Hernández Jean Paul
Il Magistero di papa Francesco fecondo per la vita religiosa
2024/2, p. 1
Sono innumerevoli i possibili approcci al Magistero di papa Francesco. In queste pagine (in una nostra riduzione) riportiamo alcune metafore e linee portanti, che il gesuita Jean Paul Hernández ha proposto nella sua relazione all’Assemblea nazionale della CISM: esse, sottolinea il teologo, nato in Svizzera in una famiglia di immigrati spagnoli, possono essere assunte come tracce generative per la vita religiosa in Italia e in Europa.

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Il Magistero di Francescofecondo per la vita religiosa
Sono innumerevoli i possibili approcci al Magistero di papa Francesco. In queste pagine (in una nostra riduzione) riportiamo alcune metafore e linee portanti, che il gesuita Jean Paul Hernández ha proposto nella sua relazione all’Assemblea nazionale della CISM: esse, sottolinea il teologo, nato in Svizzera in una famiglia di immigrati spagnoli, possono essere assunte come tracce generative per la vita religiosa in Italia e in Europa.
«Il Nome di Dio è misericordia»
Papa Francesco, sulla scia della svolta pastorale compiuta dal Vaticano II e proseguendo il cantiere della “nuova evangelizzazione” inaugurato dai suoi predecessori, ha chiaramente messo in evidenza lungo tutto il suo magistero l’infinita misericordia di Dio. Il titolo del suo libro Il Nome di Dio è misericordia potrebbe considerarsi il “basso continuo” del “kerygma papale”. Si tratta di una vera e propria “purificazione dalle false immagini di Dio”, ancorate troppo spesso a una impostazione puritana e pseudo-kantiana che confonde Vangelo e “dover-essere”.
In effetti, poco ha a che fare la liberante Buona Novella di un amore gratuito con l’etica piccolo-borghese di chi vede nel cristianesimo un insieme di regole e di “valori”. Insistere sulla radicale misericordia di Dio è tornare al nucleo generativo della rivelazione biblica, dove è Dio che salva. La fede nasce dall’esperienza dell’essere salvato, senza “se” e senza “ma”. Gesù (ebr. Jeshua) significa appunto “Dio salva”.
Riscoprire la fede come incontro e come relazione, e non come freddo “codice di comportamento”, rende giustizia a una rivelazione biblica che consiste basicamente nella lunga e lenta storia di una relazione. Più volte papa Francesco ha messo in guardia contro due derive presenti in tante predicazioni e proposte pastorali che sottilmente allontanano il credente dalla relazione, cioè dalla fede: il pelagianesimo e lo gnosticismo.
Il primo riduce la fede a un’«ortoprassi». Pelagio affermava che l’uomo può salvare se stesso perché non è intaccato dal peccato originale e non ha bisogno della grazia divina per fare opere buone. Oggi, quando diciamo per esempio che «quel non-credente è talmente generoso che è più cristiano di tanti cristiani», stiamo esattamente confondendo fede e “dover-essere”. L’atmosfera fondamentalmente agnostica della maggior parte delle realtà di volontariato sociale nella Chiesa dovrebbe farci capire che non siamo stati capaci di annunciare Dio come “misericordia”, cioè di annunciare il Vangelo. Anche oggi nella chiesa andiamo dietro a chi sa dire chiaramente cosa si “deve” fare. E proprio il Magistero di Francesco mette a volte a disagio perché non dà risposte già fatte ma rimanda al discernimento personale, cioè alla relazione viva con il Signore. Allora diventa di una bruciante attualità la parabola del Buon Samaritano che papa Francesco ripropone nel dettaglio nel secondo capitolo della Fratelli tutti. Il punto non è ciò che “devo fare” per il prossimo, il punto è scoprire che il Samaritano si è “fatto prossimo” a me e mi ha salvato.
La seconda tentazione individuata da papa Francesco, lo gnosticismo, è agli antipodi della prima ma in un certo senso le è “speculare”, cioè arriva alla stessa negazione della relazione. Si tratta di quella ricerca del “benessere interiore” attraverso percorsi di autoconsapevolezza e di “interiorità”. In un contesto sempre più appiattito sul materiale, sembra che tutti vogliano la preghiera ma tutti temono che in essa si possa incontrare un “Altro”. Quello che è difficile da accettare è che “siamo salvati”. Quello che disturba profondamente è proprio “la misericordia”. Eppure è il cuore del kerygma evangelico. Ed è la missione del successore di Pietro richiamarcelo continuamente. In un certo senso possiamo dire che la misericordia è quel crinale difficilissimo da cui continuamente si scivola giù o sul versante che riduce la fede a un’etica o sul versante che riduce la fede a un’auto-consapevolezza. Il crinale della misericordia è la fede stessa.
