IL MEDIO ORIENTE NELLA SPIRALE DELLE GUERRE
2024/2, p. 42
La guerra tra Israele e Hamas, scoppiata il 7 ottobre scorso, sta di fatto sconvolgendo gli equilibri geopolitici del Medio Oriente. La posta in gioco è quella di impedire che lo scontro si trascini all’infinito, con un costo di vite umane inaudito.
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IL DRAMMA DEI CONFLITTI
Il Medio Oriente
nella spirale delle guerre
La guerra tra Israele e Hamas, scoppiata il 7 ottobre scorso, sta di fatto sconvolgendo gli equilibri geopolitici del Medio Oriente. La posta in gioco è quella di impedire che lo scontro si trascini all’infinito, con un costo di vite umane inaudito.
Il conflitto in corso, mentre stiamo scrivendo, sembra essere entrato in una nuova fase, per stessa ammissione dei vertici militari israeliani. Già a fine ottobre il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant aveva esposto i piani e gli obiettivi d’Israele nella Striscia di Gaza, parlando di fronte alla Commissione Esteri e Difesa della Knesset, il parlamento israeliano. «Siamo nella prima fase, in cui si sta svolgendo una campagna militare con attacchi aerei e successivamente, con una manovra di terra con lo scopo di distruggere Hamas e danneggiare le infrastrutture». Nella seconda fase, quella in corso in queste settimane, i combattimenti si sarebbero svolti con un'intensità minore, ma con lo scopo preciso di «eliminare le sacche di resistenza». Il terzo passo, ancora di là da venire, prevede «la creazione di un nuovo regime di sicurezza nella Striscia di Gaza», con l’intento di creare un nuovo assetto politico nella Striscia. Quale sarà, non è facile a dirsi.
La scommessa per la pace
Secondo quanto trapela dalle cancellerie occidentali che si stanno cimentando con il difficile compito di favorire una exit strategy alla guerra, il primo passo dovrebbe essere la sostituzione delle attuali leadership israeliana e palestinese. Il secondo prevederebbe elezioni o una consultazione popolare che legittimi i nuovi leader. Poi la presenza a Gaza della comunità internazionale, con ruolo di primo piano dei Paesi arabi, che dovrebbero fornire contingenti militari per il mantenimento della pace. Ma soprattutto un calendario certo per la fine dell’occupazione in Cisgiordania, il ritorno entro i confini del 1967 di almeno 100mila coloni, restituzione di terre in cambio di accordi sulla sicurezza e la nascita di un’entità statale palestinese (eventualità propugnata da più parti ma per nulla condivisa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu). Da non trascurare, l’impegno a contrastare la violenza con cui gli estremisti delle due parti tenteranno di boicottare gli accordi. Libro dei sogni? Possibilità concreta sulla quale scommettere? La posta in gioco è sicuramente alta: impedire che questa guerra si trascini all’infinito, con un costo di vite umane inaudito.
Collasso e devastazione
Mentre la soluzione politica del conflitto sembra purtroppo ancora di là da venire, nella Striscia la situazione è al collasso. Non ci sono solo i quasi 25 mila morti e i circa 7 mila dispersi (quasi tutti civili, la stragrande maggioranza donne e bambini), ma c’è il baratro umanitario nel quale è piombata la popolazione. Prima del conflitto l’economia palestinese era già in recessione: nel primo semestre del 2023 la contrazione era del 3 per cento nei Territori palestinesi e del 4,4 per cento a Gaza, in virtù del calo nell’agricoltura e nella pesca dopo l’introduzione da parte di Israele, nell’agosto 2022, di ulteriori restrizioni alla vendita di prodotti made in Gaza. Oggi, dopo quattro mesi di bombardamenti, i danni sono senza precedenti: oltre il 60 per cento delle infrastrutture di telecomunicazioni e delle strutture sanitarie ed educative sono state rase al suolo, così come il 70 per cento delle imprese commerciali e oltre metà delle strade. La povertà era già endemica a Gaza prima del 7 ottobre, con un tasso di disoccupazione del 45 per cento, che raggiungeva il 60 per cento tra i giovani. Oggi manca cibo, acqua, medicine ed elettricità: i 2 milioni e 300 mila gazawi sono totalmente dipendenti dagli aiuti internazionali, che però sono concessi con il contagocce e faticano a raggiungere chi ha bisogno.
