di salvezza e la realtà il luogo dove Dio regna, e che il tempo è ormai compiuto.
Allo stesso modo sono necessari i sogni perché solo in essi possiamo intuire quale appello Dio ci sta rivolgendo, come persone e come comunità cristiana a servizio del mondo. I sogni servono a recuperare lo stupore che le sorprese di Dio non sono ancora finite. Anzi proprio noi, che nel battesimo e nella vita religiosa abbiamo ricevuto il sigillo della promessa di Dio, siamo chiamati a testimoniare al mondo quella speranza che non delude.
Per entrare in questa immaginazione spirituale della realtà, ci serve una profezia iniziale, anzi un segno in grado di scuoterci da una pericolosa e falsa interpretazione della storia. Possiamo riferirci all’ultimo segno del vangelo di Giovanni, prima di quello definitivo che sarà la passione, morte e risurrezione del Signore: il segno di Lazzaro. Una lettura attenta di esso ci può mostrare indicazioni utili per rileggere la nostra situazione attuale.
Mentre a essere morto sembra solo il povero Lazzaro, in realtà, chi è ancora imbrigliato nella morsa della morte sono quelli che, nel racconto, si considerano – e sembrano essere – vivi. Lo prova il fatto che all’udire la voce di Cristo, Lazzaro – il morto – non esiterà un istante a uscire dal sepolcro. Sono invece i vivi – come Marta e Maria – ad avere ancora palesi dubbi sulla capacità e sulla piena libertà di Cristo di donare vita e risurrezione in piena libertà. Del resto, non funziona così anche il segno del cieco nato, dove quelli che non sono affetti da cecità si scoprono incapaci di riconoscere la luce (vera) di Cristo?
Posto in questi termini, il segno di Lazzaro ci pone una domanda decisiva: noi religiosi chi siamo? Siamo i morenti di domani oppure i viventi, oggi, per Dio in Cristo Gesù? Siamo i morti di domani o quelli che stanno vivendo già una nuova esistenza? I giorni e il ritmo della nostra vita religiosa si stanno svolgendo dentro il sepolcro oppure fuori, nei pascoli della vita abbondante?
In termini ancora più forti, potremmo domandarci: la profezia del nostro battesimo è realmente il fondamento della nostra consacrazione?
«Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo! Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo, dunque, siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione...» (cf. Romani 6,6-11).
Ascoltando queste parole dell’Apostolo, riusciamo a sentirci profondamente interpellati? Riconosciamo quanto il battesimo sia una forza che spinge da dentro la nostra vita verso un profondo rinnovamento di cui non dobbiamo avere paura? La domanda è scomoda ma necessaria perché, nel nostro modo di percepire il tempo e la vita che stiamo affrontando, circola troppo facilmente l’idea che noi siamo vivi mentre molte cose, a cui siamo anche affezionati, stanno morendo. Inoltre, serpeggia una certa rassegnazione per il fatto che non si riesca a fare niente per cambiare le cose.
È proprio in queste parole di Paolo che si definiscono le azioni e i verbi da vivere con rinnovata speranza e senza paura in questo tempo di trasformazioni inarrestabili: seppellire, morire, chiudere, togliere, rinunciare. Per persone consacrate, coniugare questi verbi nella propria storia personale e comunitaria non dovrebbe essere un problema o una difficoltà, ma una semplice fedeltà al ritmo della vita secondo il battesimo.
Sappiamo generare?
In questa verifica della qualità “pasquale” e “battesimale” della nostra vita religiosa, c’è un aspetto su cui vorrei richiamare un’attenzione speciale, a partire dall’esperienza che ho potuto fare in questi ultimi anni come formatore nell’Ordine francescano-cappuccino. Nell’orientamento cristiano del canone biblico, l’Antico o Primo Testamento si chiude con queste parole: «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri, perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio» (Malachia 3,23-24).
Noi sappiamo che Elia è già venuto (cf. Matteo 17,10) e che la conversione all’immagine definitiva di Dio è ormai possibile. Eppure, la storia della Chiesa ci mostra come questa conversione, verso i figli e verso i padri, resta sempre la più difficile, perché tocca profondamente l’unico vero potere di cui la Chiesa dispone, che è quello di generare il Corpo di Cristo nella storia e nel mondo.
Del resto, la conversione, prima che essere un atto morale, è una trasformazione profonda del nostro modo di sentire e di intendere le cose – anche quelle di Dio – in modo condiviso. Questo sguardo condiviso, in cui si realizza finalmente il giorno primo e ultimo del Signore, il cuore dei padri è rivolto verso quello dei figli e quello dei figli è rivolto verso quello dei padri.
Dobbiamo fare attenzione a queste parole di Malachia, perché si tratta di un’immagine non così irenica come sembra. Non ci viene detto che questo reciproco volgersi e riconoscersi sia facile e indolore. Ci viene annunciato soltanto che questa è una condizione indispensabile perché il Signore, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio, ma possa estendere a tutti la sua benedizione di pace.
Secondo l’adagio secondo cui la Scrittura si comprende attraverso la Scrittura, potremmo leggere questa profezia messianica attraverso un passo biblico legato al periodo del post-esilio, nei libri che raccontano proprio la gioia e la fatica della ricostruzione (Esdra e Neemia). Neemia si concentra maggiormente su come il popolo deve affrontare un duro combattimento, perché ci sono nemici che boicottano la ricostruzione delle mura e del Tempio. Nel libro di Esdra, le Scritture raccontano che, mentre i rimpatriati gettavano le fondamenta del nuovo tempio, molti anziani che avevano visto lo splendore del tempio precedente piangevano ad alta voce, ma i più gridavano di gioia, «…così non si poteva distinguere il grido dell’acclamazione di gioia dal grido del pianto» (cf. Esdra 3,12-13).
Il tempio viene riedificato e attorno a questo simbolo qualcuno piange e qualcun altro sorride. La novità gratifica alcuni e disorienta altri. Questa immagine biblica e la visione di Malachia possono offrirci un orizzonte in cui continuare a riflettere.
Lavorando nella formazione, mi sono accorto che una certa causa di sterilità che fatichiamo a risolvere è legata proprio a questo problema. I giovani che entrano nei nostri ambienti spesso non riescono ad apprezzare molte consuetudini e norme perché le avvertono troppo distanti dalla loro sensibilità e, in qualche modo, incompatibili con la loro intelligenza spirituale. Da parte loro, gli anziani non riescono ad apprezzare i modi in cui i giovani vorrebbero interpretare la loro consacrazione religiosa, giudicandoli troppo frettolosamente superficiali e fragili. Come sempre, la verità potrebbe stare semplicemente nel mezzo. I giovani sono chiamati a purificare le loro visioni, i vecchi a relativizzare le loro nostalgie. Solo così si possono affinare sogni e visioni che, se vengono da Dio, non sono necessariamente in conflitto. Ricordiamoci che proprio in questa felice convergenza il Signore effonde il suo Spirito: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gioele 3,1).
Se assumiamo il peso di questa profezia mettendoci dalla parte di quei “padri” che sono chiamati a offrire un futuro ai “figli”, non possiamo eludere alcune domande: con quanta speranza guardiamo al futuro? Come vediamo i giovani? Come interpretiamo questo momento che il mondo occidentale sta attraversando?
fr. ROBERTO PASOLINI, ofmcap