«Callejeros de la fe»
Più volte, anche prima del Sinodo del 2018 sui giovani, papa Francesco ha usato un’espressione particolare per incoraggiare i giovani. Li ha invitati ad essere “callejeros de la fe”. È un’espressione spagnola che difficilmente trova una traduzione soddisfacente in altre lingue. “Callejero” viene dalla parola “calle” (in italiano “strada”) e significa “della strada” o “da strada”. Durante il sinodo abbiamo assistito alle più svariate traduzioni: il simil-medievale “pèlerins de la foi” francese, il poetico “viandanti della fede” italiano, e l’inglese “street preechers” dal sapore evangelical. In realtà “callejeros de la fe” si comprende solo alla luce del contesto in cui il parroco Bergoglio nelle periferie di Buenos Aires mandava i suoi giovani in una sorta di “missione popolare” caratterizzata dalla leggerezza, dalle tonalità festose e dall’audacia di bussare a tutte le porte. Giovani che al tempo stesso “facevano strada” e “stavano in strada”. “Callejeros de la fe” potrebbe dunque tradursi in modo meno impreciso con “credenti da strada”. “Callejeros de la fe” mette genialmente insieme queste due dimensioni: quella classica e biblica che vede la fede come un “cammino” e quella più profetica della “chiesa in uscita”, cioè di una chiesa che sa stare per strada.
Sulla prima dimensione, il pensiero di Bergoglio è stato spesso criticato come mancante di precisione, troppo intuitivo, privo di sicurezze o di punti fermi. Tra l’altro, lui stesso ha teorizzato l’importanza del “pensiero incompleto”. Proprio perché la fede è una relazione (e non un sistema chiuso di regole o di teorie) essa è una storia. È un divenire. Un processo. Non a caso il pontefice fin dalla sua prima enciclica invita ad “accompagnare processi” più che a “occupare spazi”. La fede è un cammino esposto alle più impreviste variazioni, eppure proprio questo cammino segna la continuità di una relazione. Il pellegrino Gesù rivela il pellegrinaggio di Dio con l’uomo, sempre uguale a se stesso perché sempre capace di “camminare-con”. In questo senso, l’unico vero “synodo” è Gesù stesso. Solo l’invariabile fedeltà è capace di sbilanciarsi, cioè di camminare, di cambiare luogo, passo, orizzonte. Non a caso negli Atti i primi cristiani sono chiamati “quelli della via”.
Nella sua “destabilizzante mobilità” la proposta di papa Francesco invita a una fedeltà più profonda. La fedeltà non a dei principi o a delle formule fisse per sempre, la fedeltà non a delle istituzioni o a delle sicurezze umane, ma la fedeltà solo ed esclusivamente a una Persona, a un Vivente, il Cristo. La fede è viva se è relazione col Vivente.
Ma la seconda dimensione dei “callejeros de la fe” caratterizza ancora maggiormente il Magistero di papa Francesco. Il credente, e in particolare il giovane credente, deve uscire dalle sagrestie, uscire dalla sua “comfort zone”, ed essere capace di “abitare la strada”. È ciò che il papa dice quando urge ad abitare da credenti le “periferie esistenziali”. Andare a portare la Buona Notizia “fino agli ultimi confini della terra” come già leggiamo negli Atti si traduce per Bergoglio nell’«odore delle pecore» che caratterizza il buon pastore. “Chiesa in uscita” significa anche lasciare la posizione di potere o di centralità da cui spesso la chiesa istituzionale agisce ancora: clientelismo, clericalismo, privilegi, mancanza di vero ascolto. Viene da dire che forse solo quando la chiesa avrà perso tutti i suoi strumenti di potere, e addirittura tutti i suoi edifici, allora si troverà finalmente come si suol dire “per strada”. E allora sarà obbligata a porre la sua speranza solo in Colui che da sempre la aspettava “per strada”, colui che è “La” Strada, la Verità e la Vita.
«Ospedale da campo»
Dalle prime interviste rilasciate dopo la sua elezione a papa, Francesco lancia un’insolita metafora: la chiesa come “ospedale da campo”. Questa audace immagine ha un importante implicito: il pontefice considera un’umanità ferita, anzi “in guerra”. Negli esercizi spirituali, Sant’Ignazio di Loyola, all’inizio della “seconda settimana”, invita l’esercitante a contemplare la dinamica dell’Incarnazione immaginando come la Trinità osserva il mondo. È un mondo appunto ferito, in guerra, affetto da tutte le possibili calamità e pericoli. È imparare a guardare “con gli occhi della Trinità”, far coincidere sguardo e amore, conoscenza e dono di sé. Per papa Francesco la chiesa si spiega alla luce di questo bisogno pressante, di questa urgenza drammatica, di un mondo che soffre.
In questa visione della chiesa, papa Francesco è in profonda continuità con i testi dell’Antico Testamento che descrivono la vocazione profetica come la risposta a una mancanza del popolo. Papa Francesco ha più volte sottolineato che se la chiesa diventa fine a se stessa, essa perde la sua ragion d’essere. La ragion d’essere della chiesa è fuori da sé, è la ferita del mondo.
