Scquizzato Paolo
La meditazione come pratica inutile
2024/3, p. 27
«Tutti i mali degli uomini nascono da una cosa sola: dal non saper essi restare tranquilli, in meditazione in una camera» (Blaise Pascal, Pensés, 139)

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NELLA VITA COSÌ COM'È
La meditazione come pratica inutile
«Tutti i mali degli uomini nascono da una cosa sola:
dal non saper essi restare tranquilli,
in meditazione in una camera»
(Blaise Pascal, Pensés, 139)
La Meditazione è il più piccolo di tutti i semi (cf. Mc 4, 30-32; 26-29), di tutte le azioni che l’essere umano possa compiere nel suo desiderio di entrare in relazione col Mistero, o meglio, di risvegliarsi al mondo di Dio dato che in Lui già vi siamo (cf. At 17, 28). La meditazione è pratica d’assoluta semplicità. Ed è proprio per questo che spesso viene percepita come troppo difficile. Siamo noi esseri umani a risultare molto complicati, e diffidiamo di azioni semplici. Ma meditare è veramente semplice – senza per questo essere facile – perché non viene richiesto nulla se non stare immobili silenziosamente. Meditando stiamo radicati nel puro nulla, e in questo radicamento la realtà, il nostro Sé autentico, l’essenza, il divino emerge, cresce, come, neanche noi lo sappiamo. La meditazione è momento di vuoto, dove tutto si silenzia e per questo tutto si trasforma in possibilità. Il vuoto infatti non è assenza di qualcosa, ma pura potenzialità. Dove c’è rumore e il “troppo pieno” nulla può darsi, emergere, nascere e crescere. Nella meditazione non basta far silenzio. Troppo riduttivo. Il silenzio è già fatto, va solo accolto e vissuto. Occorre piuttosto diventare silenziosi, silenziare ciò che copre e offusca la nostra autentica natura, il nostro vero Sé, il divino che siamo, l’unum necessarium per dirla con Gesù di Nazareth (cf. Lc 10, 42). Silenziati i nostri desideri arbitrari, le nostre attese, le aspettative, il nostro modo di vedere le cose, le persone, di leggere la realtà, di percepire Dio, tutte cose dettate dal nostro piccolo ‘io’ e ‘mio’, allora rimarrà la nostra essenza, il divino che siamo. Per cui la meditazione come pratica di silenzio educa a stare interamente con la realtà, positiva o negativa che sia, anche perché positivo e negativo dipendono sempre dal filtro dell’io e del mio. Occorre stare interamente con la gioia e interamente col dolore. Abbracciare la pienezza dell’essere, la vita così com’è, come desidera lei manifestarsi, e non quella desiderata o sognata da noi.
La meditazione è un atto anti-religioso
La meditazione è l’atto più anti-religioso che esista, se per religione intendiamo lo scomposto desiderio d’unirsi a una divinità. Non si arriva a esperire la divinità perché ci si è dati da fare, si son compiuti gesti, pratiche, riti per attirarsela a sé. L’Amore non è merito, ma dono. Non si può trattare il divino come dispensatore di grazie a proprio uso e consumo. In questo caso l’atto religioso sarebbe mero tentativo di conquista del ‘fuoco’ per la propria smania del proprio ego. I mercanti del tempio, Gesù li scacciò fuori proprio per non ingenerare nei suoi la tentazione che il Mistero, l’impronunciabile, l’indefinibile fosse oggetto di compra-vendita, e la preghiera un atto di mero commercio (cf. Mc 11, 7-19 e par.). Tutto è già dato. Il Mistero è l’Uno. «Non occorre che tu faccia nulla: il divino ti ha già dato tutto quello che può essere dato. Non sei stato messo al mondo come un pezzente, ma come un imperatore. Guardati dentro! Non andare da nessuna parte, non desiderare, non pensare al futuro, non pensare al passato, resta qui e ora; e improvvisamente ecco la meta! È sempre stata lì. […] Stai inutilmente correndo di qua e di là, finché a un certo punto, stanco, torni a casa: una tazza di tè è esattamente quello che ci vuole! La ricerca affannosa produce il fumo che circonda la fiamma. Il correre disperatamente in cerchio solleva la polvere che nasconde la meta. Il tuo sforzo solleva polvere, fa fumo, nasconde la fiamma. Riposati un po’, lascia che il fumo si diradi. E se non corri troppo in fretta, non sollevi più polvere. A poco a poco la perturbazione si placa e appare la luce interiore» (Osho, Tantra. La compassione suprema).
