Bizzeti Paolo
UNA TERRA SACRA E DISSACRATA
2024/3, p. 14
La Bibbia e la pace per Israele/Palestina.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
ALLA RICERCA DELLA PACE
Una terra sacra e dissacrata
La Bibbia e la pace per Israele/Palestina.
Già dieci anni fa avevo scritto di quanto sia difficile affrontare con equilibrio lo spinoso argomento della pace nella Terra del Santo. Da allora le cose sono peggiorate sia a causa dell’arroganza dei coloni israeliani, sprezzanti di ogni risoluzione dell’ONU, sia del loro compiacente, sia a causa della crescita di potere da parte dei terroristi di Hamas. I terribili fatti avvenuti a partire dal 7 ottobre scorso, sono la riprova che non affrontando i gravi problemi legati a questa terra, la situazione non può che peggiorare. E non solo per Israele / Palestina ma per tutto il Medio Oriente e anche oltre. Non intendo qui addentrarmi in analisi politiche che non mi competono: intendo solo riaffermare che a volte si ha una visione “teologica” sbagliata della Terra del Santo. È perciò utile mostrare come fin dall’inizio le cose siano state problematiche, con buona pace di chi intende rivendicare un primato di possesso, dall’una e dall’altra parte.
Le storie patriarcali
La promessa della terra fatta ad Abramo, così spesso citata da parte di una parte di Israele, si scontra infatti da subito con un fatto che forse Abramo stesso non aveva previsto: arrivato alla mèta del suo cammino, scopre che la terra dove pensa di stabilirsi non è lì ad attenderlo come una vergine lo sposo: ci sono i Cananei con cui fare i conti! Arrivato nella terra di Canaan, inoltre, Dio non parla più solo per lui, per di più esprimendosi al futuro «Alla tua discendenza io darò questa terra» (Gen 12,7).
Tra il «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» e la promessa della terra alla futura discendenza, si consuma la vita di Abramo che, al termine del suo pellegrinare da nord a sud e viceversa (cf Gen 12 e 13 ecc.), possiederà solo la tomba acquistata dagli Hittiti! Tanto che sembra esserci come un sottile braccio di ferro tra il patriarca e la promessa del Signore, come si vede al capitolo 17: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra» (17,7); rispose Abramo: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?» (17,8). E di nuovo si rimanda alla discendenza il compimento della promessa, ma riaffermando ancora che questa terra rimane abitata da ben dieci popoli (17,18-21): «In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram: “Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate; la terra dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli Ittiti, i Perizziti, i Refaìm, gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei e i Gebusei”». Come sappiamo, questi racconti patriarcali sono stati definitivamente redatti nel tempo dell’esilio babilonese, in un’epoca in cui non a caso si era tornati nella terra dei Caldei da cui il padre di Abramo, Terach, aveva mosso il suo accampamento.
Il sogno del ritorno nella terra dei Padri
La vicenda di Abramo appare dunque scritta più che per raccontare un passato, per motivare l’andata nella terra di Canaan, cosa per nulla scontata visto che molti ebrei si erano felicemente insediati in Babilonia e in altre prosperose città della diaspora. Abramo è dunque il padre nella fede a cui guardare (Isaia 51,1b-2), ma non si parla di lui come di un consolidato e unico possidente della terra di Canaan. L’epopea patriarcale infatti non si incentra sulle terre fertili dei Cananei, ma sul crinale montagnoso o nelle zone ai margini del deserto, come Beersheva (Bersabea). L’autore della Lettera agli Ebrei l’ha capito benissimo: «Per fede Abramo soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe» (Eb 11, 8). Il libro della Genesi termina poi in Egitto: Giuseppe l’ebreo può esprimere tutta la sua saggezza più in terra straniera che a casa propria e tutti i popoli vengono nutriti in Egitto e non certo nella terra “dove scorre latte e miele”, in realtà attraversata da ricorrenti carestie. Il sogno di un ritorno nella terra dei Padri tuttavia rimane inossidabile e Giuseppe esprime i sentimenti del pio israelita quando ordina ai fratelli: «Io sto per essere riunito ai miei antenati: seppellitemi presso i miei padri nella caverna che è nel campo di Efron l’Ittita, nella caverna che si trova nel campo di Macpela di fronte a Mamre, nella terra di Canaan, quella che Abramo acquistò con il campo di Efron l’Ittita come proprietà sepolcrale. Là seppellirono Abramo e Sara sua moglie, là seppellirono Isacco e Rebecca sua moglie e là seppellii Lia. La proprietà del campo e della caverna che si trova in esso è stata acquistata dagli Ittiti» (Gen 49,29-32). Ma proprio questo fatto manifesta una spiritualità che fa riflettere: la terra promessa sembra essere la tomba, non un regno da amministrare o estesi campi da coltivare; se Giuseppe mirava a questo, l’Egitto era già perfetto!
