Vita consacrata laboratorio di nuove visioni
2024/2, p. 32
Per poterne ri-orientare il processo di sviluppo, la vita religiosa ha ora bisogno di più pensiero e di nuove «visioni», senza le quali va a perdere ogni tensione progettuale.
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RIORIENTARE PROCESSI DI SVILUPPO
Vita consacrata
laboratorio di nuove visioni
Per poterne ri-orientare il processo di sviluppo, la vita religiosa ha ora bisogno di più pensiero e di nuove «visioni», senza le quali va a perdere ogni tensione progettuale.
In un tempo in cui i punti di contatto tra la cultura attuale e le forme storiche di vita religiosa sono molto pochi, gli sforzi di questi ultimi cinquant’anni per farli interagire, non sono stati produttivi: da qui la possibilità che una forma di vita istituzionale si esaurisca, per il fatto che una anacronistica fissità, oggi interessa molto poco.
La vita consacrata ha bisogno
di crescere nella “visione”
Per poterne ri-orientare il processo di sviluppo, la vita religiosa ha ora bisogno di più pensiero e di nuove «visioni», senza le quali va a perdere ogni tensione progettuale. La conseguenza è di afflosciarsi nella palude delle scelte di piccolo cabotaggio, per finire con il non essere più in grado di aprire varchi alla luce di visioni inedite, capaci di coltivarne il desiderio. Vale a dire che per ogni modello arcaico arriva il tempo d’essere sentito come artificiale, ossia che ogni obiettivo ha significatività se accetta da subito di essere perennemente evolutivo.
Oggi l’attenzione non è sulle «etichette» di una data forma di VC o sui riconoscimenti giuridici, ma sulle evidenze evangeliche che tali si definiscono dalla vita in atto, cioè dal mostrare quanto sia viva l’azione dello Spirito Santo. Per cui se non permetteremo alla novità dello Spirito di entrare e di modificare ciò che deve essere cambiato, lo stesso Spirito troverà la sua strada, lasciandoci ai margini degli avvenimenti di questa umanità.
È proprio dalla consapevolezza di ciò, e delle insospettate possibilità che questa crisi rivelava, che presero l’avvio – specie dopo il Concilio – molteplici forme di vita evangelico-discepolari definite da Benedetto XVI «provvidenziali soprattutto perché lo Spirito santificatore sta servendosi di esse per risvegliare la fede nei cuori di tanti cristiani aiutandoli ad essere testimoni di speranza».
«Servono laboratori di nuove visioni»
È difficile vedere nella maggior parte delle attuali forme di governo (ad esempio i “Capitoli”), la sorgente e la forza che invia a fare qualcosa di diverso; da qui la necessità di «nuovi laboratori» che portino a vivere la crisi come un passaggio verso il futuro, avendo presente che oggi la vera identità è data dall’esito di uno sviluppo che non si compie una volta per sempre, ma che guarda al cambiamento come elemento diventato strutturale del farsi della realtà.
Nella Bibbia, alla parola «visione» si accompagna spesso la parola «sogno». È questa una categoria molto cara a papa Francesco, che nell’enciclica Evangelii Gaudium dice: «io sogno una Chiesa …» e poi continua con il descrivere una «visione», che sia in grado di orientare a una forma di «vita-insieme» che oggi non è data da ciò che si fa congiuntamente, ma dal condividere una «visione» con coloro che nel sostantivo «sogno» non intravvedono i contorni irrealistici dell’illusione, ma desiderio, attesa, spinta a qualcosa di evangelicamente nuovo che si spera succeda. Questo modo di pensare – specie in questi ultimi sessant’anni – è andato preferibilmente incontro all’aspirazione di numerosi laici e laiche che avendo preso coscienza della novità radicale dei tempi attuali, e della crisi profonda che travaglia la Chiesa, hanno saputo dare forma a delle insospettate possibilità che questa crisi rivelava.
Ciò che avvertiamo in questo momento, «assomiglia a quello che Isaia sentì dire a Dio dentro di sé, veniamo e discutiamone: mettiamoci a sognare».
