Don Milani, testimone e profeta
2024/3, p. 19
Celebrare gli anniversari dei personaggi più illustri ha senso solo se questo ci aiuta ad alzare la nostra riflessione, ad osservare con una prospettiva diversa la realtà che stiamo vivendo. È il caso di don Milani, nato il 27 maggio 1923 e ricordato lo scorso anno da moltissime iniziative.
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Testimoni
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NELLA CHIESA E NELLA SCUOLA
Don Milani
testimone e profeta
Celebrare gli anniversari dei personaggi più illustri ha senso solo se questo ci aiuta ad alzare la nostra riflessione, ad osservare con una prospettiva diversa la realtà che stiamo vivendo. È il caso di don Milani, nato il 27 maggio 1923 e ricordato lo scorso anno da moltissime iniziative.
Figura profetica nella Chiesa e nella scuola, sacerdote spigoloso ed emarginato in vita, riconosciuto nella sua grandezza dopo la sua morte. Un successo postumo così grande che ha finito per contaminare la memoria del suo pensiero, tradotto da qualcuno in una narrazione tendenzialmente buonista: c’è chi ha addirittura parlato di “donmilanismo” per intendere quell’idea di scuola post-sessantottina, nemica della fatica e del rigore, dove si studia poco e il livello delle conoscenze scivola sempre più verso il basso. Una narrazione lontanissima da ciò che realmente fu don Milani, educatore che richiedeva (e dava) il massimo ai suoi studenti.
Lasciamo perdere quindi le strumentalizzazioni e le interpretazioni fantasiose. Non cerchiamo nemmeno di addentrarci nel pericoloso esercizio di metterci nella testa di don Milani e immaginare cosa direbbe se oggi fosse qui. Proviamo piuttosto a salire anche noi a Barbiana – per quanto metaforicamente – e leggere da lì quello che sta accadendo ai giovani del 2024.
Povertà educativa
Mettersi nella prospettiva di Barbiana significa partire, innanzitutto, dal dramma della povertà educativa, vale a dire la privazione da parte di bambini e adolescenti della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire i propri talenti. Una ricerca di Save the Children del maggio 2022, incentrata sulle disuguaglianze nella scuola italiana, ci dice che il 12,7% degli alunni in età scolare non frequenta, mentre il 9,7% dei diplomati (dati INVALSI) non ha le competenze minime necessarie per entrare nel mondo del lavoro e dell’università. Quasi la metà dei bambini e adolescenti non ha mai letto un libro, quasi 1 su 5 non fa sport, il 67,6% degli under 17 non è mai stato a teatro, il 62,8% non ha mai visitato un sito archeologico, il 49,9% non è mai entrato in un museo. E, se dai bambini ci spostiamo ai giovani, ci imbattiamo nell’enorme questione rappresentata dai NEET: secondo le rilevazioni ISTAT, i giovani che non lavorano e non studiano tra i 15 e i 34 anni sono oltre 5,7 milioni (dati di marzo 2023). Nello specifico, sono 4.252.000 quelli della fascia d’età 15-24 anni e 1.493.000 quelli tra i 25 e i 34 anni. L’Italia ha così raggiunto un triste record: è il Paese con il maggior numero di NEET all’interno dell’Unione Europea.
Povertà educativa e disuguaglianze
È abbastanza evidente che la povertà educativa e quella economica sono fenomeni che spesso si intrecciano e si influenzano reciprocamente. È sempre Save the Children a informarci che, in Italia, i minori che si trovano in una condizione di povertà assoluta sono 1 milione e 382.000 e sappiamo che quasi sempre, in certe condizioni di vita, l’attenzione per cultura e istruzione viene meno, non solo per la maggiore difficoltà nell’acquisto di libri o materiale scolastico. Il report di Save the Children ha anche il merito di mettere in luce un altro aspetto non sempre considerato a dovere: la dispersione scolastica dipende in modo determinante dal tipo di offerta educativa che viene data. Là dove non ci sono asili nido, si trovano scuole senza il tempo pieno, abbiamo edifici vetusti o anche semplicemente la mancanza di mensa e palestra, le cose peggiorano sensibilmente. Si tratta di un dato che non avrebbe sorpreso don Milani ma che forse non è sufficientemente considerato nel dibattito spesso sterile che si sviluppa attorno al concetto di merito.
I Pierini
Fin qui abbiamo parlato di chi vive in condizioni di povertà, economica ed educativa. Ma sono abbastanza convinto che, osservando da Barbiana la condizione giovanile di oggi, dobbiamo occuparci anche dei cosiddetti “Pierini”. In Lettera a una professoressa Pierino è l’alunno modello, figlio di una famiglia benestante, accudito dalle attenzioni di mamma e papà, accompagnato in macchina fin sulla soglia della scuola. Non c’è bisogno di sottolineare quanto questi pierini siano oggi molti più di allora, ma forse vale la pena osservarli un po’ più da vicino: non vedremmo più i figli della borghesia del boom, con la strada spianata davanti e un futuro sempre più roseo. Vedremmo piuttosto giovani fragili, impauriti, spesso privi di speranze. Qualche dato. Secondo ISTAT sono 220.000 i ragazzi tra i 14 e i 19 anni che si dichiarano insoddisfatti della propria vita e si trovano in una condizione di scarso benessere psicologico. Numeri che sono raddoppiati dopo il Covid: nel 2019 erano il 3,2% del totale, nel 2021 sono arrivati al 6,2%. Nel maggio 2023 il periodico Vita ha dedicato un suo numero alla condizione giovanile, portando numeri drammatici: il Pronto soccorso dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma nel biennio 2021-22 ha avuto un +96,8% di accessi per disturbi del comportamento alimentare; i tentati suicidi fra adolescenti sono aumentati del 75% negli ultimi due anni e oggi se ne conta in media uno al giorno; i ragazzi hikikomori sono 54.000. Che la situazione sia drammatica lo conferma anche la Sinpia (Società italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) che, pochi mesi fa, ha lanciato un grido di allarme: sono oltre 2 milioni i minorenni con disturbi psichici, mentre soffre di ansia e depressione un minore su quattro.