Ma dire che la chiesa è un “ospedale da campo” significa anche che essa accoglie «tutti tutti tutti» come ha ribadito recentemente alle GMG di Lisbona. Lo stesso papa, nella sua prima intervista, esplicita la metafora spiegando che al ferito che arriva in condizioni disastrose in un ospedale da campo non gli si chiede il tesserino, né se si è sempre comportato bene sul campo di battaglia, ma lo si accoglie “senza condizioni”. E inoltre, se si sta dissanguando non lo si invita a una sofisticata dieta ayurvedica né gli si insegnano gli esercizi di stretching, ma si va dritto all’essenziale. Per Francesco l’essenziale è il kerygma, l’annuncio dell’amore folle di Dio, l’incontro con il Cristo vivente. Il resto può aspettare, il resto arriverà pian piano. Quando il paziente starà meglio.
La metafora dell’ospedale da campo implica anche che la chiesa è “vitale” per il mondo, ma non “centrale”. Anzi, la chiesa si sposterà a seconda degli spostamenti del “fronte”. Ogni battaglia dell’umanità è una nuova chiamata per la chiesa. Si sente arrivare già subito la solita critica: ma la chiesa non deve “seguire il mondo”. Potremmo rispondere con le parole del Vangelo: la chiesa non è “del mondo” ma è “nel mondo”, perché è nata solo ed esclusivamente per guarire questo mondo e non un altro.
Ancora: l’ospedale da campo è, in una guerra, il principale “segno di speranza”. Nell’ospedale da campo è dove si inizia a pensare al “dopo”. È dove il dolore si trasforma in saggezza. Al tempo stesso l’ospedale da campo è terribilmente vulnerabile. Non ha nessun mezzo per difendersi. Tutto è concentrato sul servizio e l’accoglienza. L’ospedale da campo è una struttura leggera, mobile, non appesantita da inutili murature. È di fatto una tenda. L’ospedale da campo è come una traduzione metaforica di quella “tenda del Convegno” che nell’esodo permetteva in ogni momento all’accampamento di Israele di sapere che il Signore non aveva abbandonato il suo popolo.
Possiamo, infine, scegliere altre tre costanti del Magistero di papa Francesco: esse non corrispondono più a delle sue metafore o frasi a impatto ma sono delle chiavi interpretative con le quali indaghiamo trasversalmente il Magistero del papa.
a) Annuncio fra creazione e salvezza
Dall’inizio del suo pontificato papa Francesco insiste sull’urgenza dell’annuncio del Vangelo e della trasmissione della fede alle nuove generazioni. Nel fondo, è la ragion d’essere della chiesa: “tramandare Gesù”. Eppure papa Francesco aggiunge una connotazione specifica in questa opera di evangelizzazione. Per lui, evangelizzare non è fare “proselitismo” ma è “testimoniare”. Alla fede si arriva “per attrazione”, non per “strategico convincimento”.
b) La chiesa in esilio
Assistiamo a un crollo epocale delle istituzioni ecclesiali, una cancellazione assoluta del ruolo sociale della chiesa, una perdita radicale di credibilità. Gli scandali, la rilettura della storia in chiave anti-cristiana, l’amnesia velocissima della cultura cristiana, hanno portato gli sparuti gruppi di credenti a una situazione di vero e proprio “esilio”. Potremmo quasi dire con il popolo in Babilonia: «ora siamo umiliati per tutta la terra a causa dei nostri peccati. Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia» (Dn 3,37-38).
Osiamo attualizzare questo insegnamento! Quante istituzioni ecclesiastiche si sono “svuotate” dalla fede! Quanti enti religiosi, ONG di ispirazione cristiana, scuole cattoliche, cooperative, opere parrocchiali, ecc… non tematizzano più il rapporto vivo con Gesù Cristo. In questo, viene meno la loro stessa ragion d’essere. Se dalla chiesa togliamo Cristo, rimane solo il potere per il potere. Cioè l’anti-Cristo.
c) Il “ritorno”
C’è ancora chi pensa che quando la chiesa “tornerà dall’esilio della secolarizzazione”, tutto ridiventerà “finalmente come prima”. Ma sappiamo bene che il popolo d’Israele torna drasticamente trasformato dall’esperienza dell’esilio. Dall’esilio, Israele ha scoperto soprattutto che la salvezza è promessa a tutti i popoli. È stato infatti un “messia pagano”, il re persiano Ciro, che ha permesso ad Israele di ritornare alla propria terra, perché ha riconosciuto il Dio di Israele come Dio di tutti i popoli. Potremmo dire parafrasando papa Francesco: “salvezza” significa «salvezza per tutti tutti tutti». Anzi: la salvezza “adviene” quando la si riconosce per «tutti tutti tutti».
In definitiva il Magistero di papa Francesco è un invito ad ascoltare il grido di ogni esiliato come grammatica della Buona Novella. E a ritrovarsi allora “chiesa dai piedi belli” che dai monti proclama la consolazione.
JEAN PAUL HERNÁNDEZ, sj