Processi di incarnazione nella realtà
Il progetto della VC non può divergere da quello di un Dio che si è fatto uomo. In futuro vivranno quindi quelle forme che saranno in grado di modellare la VC in profili, non unicamente «sacro-formali» oppure «aziendali», ma quelle rispondenti alle domande profonde di una spiritualità capace di dare risposte all’attuale domanda di senso in contesto di quella contemporaneità che porta con sé frutti umani di alto valore che chiedono di essere assunti, perché rispondenti, in tanta parte, all’insegnamento del Vangelo espresso con meno retorica teologica ma «più vita». Se il cristianesimo costituisce il compimento delle aspirazioni dell’umanità che tutti portiamo nel profondo del nostro essere, la vita religiosa non può esserne esclusa, ma anzi dovrà far trasparire dal volto di chi la professa, il ritratto vivo di quella persona in cui il divino e l’umano si abbracciano con ammirevole naturalezza. Da qui la necessità che la sua teologia porti a una spiritualità non separabile da un umanesimo integrale che fa della vita un qualcosa che è degno d’essere vissuto, perché il mistero dell’incarnazione si può capire correttamente se lo si intende come mistero dell’umanizzazione di Dio, che non significa restare senza Dio accontentandoci dell’umano. Dunque, al «chiamato» d’oggi non interessa più tutto ciò che non alimenta l’umano; ossia non si impegna più verso un codice, una regola scritta o un sistema prevalentemente caratterizzato da scambi formali e non lo sollecitano quei documenti che parlano di spiritualità, di comunione, di futuro, su basi dottrinali idealistiche, non realistiche, «virtuali» più che virtuose. Da qui il cambiamento percepibile nel dire di un giovane: «non ci interessa il divino che non faccia fiorire l’umano». E un altro: «cerco una vita che alimenti la vita stessa, ridonando alla vita religiosa la sua bellezza umana e divina, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi, l’unica ad essere atta a proclamare la gioia del credere».
Ridare un’anima al mondo
È tempo di ripensare una vita consacrata che per poter essere un appello per tutti e per ciascuno ad andare incontro ai fratelli in umanità, abbia lo sguardo e i sentimenti di Cristo stesso. Ma per tal fine ha bisogno di passare dal che cosa serve a sé, chiusa in sistemi di vita clerico-conventuali, al che cosa apporta alla vita dei cristiani. Per ciò non le è opportuno coltivare una spiritualità senza vera immersione nel territorio, essendo i religiosi/e per vocazione persone inviate per una presenza che non mira all’identificazione con un «servizio» o con una istituzione, ma alla scelta di voler essere tra la gente promotori di relazioni comunionali. Il suo impegno è allora quello di dare al Vangelo, nella sua essenzialità, la pienezza di credibilità attraverso parabole di vita vissute in comunità in cui le persone tornino a contare di più dei principi astratti. Si tratta di costruire fraternità in diaspora la cui prima caratteristica, in quanto missionarie, non sarà di essere orientate a sé, tendenti a costruire una società a parte, ma disperse nel mondo per poter essere trasparente annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria. Conseguentemente sopravvivranno realtà più liquide e meno centralisticamente centrate, il tutto all’interno di «strutture fisiche, mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, non aziendali, accoglienti, poco pesanti e aperte». Tra non molto – scriveva J.M. Tillard, co-artefice del Perfectae Caritatis – «ritroveremo indubbiamente quella che fu la condizione delle origini: piccoli gruppi disseminati, strutture molto duttili, stile di preghiera omogeneo a quello di tutta la comunità cristiana, fedeltà agli uomini, amore senza riserve per Gesù Cristo».
Tempo di nuovi equilibri tra «io» e «noi»
I religiosi e le religiose di questa nuova epoca, registrano vari problemi differenti da quelli dei nostri avi, tra i quali in particolare, quello dato dal crescente distacco tra il singolo soggetto e le grandi appartenenze collettive, cioè quelle organizzazioni che richiedono che tutte le proprie forze siano spese nella gestione strumentale delle risorse. Veniamo dal tempo in cui l’identità del singolo era data dal configurarsi in tutto all’Istituto, ma oggi sia l’identità che l’unità di gruppo non sono dati da un elemento istituzionale, ma da un senso di appartenenza che passa attraverso rapporti personali e dall’ essere accolti e valorizzati come persone, e non semplicemente come «personale» deputato ad assicurare tutta una serie di prestazioni, e soprattutto riconosciuti dall’ “io” e non solo dal “noi”. La sfida più impegnativa «in tutte le esperienze comunitarie – scrive L. Bruni – è riuscire a dare vita a un «noi» che non finisca per mangiare gli «io» delle singole persone che lo hanno generato. I nomi collettivi sono buoni e dalla parte della vita solo se sono accompagnati e preceduti dai nomi e pronomi personali. I «noi» senza gli «io» sono all’origine di tutte le patologie comunitarie e dei regimi illiberali, anche se si rivestono di una veste salvifica».