L’attenzione e il distacco
La dimensione dell’attesa – e quindi dell’attenzione – costituisce uno degli elementi sostanziali della pratica meditativa. L’attesa/attenzione presuppone che si sia lasciata ogni altra occupazione e ogni altro fine e si sia rivolti interamente a ciò che deve o può av-venire e ac-cadere. Questo presuppone un completo distacco – altro momento fondante della meditazione –, ossia una completa libertà da tutto ciò che non riguarda quella medesima attesa/attenzione, lasciando «Il proprio pensiero disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto» (Simone Weil, Attesa di Dio). Durante la pratica meditativa si crea quel vuoto per cui potrà emergere in noi non ciò che si è desiderato, ma ciò che deve e vuole manifestarsi, ossia l’imprevedibile. Ciò che si richiede – continua ancora Simone Weil – è solo «uno sguardo attento, in cui l’anima si svuota di contenuto proprio per accogliere in sé quella realtà che solo così essa vede nel suo aspetto vero». Va da sé che l’attesa/attenzione presuppone la fine di ogni nostro pre-giudizio, la libertà da ogni opinione, e, nello specifico caso del divino, la fine di ogni “immaginazione riempitrice di vuoti”. Ha ragione Christian Bobin quando scrive: «È l’imprevisto ciò che aspetto, niente altro. È quello che non mi aspetto che aspetto» (Autoritratto al radiatore). Infatti la meditazione è l’atto in cui non si prevede niente, se non l’imprevedibile. Non s’attende nulla se non l’insperato. Una “attesa senza oggetto” per dirla ancora con la Weil. Finché attendiamo ciò che crediamo di conoscere ci raggiungeranno solo fantasmi. Ci terrei a recuperare ancora la dimensione del distacco, per la sua portata fondamentale nella pratica meditativa. Cosa s’intende per distacco? Ascoltiamo Marco Vannini: «Atto morale e intellettuale insieme, con cui si sospende il desiderio e, parallelamente, si analizzano i contenuti che stanno per esso, togliendo ciò che è superficiale e andando verso l’essenziale, come si deve togliere il marmo che ricopre la statua perché essa possa apparire, o come si deve togliere la terra che ricopre una fonte perché la fonte possa zampillare di nuovo» (Lessico mistico).
Meditazione come atto di fede e di amore
È vivere un silenzio profondo nei riguardi di tutte le fonti di confusione in cui siamo immersi e con cui ci identifichiamo. Sono gli impegni quotidiani, le preoccupazioni, i ricordi, i progetti, le paure, le immagini, i pensieri, i desideri, e mille altre cose. Per poter mollare la presa è indispensabile prima essere consapevoli delle nostre distrazioni. Come si può far “cadere” se non sappiamo cosa? Se voglio dedicarmi a un oggetto devo essere interamente presente solo a quell’oggetto. Se sto guardando un fiore, un tramonto, sto totalmente col fiore e col tramonto. La meditazione è proprio questo atto di fede, in cui non ci sono più appigli o appoggi, tutto crolla e consegnandosi al Nulla che è Dio, si è da lui rapiti. «È un po’ così essere innamorati. Vuotarsi le tasche. Perdere il proprio nome. Scoprire, rapiti, la certezza di non essere nulla. […] Solo l’amore dà un senso alla mia vita, rendendola insensata a se stessa. Che cosa dire di più: la mia vita mi sfugge. Non mi raggiunge che in mia assenza. […] La mia vita fiorisce lontano da me. La vita mi dà tutto ciò che non è me e mi illumina. Tutto ciò che ignoro e che aspetto. L’attesa è un fiore semplice. Germoglia sui bordi del tempo. È un fiore povero che guarisce tutti i mali. Il tempo dell’attesa è un tempo di liberazione. Essa opera in noi a nostra insaputa. Ci chiede soltanto di lasciarla fare, per il tempo che ci vuole, per le notti di cui ha bisogno. La nostra attesa viene sempre soddisfatta di sorpresa. Come se quello che speravamo fosse sempre insperato. Come se la vera formula dell’attendere fosse questa: non prevedere niente, se non l’imprevedibile. Non aspettare niente, se non l’inatteso» (Christian Bobin, Elogio del nulla).