L’impatto della guerra è devastante anche in Cisgiordania, dove – secondo le stime – sono andati persi oltre 200 mila posti di lavoro di palestinesi che lavoravano in Israele o nelle colonie, cancellati dal crollo del turismo, del commercio e dall’impossibilità di portare a termine la stagione agricola (specie quella legata alla raccolta delle olive). In seguito all’attacco di Hamas, Israele ha emanato nuove restrizioni alla mobilità dentro i Territori (provvedimenti che hanno colpito almeno 67 mila lavoratori che non sono più stati in grado di raggiungere il posto di lavoro), ma poco o nulla ha fatto per limitare l’aumento della violenza da parte dei coloni e dell’esercito, con oltre 350 palestinesi uccisi dal 7 ottobre in raid e incursioni condotte allo scopo di stranare cellule terroristiche (ma che poi hanno finito anche per colpire civili innocenti). Per amore di verità, va detto che anche per Israele – oltre ai morti e ai rapiti in seguito all’attacco criminale di Hamas (1200 morti, 250 rapiti, un imprecisato numero di soldati uccisi, comunque superiore ai 150) - la guerra ha avuto un impatto economico non indifferente. Secondo quanto riportato dagli organi di stampa, la guerra dentro Gaza costerà probabilmente almeno 14 miliardi di dollari solo nei primi due mesi nel 2024 e farà triplicare il deficit di bilancio. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, uno dei falchi del governo Netanyahu, espressione della destra nazionalista, ha stimato una contrazione economica nel quarto trimestre del 2023 quantificabile nel 19 per cento. Pesa in maniera considerevole, il blocco del turismo (religioso e non) che ha sempre rappresentato una importante voce nel bilancio dello Stato. In questo quadro di difficoltà economica e di grave tensione interna, si leva la voce (per ora inascoltata) dei gruppi della società civile israeliana, guidati da Standing Together e Women Wage Peace, che protestano contro la guerra a Gaza. Nadav Shofet, un attivista di Standing Together, non ha dubbi: «Davanti a noi abbiamo due alternative: o la pace israelo-palestinese, l'unica cosa che porterà la pace, o la guerra perpetua che garantisce una cosa sola, vale a dire molti altri anni di guerra, sofferenza e uccisioni». A Tel Aviv, nei giorni di fine gennaio, hanno sfilato alcune migliaia di persone brandendo cartelli con le scritte: «cessate il fuoco adesso» e «solo la pace porterà sicurezza».
I contraccolpi e i focolai di tensione
La guerra tra Israele e Hamas ha innescato infatti una serie (non ancora del tutto definita e definibile) di contraccolpi e focolai di tensione in Medio Oriente che sono tutto tranne una garanzia di sicurezza per Israele. Come per l’esplosione di una supernova, le scorie della tragedia di Gaza stanno contaminando altri contesti. Il vero e proprio convitato di pietra, in questa sanguinaria bagarre mediorientale, è soprattutto Teheran. Non è un mistero che l’Iran sia sempre stato tra i principali sponsor di Hamas in chiave anti-israeliana. E che la guerra tra i miliziani fondamentalisti della Striscia e Israele abbia avuto come effetto pratico quello di far saltare l’accordo tra Israele e Arabia Saudita, nel quadro della normalizzazione delle relazioni previste dai cosiddetti Accordi di Abramo, promossi da Donald Trump. Un passo certamente inviso e non accettabile da Teheran. Ma se fino a poche settimane fa l’Iran appariva più prudente e poco incline a trasformare i combattimenti di confine delle milizie sciite libanesi Hezbollah in uno scontro aperto (e alla fine i razzi lanciati verso le città israeliane potevano essere catalogati come un deterrente tattico per distogliere forze militari israeliane da Gaza e dalla Cisgiordania), oggi lo scenario sembra purtroppo mutato. In peggio. È vero che Hezbollah mira ad accreditarsi in Libano come un movimento che appoggia la causa palestinese senza però trascinare il Paese in guerra. È altresì vero che l’Iran, paladino della causa palestinese, è stato fin qui attento a non allargare il conflitto, evitando di costringere gli Stati Uniti – per proteggere Israele – a uno scontro militare diretto in Medio Oriente.
La pericolosa partita dell’Iran
È però evidente che il protrarsi della guerra di Gaza, le immagini di morte e distruzione che vengono ogni giorno riversate dalle televisioni arabe nelle case di milioni di musulmani mediorientali e non solo, stanno cambiando la percezione. Inducendo Teheran ad alzare il tiro e a giocare qualche carta pericolosa servendosi della costellazione delle milizie sciite alleate nei vari Paesi. In primis in Libano, dove Israele ha attaccato postazioni delle milizie sciite Hezbollah. Già dall’inizio di gennaio l’esercito israeliano si preparava a «qualsiasi scenario», dopo aver attaccato e ucciso alla periferia di Beirut Saleh al Arouri, il numero due del movimento islamista palestinese Hamas. Le incursioni sono proseguite in un crescendo, in risposta a lanci di razzi verso Israele. L’esercito israeliano, a metà gennaio, ha intrapreso azioni combinate con artiglieria e aviazione con lo scopo di colpire le postazioni delle milizie filoiraniane Hezbollah. Anche dalle Alture del Golan e dalle aree limitrofe della Siria si teme una escalation legata alla presenza di milizie filoiraniane, che non trascurano di lanciare missili balistici verso Israele. C’è poi il fronte caldo del Mar Rosso, con le fazioni sciite filoiraniane Houthi, che attaccano mercantili occidentali (non russi o cinesi) diretti verso il Canale di Suez, con l’intento di danneggiare l’economia di Usa e Europa. E costringere in questo modo anche le potenze occidentali a intraprendere azioni di guerra. Dalle coste dello Yemen, paese distrutto da una lunga guerra intestina (anche qui condotta conto terzi, tra Arabia Saudita e Iran), gli ayatollah cercano di tendere all’intero Occidente una trappola mortale, dalla quale bisognerebbe però stare alla larga. Finora Teheran ha cercato di fomentare azioni di guerra che si servono di gruppi che agiscono per procura. Una partita pericolosa, perché le continue minacce e provocazioni di Teheran a Israele, tramite Hezbollah, gli Houthi yemeniti o le milizie del Golan, potrebbero determinare qualche incidente tra i due Paesi. O sortire qualche attacco preventivo dell’aviazione di Tel Aviv su obiettivi interni all’Iran, fatto questo che avrebbe conseguenze inimmaginabili. E davvero porterebbe con sé un’escalation di guerra alla quale difficilmente potrebbero sottrarsi le potenze occidentali.
GIUSEPPE CAFFULLI,
giornalista e direttore presso le Edizioni Terra Santa