Il desiderio del ritorno anima tutto il libro dell’Esodo, ma anche qui il progetto del Signore non parla mai della terra promessa come di un club esclusivo: «Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo» (Es 3,8). Anzi la maggioranza del popolo di Dio, vede questa terra e i suoi abitanti come un luogo per niente appetibile (Numeri 13,32-33). Inoltre il Pentateuco, la Torah, termina senza l’entrata nella terra promessa e lo stesso Mosè non potrà gioire del suo possesso: la terra rimane una promessa da realizzare. Gesù infine, si discosta sia dall’epopea della conquista spettacolare (vedi il libro di Giosuè) che da quella fragile e altalenante dei primi insediamenti (vedi il libro dei Giudici), promettendo che la terra sarà solo di coloro che praticano la mitezza: Beati i miti perché avranno in eredità la terra (Mt 5,5), con il verbo di nuovo al futuro e con la tradizionale convinzione che la terra è di Dio.
Forestieri e ospiti nella terra di Dio
Da questa breve ricognizione dei testi biblici, mi sembra appaia evidente almeno questo: nessuno può citare la Bibbia per rivendicare una proprietà esclusiva del territorio. Questa spetta solo a Dio, come sembra affermare la consapevolezza matura dello stesso Israele. Al riguardo Levitico 25,23 è chiarissimo: «Le terre non si potranno vendere, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti». Il popolo biblico sembra essere sempre più consapevole che l’elezione gratuita di Israele (vedi Dt 7,7), con tutto quel che ne consegue, è destinata a essere partecipata, prima o poi, alle nazioni (cf. Tobia 13; Is 49 e 60; Zaccaria 8, 2-14 ecc.). Il fallimento delle politiche di Esdra e Neemia, dell’epopea dei Maccabei, della dinastia asmonea e di quella erodiana, dovrebbero convincere tutti che ogni prospettiva di pulizia etnica o di miope autosufficienza, usando lo straniero solo per servizi di corvée, sui tempi lunghi della storia porta solo alla rovina. Del resto, già il patto del Sinai affermava che il comportamento verso lo straniero deve partire dal ricordo di essere stati a propria volta stranieri (Deuteronomio 5,15). Gesù, su questa stessa linea, nel discorso messianico nella sinagoga di Nazareth (cf. Lc 4,16-30), riafferma che il “dono” di Dio non è destinato a un’appropriazione gelosa perché lo straniero, l’orfano e la vedova sono beneficiari compresi nell’anno di grazia del Signore. Anche per questo però è stato rifiutato dai suoi e poi assassinato. A ciascuno di noi il Signore continua a domandare: «Dov’è tuo fratello? Dov’è tua sorella?» (Gen 4,9). […] Sul mio modo di pormi di fronte all’altro io sarò giudicato (Mt 25,31-46; Lc 6,27-38; Lettera di Giacomo 2,1-13; 1Gv 4,7-21 ecc.). A che serve invocare il nome di Dio se non lo si santifica con il riconoscimento, il rispetto e l'amore dell'uomo? (cf. Mt 7,21-23; Lc 6,46). A che vale una fede o una preghiera al Signore che non sbocchi nell'amore del fratello? (cf. Lettera ai Galati 5,6 ; Lettera di Giacomo 2,14-26 ecc.)».