Una questione di leggi e risorse
Difficile dire come avrebbe reagito don Milani. Ma il primo passo per noi deve essere la consapevolezza di questo disagio. Non giriamoci attorno: servono sicuramente più investimenti per garantire un’azione educativa in grado di arrivare soprattutto dove ce n’è più bisogno, in quelle aree del nostro Paese in cui la povertà educativa e l’assenza di una proposta scolastica completa coincidono colpevolmente. Fra i vari dati citati in precedenza ne manca uno, quello della spesa in istruzione: l’Italia investe in questo settore il 4,3% di PIL. Per dare un’idea, la media dei Paesi UE è al 5%, fanno peggio di noi solo Bulgaria, Romania e Irlanda. Un’ampia riflessione è poi necessaria sul mondo della scuola, un circuito che tende sempre più all’autoreferenzialità, con insegnanti sottopagati e demotivati, un sistema di reclutamento dei docenti che somiglia al gioco dell’oca e la mancanza di qualsiasi azione atta a valorizzare i bravi insegnanti e allontanare gli incapaci. Insomma i motivi di preoccupazione sono molti e la politica non può ignorarli. La risposta della destra è chiara: tornare al passato, innalzare il totem del merito, vedere in don Milani un “cattivo maestro” che ha dato il via alla distruzione dell’istituzione scolastica. Più fumosa ma comunque evidente è anche la risposta della parte più ideologica della sinistra: ribellarsi a qualsiasi forma di selezione e valutazione degli insegnanti, preclusione verso il sistema delle scuole paritarie, rifiuto del collegamento tra scuola e lavoro.
Non è solo una questione politica
A mio parere, però, non ce la caviamo soltanto citando la politica cattiva che è inefficiente e che non stanzia i fondi necessari. Non si tratta solo di decidere come educare, ma piuttosto dobbiamo capire a cosa educare. Perché molti dei dati letti precedentemente derivano anche da una assoluta inadeguatezza del mondo degli adulti.
Illuminante, in questo senso, sono gli studi fatti dallo psicologo Matteo Lancini, presenti anche nella sua ultima pubblicazione (Sii te stesso a modo mio – Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023). Secondo Lancini, se «in passato i bambini erano dominati dal Super-io, che si plasmava a partire dall’interiorizzazione di norme e valori etico-comportamentali degli adulti di riferimento», siamo poi passati a una «famiglia narcisistica», dove «il Super-io viene sostituito dall’ideale dell’Io» e «i bambini vengono caricati di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura». Tutto questo ha poi avuto un’ulteriore evoluzione nella famiglia di oggi, quella che Lancini definisce “post-narcisista”, in cui il culto dell’affermazione del bambino si incontra con la fragilità dell’adulto. Ecco quindi bambini che devono fare sport, andare bene a scuola, vestire alla moda, suonare strumenti e parlare lingue diverse: essere sempre perfetti per soddisfare le esigenze di genitori che, in essi, non vedono altro che un prolungamento di se stessi. E, se qualcosa non va per il verso giusto, subito a precipitarsi da qualche specialista, sperando di risolvere il problema medicalizzandolo. «Ai figli, agli alunni, ai giovani pazienti, agli allievi delle società sportive – scrive Lancini – viene continuamente chiesto, in nome della fragilità adulta, di dare significato ai propri comportamenti e bisogni. Il bambino prima e l’adolescente poi sono alla disperata ricerca di adulti significativi, che li riconoscano e che li supportino, ma si trovano invece in una situazione in cui a essere pretese non sono tanto ottime prestazioni in tutti gli ambiti e conferme prestazionali, ma un costante iper-adattamento».
Essere adulti (e testimoni)
Non è facile essere bambini o adolescenti, oggi. Ma il dato più drammatico è che questo dipende anche dalla totale mancanza di adulti credibili, autentici testimoni della vita, nei suoi vari risvolti e nei suoi diversi livelli. Vale per uno sviluppo scolastico e umano, vale anche per una educazione al Mistero e alla fede. «Ogni volta che stiamo facendo qualcosa – scrive ancora Lancini – chiediamoci se lo stiamo facendo davvero per i nostri figli e studenti o per noi, per placare le ansie e le angosce che ci attanagliano nel nostro ruolo affettivo materno o paterno, se in testa abbiamo l’altro o noi stessi, il nostro equilibrio, le nostre contraddizioni di madre, padre, insegnante, educatore, psicologo». Il richiamo vale per ciascuno di noi, nei diversi ruoli che siamo chiamati a ricoprire, anche all’interno di gruppi e comunità ecclesiali: quante volte corriamo il rischio di caricare sulle spalle dei giovani i nostri fardelli! Quante volte, nei percorsi parrocchiali e vocazionali, vorremmo anche noi giovani che siano “se stessi, ma a modo nostro”! Eppure non è questo l’ideale educativo che troviamo nel Vangelo. A noi spetta il compito di esserci, di essere credenti e credibili in ciò che viviamo. «L’uomo contemporaneo – scriveva già san Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi – ascolta più volentieri i testimoni che i maestri e, se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni». Uno dei motivi del fascino che don Milani trasmette è proprio in questa sua radicalità, nel suo essere testimone di ciò che insegna. Io ripartirei proprio da qui.
FEDERICO COVILI