Montaldi Gianluca
A proposito di una pubblicazione strana
2024/2, p. 29
La scelta di pubblicare un commentario queer alla Bibbia può certo suscitare molte perplessità e molte discussioni… Ma viviamo nella consapevolezza che di fronte alla parola di Dio, non c’è un ‘noi’ e un ‘loro’, ma solo un autorevole e responsabile ‘noi’ e che solo insieme rispondiamo alla parola del Dio che ci chiama? In caso contrario trasformeremmo la Bibbia da evento di comunione, in strumento oppressivo che costruisce confini.

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LETTURE E PERCORSI NELLA REALTÀ
A proposito di una pubblicazione strana
La scelta di pubblicare un commentario queer alla Bibbia può certo suscitare molte perplessità e molte discussioni… Ma viviamo nella consapevolezza che di fronte alla parola di Dio, non c’è un ‘noi’ e un ‘loro’, ma solo un autorevole e responsabile ‘noi’ e che solo insieme rispondiamo alla parola del Dio che ci chiama? In caso contrario trasformeremmo la Bibbia da evento di comunione, in strumento oppressivo che costruisce confini.
Mi permetto di iniziare queste riflessioni a partire da una esperienza personale, che risale al tempo del mio impegno in una scuola paritaria. Una famiglia vi aveva iscritto uno dei propri figli, che stava vivendo un profondo disagio personale, con un cammino che lo ha condotto alla transizione di genere. Personalmente devo dire di essere molto sprovveduto a riguardo, ma certamente mi ha a suo tempo colpito la nostra incapacità – come scuola, come istituzione religiosa che aveva in cura la direzione scolastica e come comunità ecclesiale – a gestire il momento: il suggerimento è stato quello di iniziare un percorso psicologico. Il che andrebbe bene, se non fosse stato accompagnato anche dal desiderio esplicito che tale cammino avesse il proprio termine nell’accettazione del proprio genere biologico da parte del ragazzo e dalla comunicazione implicita che per lui – in realtà una lei – il vangelo non aveva niente da dire, né noi come comunità ecclesiale eravamo disposti a compiere insieme un percorso di ‘conversione’. Li abbiamo lasciati da soli e senza una parola di salvezza, considerandoli altro da noi.
Perplessità e domande
La scelta di pubblicare un commentario queer alla Bibbia può certo suscitare molte perplessità e molte discussioni, specialmente se viene presa da una editrice che rivendica la propria appartenenza ad una precisa tradizione ecclesiale e che ha nel proprio catalogo varie edizioni della Bibbia di Gerusalemme. Accanto a tali perplessità, tuttavia, dovrebbe anche restare la domanda: In quanto comunità ecclesiale cosa diamo alle persone queer? Assolviamo alla chiamata evangelica? Offriamo davvero a tutti loro e a tutte loro la possibilità di ricevere il dono della grazia e di quella grazia amorevole che passa dalla parola di Dio scritta, nella quale la condiscendenza della Sapienza divina si fa storia con noi, nella nostra storia e nel nostro vissuto? Ma soprattutto viviamo nella consapevolezza che qui, di fronte alla parola di Dio, non c’è un ‘noi’ e un ‘loro’, ma solo un autorevole e responsabile ‘noi’ e che solo insieme rispondiamo alla parola del Dio che ci chiama? In caso contrario trasformeremmo la Bibbia da evento di comunione, in strumento oppressivo che costruisce confini.
Del resto, non è affatto chiaro che ‘noi’ la Bibbia la sappiamo leggere. Veramente, una delle rivoluzioni più importanti nella storia della chiesa cattolica dopo Trento è stata – a mio parere – l’aver fatto propria nel concilio Vaticano II la teologia della Parola e della predicazione che si era andata elaborando sino ad allora. Non c’è dubbio che si siano fatti passi in avanti, imparando ad accostarsi al testo biblico con sempre più estrema umiltà e rispettando l’alterità di questo testo come segno della grazia. Eppure non siamo ancora capaci di rispettare il testo in quanto tale e di andare oltre le sue letture fondamentaliste. Difatti, il tentativo che stanno da tanto tempo facendo le scienze bibliche e che purtroppo non è ancora stato sufficientemente condiviso è quello di andare al testo in quanto altro da noi, consapevoli del salto storico e culturale che c’è tra noi e lui. Dovremmo, quindi, aver compreso da vario tempo che non possiamo attribuire alla Bibbia opinioni o concetti che sono nati solo in epoche recenti (come quello dell’omosessualità, per dirne uno).
Percorsi di conoscenza e consapevolezza
Veniamo dunque alla domanda dalla quale partono anche Selene Zorzi e Martin Lintner nella loro introduzione: «Tutto ciò detto, è lecita una lettura queer della Bibbia?». Vi è un fatto: la lettura femminista e quella queer del testo biblico sono un dato assodato da parecchio tempo e non è questo testo ad inventarle, né in Italia né nel mondo; sono due piste di studio che sono riuscite ad andare oltre il patriarcalismo e machismo che era comunque ancora presente nella lettura fatta dalla teologia della liberazione. In comune con questa hanno però la convinzione che lo sguardo a partire dalle vittime della storia e dai margini è un’opzione che determina un percorso e che la lettura della Bibbia deve portare non solo ad una ‘conversione’ personale ma soprattutto alla trasformazione delle strutture di ingiustizia e di peccato presenti nella società. Nella linea di queste considerazioni la lettura queer si pone accanto alle molte altre letture che si sono presentate nei secoli; per esempio attualmente è ancora parecchio diffusa una interpretazione antiebraica della Bibbia, cioè una lettura che suggerisce che il Secondo Testamento superi ed abolisca il Primo e che Gesù di Nazareth abbia chiuso definitivamente con l’ebraismo. Vi è anche una lettura antimoderna della Bibbia, che si rifiuta a livello di principio di accettare i risultati delle scienze fisiche e anche di quelle storiche; per esempio, sostenendo un creazionismo letteralistico e rifiutando la lettura storico-critica dei testi ebraici e cristiani.