Ne consegue che se un tempo era una risposta sufficiente dire «io sono un religioso/a», ora questo non basta più: al “sono un religioso” va affiancato un qualcosa di personale che nessuna comunità può offrire al suo posto. Questo viene a dire che a differenza dalle generazioni precedenti, il grado di adesione all’istituzione ora non è più incondizionato, specie quando la struttura non tiene sufficientemente conto del settore “personale” in cui soltanto si può crescere e portare a compimento la propria identità.
Dunque mai come oggi la scommessa della vita religiosa si gioca nel trovare una risposta alla tensione tra libertà personale e dipendenza istituzionale, ossia tra il «noi» e l’«io», tenendo conto che specialmente alle nuove generazioni, della vita religiosa interessa la “vita” e non l’adesione generica a valori e principi altisonanti ma lontani, espressi con un insieme di gesti, riti e osservanze senza profondità e senza calore.
Rigenerarsi alla luce di nuove domande
Quali altre consapevolezze spingono a rischiare i passi su strade non ancora percorse?
Da vari decenni si sta assistendo al fatto che, nonostante le innumerevoli strategie di azione vocazionale difficilmente i/le giovani oggi si consacrano per tenere vivo il passato e nello stesso tempo si constata che nella vita religiosa la generatività non è data dal moltiplicare l’occupazione di «spazi», confondendo lo «sviluppo» con l’«espansione» misurata sul riscontro quantitativo dei numeri, ma è data dalla qualità dell’annuncio evangelico. Ne consegue che il futuro non potrà più essere pianificato attraverso l'applicazione di superati principi generali, ma avrà bisogno di rigenerarsi alla luce di nuove domande, memori dell’elogio di Gesù alla saggezza del padrone di casa che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e non solo quelle vecchie. Infatti oggi non si resta nella VC per un passato che tende a imprigionare, ma per la ricerca di un futuro che continua a liberare gli altri e se stessi. Infatti in questa nuova epoca «la perseveranza si nutre di ricerca, come in una relazione di amore».
Ad interrogare e interrogarsi in riferimento a un progetto d’avvenire sono oggi soprattutto i/le giovani la cui quasi totalità giunge con un bagaglio culturale ed esperienziale diverso dal passato. Giovani che si sono nutrite/i, nel periodo delle scuole superiori e università o di lavoro e dunque delle interrogazioni radicali della vita, che cercano forme trasparenti di annuncio di un nuovo tipo di società fraterna ed egualitaria. Le risposte prevalentemente misurate sulla razionalità istituzionale non tengono più, come non tengono – ad esempio – gli schemi sovraccarichi di forme devozionali alla deriva, anziché gli schemi frutto di uno sforzo di sintesi tra Parola e vita, capaci di ridisegnare continuamente i propri ambiti e propri scopi, chiara e trasparente espressione della forza liberatrice e sanante di Cristo.
La santità è altra cosa dall’essere manutentori di una spiritualità compassata e cupa vigilanza ascetica, ma dall’essere percorritori di cammini nati proprio dalla sete della vera vita, sotto ogni aspetto. Da qui la preferenza dei giovani ad orientarsi eventualmente su scelte evangelicamente «efficaci» ma nel contempo umanamente significative, perché oggi non si può parlare di salvezza in termini cristiani senza avere davanti agli occhi la salvezza di tutto l’essere uomo o donna. Si tratta dunque di ripensarne la figura (la forma) della VC non per rinchiuderci e riconfermare stili già acquisiti ma per allargare possibilità di vita, che proclamino la gioia del credere, liberando i valori intrinseci da quelli strumentali, e uscendo dalle strettoie storico-giuridiche che essa stessa si è imposte.
RINO COZZA csj