Fondamentalismo e idolatria
Siamo al punto cruciale della nostra riflessione: rifarsi a questo o a quel testo della Bibbia separandolo da tutto il resto della rivelazione biblica, porta inevitabilmente al fondamentalismo religioso, uno dei peggiori flagelli della storia, peraltro tuttora in corso in molte parti del mondo. Anche la grande politica internazionale con le risoluzioni dell’ONU, sembra dimostrarsi inadeguata. Promuovere scavi archeologici per poter dire “qui noi c’eravamo” è un’operazione ideologica e miope, per non dire assurda: chi mai penserebbe di abbattere la basilica di san Pietro per ritrovare le tracce delle precedenti costruzioni? Il pensiero della gente comune che ritiene che tutto sia in mano ai politici e che da loro dipendano le sorti dei paesi, serve solo a giustificare la propria pigrizia: la storia ricorda e celebra il coraggio pubblico di Giovanni Battista, non l’ignavia di Erode Antipa. La verità è che anche il possesso di un pezzo di terra può diventare oggetto di idolatria. Un’idolatria che lungo i secoli ha contaminato tutti - ebrei, cristiani e musulmani – e che ha prodotto la smania di conquista a danno altrui: dall’usurpazione della vigna di Nabot da parte della regina Gezabele (cf. 1Re 21) - convinta come tanti politici e religiosi di ogni tempo che il proprio potere venisse da Dio e che il fine giustifica i mezzi - fino al tentativo dell’Impero Latino d’Oriente (proclamato nel 1204 a Bisanzio) o al decreto del IV Concilio Lateranense Ad liberandam con cui Innocenzo III nel 1213 indiceva la Quinta crociata affermando che «La potenza di Maometto è giunta alla sua fine, poiché tale potenza è per l’appunto la bestia dell’Apocalisse che non vivrà più di 666 anni, e già sei secoli sono compiuti». E oggi potremmo elencare tanti casi recenti in Africa e Medio Oriente. Ebbene, ciò che ne risulta è solo e sempre lo sterminio di innocenti e la sconfitta del despota di turno.
Un laboratorio mondiale per cercare la pace
Tra religione e politica, la via della pace prosegue invece nel rifiuto dell’isolamento, vincendo l'illusione di affidare la propria sicurezza solo ai “carri” (cf. Salmi 20, 33 e 147; Osea 1,7; ecc.)! La tematica della pace va perciò affrontata a livello antropologico e teologico, non semplicemente tecnico, strategico, politico. Ogni concezione religiosa (ebraica, cristiana o musulmana che sia) che nega la giusta autonomia e libertà di movimento al popolo diverso che la storia fa trovare come vicino di casa, non solo va contro i testi fondanti delle tre religioni – peraltro complessi e da interpretare – ma provoca una sterile spaccatura nella coscienza delle persone. Cercare la pace a tutti i costi è l’unica strada sensata a favore di tutti. Infatti le guerre e le rivolte arabe/palestinesi hanno peggiorato la situazione del popolo palestinese e la forza militare di Israele, sostenuta dagli USA e dall’opportunismo europeo, non ha dato quella sicurezza che si aspettava. La via della pace passa perciò attraverso l’umile riconoscimento che nessuno, sul piano storico, ha diritto di lanciare missili o invadere con i carri armati e nessuno può far finta di essere fuori dalla mischia. La terra di Canaan, Palestina, Israele, Terra Santa o come la si voglia chiamare, ancora una volta è il laboratorio mondiale per cercare nuove vie, nell’ascolto dell’unico Dio che convoca tutti i popoli a Gerusalemme per camminare sui suoi sentieri (cf. Is 2,3; Zac 8,20-22).
+ PAOLO BIZZETI gesuita,
Vicario apostolico dell’Anatolia
֎ Per gentile concessione della rivista “Credere oggi”, Edizioni Messaggero Padova