La domanda, quindi, non è tanto sulla liceità di una lettura ermeneutica che come tale è sullo stesso piano di altre, ma invece cosa sia propriamente una lettura queer. Il commentario queer vuole essere prima di tutto uno strumento per rendersi conto di questo. Se bisogna rispondere in modo molto sintetico e semplice, credo si possa dire che è una lettura fatta all’interno di un mondo immaginario nel quale i rapporti tra le persone non sono governati da relazioni di potere, ma dalla consapevolezza della condivisa umanità con le sue ferite e le sue potenzialità. Immaginatevi un mondo nel quale non è la figura del padre ad avere l’ultima parola e a risolvere le cose e che anzi è costretto al silenzio di fronte alla morte del figlio prediletto; un mondo dove non ci sia un perché chiaro alla sofferenza e al male; un mondo nel quale l’unico imperativo è quello di amare; un mondo nel quale il regno è fatto di servizio; un mondo dove c’è continuità tra cielo e terra e inferi. Immaginatevi questo mondo e immaginatevi di rileggere dentro quel mondo la Bibbia. In parole queer, questo mondo è un mondo nel quale non è il maschio alfa, bianco e ricco a costituire il modello di riferimento di cosa significhi “essere umano” e a porsi come apice della stessa creazione. Se su questo già le ermeneutiche femministe avevano portato la nostra attenzione, entra qui in campo anche quella ricchezza di esistenze che non riescono ad essere incasellate nei vari dualismi gnoseologici con i quali è strutturato per lo meno il sapere occidentale (bene e male, bello e brutto, ricco e povero, maschio e femmina, eccetera). A qualcuno piace presentare questa immaginazione nella linea della fluidità del mondo moderno; a me pare più adeguato parlare invece di concretezza e resilienza della vita rispetto alla labilità e corruttibilità del concetto. Né si tratta di negare la maschilità del maschio o la femminilità della femmina; anzi, le performance drag giocano proprio sull’ambiguità che nasce dalla persistenza dei caratteri, ma per questo diventano un meccanismo resiliente verso una ideologia di genere nella quale siamo noi stessi – volenti o nolenti – già immersi.
Bibbia, esperienza di liberazione e di salvezza
Nel testo che stiamo commentando si parla molto spesso di ‘queerizzare’ la Bibbia, ma questo non significa o non dovrebbe significare fare violenza sul testo per trarlo dalla parte queer in modo da poter vincere una battaglia culturale; invece significa molto spesso ricordare i momenti biblici che sono stati forzati in una economia di binarismi ossessivi: paradossalmente la pretesa è mostrare la capacità performativa della Bibbia che rispetto alle categorie umane risulta lei stessa ‘stramba’ – cioè, ‘queer’ in quello che sembra il significato originario del termine –. È questo che l’ha sempre resa e ancora la rende esperienza di liberazione e, se possiamo dirlo, di salvezza.
Il commentario non è un libro perfetto. La mole delle pagine ha impedito l’accuratezza in tutti i particolari della traduzione dall’inglese, per esempio. Ugualmente, non tutti i contributi sono di pari efficacia e di pari livello. Accanto a spunti interessanti, alcune inferenze sono abbastanza vaghe, altre presentate in modo alquanto confuso e altre ancora devono essere meglio discusse in sede esegetica. La regola dell’indecenza metodologica non sempre aiuta chi non è preparato a recepire le idee. Non vi sono tutto sommato grosse novità rispetto alla letteratura specialistica già conosciuta. Eppure a me pare essere, anche con tutto questo, un utile strumento di studio e di approfondimento spirituale. Lo è certamente per quelle persone credenti che troppo spesso si sentono accantonate ai margini o nel sottosuolo della vita ecclesiale: che possano riprendere in mano la Bibbia e scoprire di non essere “condannate a prescindere” (per lo meno, di non esserlo più di ogni altra persona), è il mio augurio. Lo potrebbe essere per tutta la comunità credente, per imparare a rispettare il testo biblico «come è veramente, quale parola di Dio, che opera» con libertà in chi crede (cfr. 1Ts 2,13) e non semplicemente rafforzando modelli ideali e sociali acquisiti. Lo è, si spera, per tutta la nostra società. Una delle recensioni negative più intelligenti al testo sottolinea come l’ermeneutica legata agli studi di genere si trovi sempre di fronte ad un paradosso: se il genere è un costrutto sociale come lo si può reclamare nel costruire una identità personale e se il genere è invece una identità personale come può la società imporlo alle persone? Non so come realmente rispondere, ma almeno mi sia lecito sperare che non sia possibile appellarsi alla Bibbia per impedire a qualche persona di amare nelle sue inclinazioni naturali. E se è successo, di potervi porre ora rimedio.
GIANLUCA MONTALDI