Meditare è perdere il proprio nome
Meditare, seguendo il poeta francese, è perdere il proprio nome. Infatti è quando “non sono” che comincio a essere: “la vita mi raggiunge in mia assenza”. La meditazione è dunque un lasciare “accadere” qualcuno dentro di me, quando io non ci sono più. Il problema è che noi siamo “moltitudine”. Dentro di noi convive una moltitudine di personaggi. Gesù chiese all’indemoniato: «Qual è il tuo nome? Rispose: “Legione”, perché molti demòni erano entrati in lui» (Lc 8, 30). A forza di riconoscerci nella legione che ci abita, non sappiamo più chi siamo. Siamo definiti da mille e mille nomi. Infatti fin da piccoli vogliamo farci un nome, e c’identifichiamo con esso. Come gli abitanti di Babele: «Poi dissero: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gn 11, 4). Quando ci domandano: chi sei? siamo soliti identificarci con ciò che facciamo, la professione, il nome, i titoli, la posizione sociale, il ruolo. In una parola: siamo la nostra carta d’identità. Ma la nostra identità è infinitamente al di là di ciò che rivela il nostro documento d’identificazione. La domanda a questo punto potrebbe essere: chi sono io oltre il nome, il cognome, la professione, la carriera, i possedimenti, le relazioni, i pensieri, i sogni, i miei deliri? Cosa rimarrebbe di me se tutto ciò scomparisse? Ebbene: io sono ciò che non sono. Io sarò pienamente me stesso quando tutte le mie identificazioni cadranno. Quando il mio ‘avere’ un nome lascerà il posto al mio essere più profondo. «Rinunciare all’io è un gioioso rito funebre. Morto come qualcuno, nasco come nessuno». (Roberto Boldrini, Io sono senza perché). «Quando l’uomo riposa in sé come nel nulla, non è limitato da altro ed è sconfinato, e Dio versa in lui la sua gloria» (Martin Buber).
Dio, se non lo cerchi lo trovi
Perciò la meditazione sarà sempre la pratica per cui la Presenza può finalmente accadere in me. È questione di “lasciar cadere corpo e mente”, come ama dire lo Zen, per esperire alla fine solo la Presenza. Occorre sperimentare l’inazione per imparare quanto sia fecondo e produttivo l’ozio nella nostra vita. Perché l’ozio non è il padre dei vizi, ma piuttosto l’antidoto a quella postura esistenziale che ha trasformato tutto in negozio, commercio, scambio, prestazione, performance. Se la preghiera è un aprirsi per essere, l’orante sarà colui che si lascerà semplicemente inebriare dalla luce che si porta dentro, rinunciando a domandare qualcosa, per sé o per altri. Egli ha già raggiunto il suo scopo.
L’amore non ha perché. Ama perché ama. Va da sé che la preghiera meditativa è senza scopo: non invoca, non chiede, non intercede, non supplica, non ringrazia. Solo sta, e stando fa “accadere”. È molto importante entrare in quest’ottica. Spesso si pensa a Dio come entità fuori di noi da scovare, cercare, e attraverso la barca delle religioni salpare oceani per raggiungerlo, ma più s’avanza verso la linea d’orizzonte, più questo si allontanerà da noi. L’aumentare della conoscenza, fa dilatare la quantità dell’ignoto. Insomma, come ebbe a dire ancora il mistico renano: «Dio, se non lo cerchi lo trovi».
PAOLO SCQUIZZATO,
prete torinese esperto di meditazione